Edito da PlanetEdizioni nel 2020 • Pagine: 142 • Compra su Amazon
Nico e Stella appartengono a classi sociali diverse. Il Covid-19 li costringe a conoscersi. Lui ha una patologia agli occhi e deve sopportare anche il dramma della perdita del lavoro del padre. Lei, in uno slancio di affetto definitivo, gli fa capire che il mondo è complesso e che - tuttavia - c'è sempre una soluzione, una speranza. Questa prova letteraria è per l’autore l’occasione per cimentarsi in un genere che ama particolarmente. Si tratta di uno stile che da qualche anno è in voga nel mondo dei teenager, la letteratura Young Adult. Essa nasce per un pubblico giovane ma è sostanzialmente trans generazionale.
Sembravamo in fuga da Riverdale
In un tempo in bilico tra la fine della notte e i primi raggi dell’alba, io e mio padre guardavamo il paesaggio brumoso della strada.
Ci lasciavamo alle spalle – finalmente! – tutti gli intrighi di quella oscura cittadina degli USA ancora avvolta dal buio e pronta a fagocitarti, a darti dei misteri da risolvere.
Via, via da lì, con destinazione un posto dove respirare gocce di serenità!
Avevo sedici anni, un problema agli occhi e tanta, ma tanta immaginazione.
Ci faceva compagnia il rumore della vecchia Panda gravosa di anni.
Il motore del ‘coso’ faceva un sacco di versi, ma insisteva con il suo pur fiato corto a trascinarci sulla strada quasi deserta.
Aveva piovuto e sotto i fari del nostro eroico mezzo di trasporto, la linea di mezzeria pareva un nastro caduto dal cielo a dividere il luccicante tappeto stradale.
Era rimasta solo una pioggia sottilissima e di difficile individuazione.
Ma non per il parabrezza.
Le minuscole perline di acqua gelata facevano abbastanza presto a creare un alone su di esso.
Unica soluzione, chiamare aiuto.
E l’aiuto venne.
Erano solo due soldatini, senza armi e senza tromba per segnalare la carica.
Mio padre mosse in basso la levetta per la loro accensione ed essi, allegramente, partirono.
Le due spazzole tergicristalli, in perfetto sincrono, sembravano bacchette di direttori d’orchestra.
Il loro repertorio era costituito da un unico brano, ma essi lo conoscevano a menadito e pertanto lo eseguivano con estrema professionalità.
E i risultati non mancarono.
La visione era ottimale.
Ovviamente per mio padre, non per me alle prese con un paio di occhiali di scarso aiuto montati su due occhi di scarso uso.
Diedi un’occhiata all’interno della macchina, come non l’avessi mai valutata.
Mi sembrò proprio appartenente a un’altra era.
Quasi geologica, più che industriale.
Mi piaceva, mio padre la usava solo per raggiungere la nostra casina di campagna.
«Scusa papà, ma questa auto quando andava di moda?» chiesi giusto per mettere su qualcosa che somigliasse a un discorso.
Lui rispose con una risata cortese:
«Hai detto, ‘di moda’? Ma… figuriamoci, questi ‘affari’ non appartengono alla categoria degli oggetti che possano fregiarsi della parola ‘moda’: la Mercedes è di moda; la Porche è di moda; la Ferrari è di moda!»
Chiuse il discorso lasciando fuori il mio tema:
«Okay, invece la Panda?» chiesi.
Nel frattempo ero stato costretto a mettermi la mano sugli occhi colpiti da un imprevisto baluginio del sole, indeciso tra l’esco e il non esco. Seppur debole, il piccolo dardo di luce era riuscito a infastidire i miei superbi occhi da 4 soldi.
Lui, nella strana nebbia di quel mattino, non rispose subito alla mia richiesta di puntualizzazione.
Papà aveva abbassato il finestrino per combattere la brina interna del nostro velocipede a quattro ruote. E già, per quanto incredibile, il macchinino era ancora capace di fare un certo calduccio. Quando non lo sfidavi tirandogli giù i vetri. Fuori, fra le bruma, c’erano meno due gradi. Il cielo non era terso, non era blu, non era perfetto. Semplicemente, non era. Perlomeno ancora non era distinguibile o incanalabile in una descrizione precisa.
Sapevo che era sopra di noi e che continuava a dare asilo alle nuvole, agli dei, alla pioggia, ai missili che gli umani gli sparano contro da quando si sono incaponiti che un giorno, troveranno lassù qualcuno con due antenne verdi sopra la testa e le mani palmate.
Un cielo che dava al buon san Pietro una panca, dove sedere nei momenti di pausa del suo lavoro di portatore di chiavi del paradiso.
Ma quel giorno di febbraio targato 2020, pur con tutte quelle attività importanti che avvenivano in esso e a quell’ora, il cielo era solo intuibile.
Io indossavo i miei jeans e il maglione rosso con su scritto ‘American College’, un regalo natalizio di qualche anno prima e che sfruttavo in continuazione.
Il mio bagaglio a mano era un giaccone nero a doppio petto che, causa il freddo proveniente dall’esterno del nostro ‘macinino da caffè’ su ruote che correva come un dannato… Faceva ben cinquanta all’ora(!), si spostò immediatamente sulle mie spalle tremanti.
Mio padre riprese:
«Mmm, fai bene a coprirti. Comunque, adesso tiro su il finestrino e, per quanto riguarda la tua domanda – ovvero “dove la mettiamo la Panda” – bah, per quel che mi riguarda la situerei fra le cose semplici e oneste, senza grilli per la testa. Questa vecchia macchina apparteneva a tuo nonno e ancora cammina. Vabbe’, ci sta tutta che lui la usasse poco ma è indubbio che il nostro muletto da campagna sia ancora qui, no? E poi a noi non importa poi mica tanto di oggetti di moda o meno… Insomma, perlomeno a me non importa.»
«Già» risposi rinfrancato dal tepore che mi procuravano il mio giaccone indossato e il vetro del finestrino tirato su.
Intanto ci avvinavamo alla nostra casina di campagna.
Era domenica e avevo promesso a mio padre che gli avrei fatto compagnia nella sua ricognizione festiva e legata alle nostre ‘tenute’.
Peccato che lui la domenica avesse l’abitudine di uscire all’alba. Una consuetudine che non capivo. Ero reduce da una settimana di scuola e avrei preferito restare fra le coperte. Ma fargli cambiare le sue storiche e consolidate abitudini era fuori discussione. Non ce l’avrei fatta.
E comunque via, era un sacrificio possibile.
Sembravamo fuggire da Riverdale, ma ovviamente non era così.
Il fatto è che nella vita alcuni come me hanno bisogno di ‘interpretare’ i paesaggi della loro esistenza; pertanto io mi arrangiavo.
Come è nata l’idea di questo libro?
Questa è la risposta più facile: era (e ancora, purtroppo, continua a essere) un momento drammatico. E meritava di essere raccontato. Chi si aspettava una pandemia? Insomma, realizzare una storia con un argomento legato all’attualità è stato abbastanza naturale. D’altra parte sono convinto che scrivere non debba essere solo un esercizio che porti a un buon prodotto per il potenziale lettore. Certo, questo è un target imprescindibile. Ma non può limitarsi solo a questo: alla fine il romanziere è pur sempre una sorta di ‘giornalista’ che tratta un caso, un tema che ha come quinte ciò che gira intorno. Ed è l’occasione per dire la sua e trasmetterlo ai suoi lettori, sperando di contribuire alla loro visione del mondo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Per certi versi, l’impresa si è mostrata leggermente più complicata del solito. In quello che raccontavo non volevo suggerire in chi avrebbe poi letto, un surplus di ansia! Ovviamente la mia era una guerra impari. Non è possibile creare un plot ‘simpatico’ al tempo del Covid-19, con la gente chiusa fra le pareti domestiche, con il permesso di uscire solo per comprare i vettovagliamenti e passando attraverso le piazze deserte delle città ammutolite. Quindi mi sono arreso e ho narrato quanto avevo da dire. Il titolo del romanzo, Nemmeno il tempo di un abbraccio (PlanetEdizioni), è arrivato sulla scorta dei camion militari che, a Bergamo, hanno accompagnato nella loro ultima dimora le povere vittime del coronavirus.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
In questa occasione ho riletto e apprezzato Spillover, un libro del 2012 (pubblicato in Italia nel 2014 con Adelphi). Si tratta di un’opera di David Quammen, una persona parecchio impegnata in diverse attività: scrittore e divulgatore scientifico, ma anche giornalista. Insomma, il tema che propone è quello dei nuovi patogeni e chi, come me, ha messo in cantiere una pubblicazione legata ai tempi del coronavirus ha potuto trovare in esso degli imput. Ovviamente – l’ho pure citato fortemente nel testo – anche La peste di Albert Camus.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono originario della Puglia, ma ormai vivo a Bologna da molti anni.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho già iniziato una storia romanzata nella quale compare spesso un personaggio unico che purtroppo in questo annus horribilis ci ha lasciato. Si tratta di Eddie van Halen, uno dei più iconici chitarristi che abbiano mai calpestato il territorio del rock mondiale. Ero un suo affezionato fan. Non l’ho mai conosciuto, ma a pelle mi ha sempre dato l’impressione di una persona garbata. Sicuramente era un musicista straordinario e ha ridisegnato il modo di intendere una chitarra elettrica. Il protagonista di questo mio nuovo romanzo è del tutto inventato, ma somiglia molto alla figura di Eddie, con il quale, sempre all’interno del plot, vive l’adolescenza e parti dell’età adulta.
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