
Edito da Argento Vivo Edizioni nel 2019 • Pagine: 390 • Compra su Amazon
Un uomo si risveglia in una stanza inghiottita dall'oscurità, rendendosi conto di non avere ricordi del suo passato e di non conoscere il suo nome.
Tutto ciò che gli resta sono i brandelli di un sogno: il volto sorridente di una donna, una lugubre cantilena, l'immagine di una spiga nera.
Egli comincerà una disperata lotta per ritrovare le cose di cui maggiormente sente la mancanza: libertà e identità.
In un crescendo di tensione e di emozione, l'uomo arriverà a scoprire quanto esse possano sovrapporsi e dipendere l'una dall'altra.
Tutto ciò che sarà chiamato ad affrontare altro non farà se non avvicinarlo al momento in cui dovrà scegliere quale delle due sia per lui più importante.

Si svegliò al buio, ed era solo. I suoi occhi annasparono attorno, nell’oscurità più fitta, fino a che d’un tratto si rese conto di riuscire a vedere qualcosa, un filo di luce da un punto indistinto.
Si udì prendere fiato, quasi un sospiro. Il sollievo di chi si rende conto di non essere cieco, e che il buio attorno non è infinito. Il senso di solitudine gli straziava invece il cuore,
non era bastato un soffio di luce ad allontanarlo.
Perché mi sento solo?
Si stupì di quell’interrogativo: perché infatti, nel risvegliarsi impaurito in un luogo buio, la prima sensazione che aveva provato era stata quella di non avere qualcuno accanto? Perché, soprattutto, nell’istante in cui aveva ripreso coscienza di sé, aveva immediatamente capito, sentito, che non vi erano altre persone lì con lui?
Altre domande lo assalirono, come voraci animali rimasti fino a quel momento celati nell’oscurità, in agguato. Una in particolare lo morse nel profondo dello stomaco, facendolo
sanguinare di insicurezza.
Dove mi trovo?
Per quanto si sforzasse, non riusciva a rispondere a quella domanda. Realizzò di essere disteso su una superficie dura e irregolare, adagiato sul fianco sinistro. Percepiva la fredda
rigidità della pietra attraverso i vestiti. Per quanto i suoi occhi avessero provato a sondare l’oscurità non appena si era risvegliato, avevano potuto scrutare soltanto una parte
dell’ambiente che lo circondava: non si era infatti ancora mosso.
Disorientato e confuso, non ricordando dove si trovasse, sarebbe stato più che naturale guardarsi immediatamente intorno, cercare un punto di riferimento.
Forse semplicemente voltandosi, allargando il proprio orizzonte, guardando altrove che non in un quel lembo di tenebra davanti a sé, si sarebbe accorto di trovarsi in un
luogo famigliare, e tutto sarebbe stato chiaro. Una parte di lui temeva, sentiva, che non sarebbe stato così.
Riusciva ad avvertire in premonizione l’agghiacciante sensazione che lo avrebbe stritolato quando, guardandosi tutt’attorno, avrebbe realizzato di non avere la benché minima idea di quale luogo fosse quello, né di come ci fosse finito. Rimandando quel momento, preservava se stesso dal lacerante fendente che la certezza dell’ignoto gli avrebbe inflitto. Un pensiero infine lo smosse, dopo chissà quanto tempo, attimi forse, minuti o chi lo sa, magari ore: la fioca luce che i suoi occhi avevano ormai imparato a catturare.
Doveva provenire da qualche punto alle sue spalle.
Voltandosi, forse tutto sarebbe stato chiaro.
Cominciò con il porsi supino. La schiena si adagiò sul freddo pavimento, le irregolarità della pietra premevano sulla sua carne, ci mise qualche secondo ad abituarsi. Non distingueva nulla sopra di sé, un soffitto, un cielo. Doveva esserci qualcosa lassù da qualche parte, nel buio, ma non riusciva a vederlo.
Finalmente si voltò sul fianco destro. Chiuse gli occhi e li riaprì, istintivamente. Ecco la luce.
Era una striscia sottile, proveniva dal basso, praticamente all’altezza del pavimento e dunque pochi centimetri sotto il livello dei suoi occhi. Era talmente debole e misera che non
ci si riusciva a distinguere nulla.
Solo buio e una lama sottile di pallida luce. Pareva distante solo pochi passi, larga un metro o poco di più.
Poteva invece essere ampia decine di metri ma trovarsi a chilometri di distanza, non avrebbe saputo dirlo.
Come aveva temuto, non ricordava nulla di quel posto.
La vista della luce lo spinse perlomeno a mettersi a sedere. La nuova prospettiva non cambiò la percezione del luogo, né lo aiutò a trovare una risposta, fosse anche parziale, ai suoi interrogativi. Rimase così per un po’, respirando pesantemente, guardando la striscia di luce, come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa.
Niente. Capì di doversi muovere. Le zanne e gli artigli con cui i dubbi lo dilaniavano si facevano sempre più crudeli e inesorabili. Si alzò in piedi. La prima cosa che notò fu che,
guardando in alto, anche dalla sua nuova posizione eretta, non riusciva a distinguere niente sopra di sé. La seconda, fu la percezione della fredda pietra sotto le piante dei suoi piedi.
Era scalzo, l’irregolarità del terreno lo disturbava, pizzicava la pelle, premeva sui talloni. Eppure trovò per un attimo piacevole quella fresca sensazione. Gli attraversò il
corpo e gli diede un brivido vitale, riuscendo quasi a scuoterlo dal suo torpore.
Andò verso la luce. Un passo, poi un secondo…
Era già arrivato. La luce era più vicina di quanto gli fosse inizialmente sembrata. Era dinanzi a una parete. Fino a quel momento, non avrebbe potuto giurare di non essere al
centro di un’infinita superficie di pietra galleggiante nel buio, un nulla assoluto di tenebra squarciato da una lama di luce incantata. Scacciò quegli stupidi pensieri e si chinò
verso il fioco bagliore sul pavimento.
Si trattava dell’estremità inferiore di una porta di legno.
Se ne rese conto in un attimo, tastando con le mani la superficie davanti a sé, e vedendo – sì, finalmente poteva affermare di riuscire effettivamente a vedere qualcosa – i contorni del lato inferiore della porta, sotto la quale filtrava la luce fioca che lo aveva attirato lì, inconsapevole falena persa in una notte senza luna.
Guardò oltre. Nulla. Non ci riusciva. La fessura era troppo sottile, il legno della porta terminava con un rinforzo di metallo, freddo più della pietra del pavimento, e da essa
distava mezzo centimetro, forse meno. Per quanto si sforzasse, schiacciando la faccia contro la rigida superficie del pavimento, incurante del fastidio provocato dalla guancia
premuta sull’irregolarità della roccia, non riusciva a scrutare al di là della porta. La pietra del pavimento proseguiva beffarda, superava il metallo della porta e scivolava via, mentre il suo sguardo era costretto a fermarsi così, a quella striscia di luce fioca e irridente. Provò una sensazione di rabbia e impotenza, che sentì risalire dentro il petto come lava di un vulcano. Desiderò per un attimo che quella luce non fosse mai esistita.
Un brivido percorse il suo corpo al pensiero che, se così fosse stato, sarebbe stato perso nel buio.
Rimase così, chino sul pavimento, a contemplare quella luce meravigliosa, l’ancora che teneva ormeggiata la sua nave impedendole di scivolare alla deriva tra i flutti dell’oscurità.
Si riscosse da quello stato quasi catatonico quando le ginocchia e i gomiti, che ne sostenevano interamente il peso in quella posizione bizzarra che aveva assunto, cominciarono a dolergli eccessivamente. Si mise allora su un fianco, premette
ancora il viso contro la pietra, provò a guardare al di là della porta, ma era tutto inutile, e lo sapeva. Un’altra domanda lo agguantò, mentre sollevava la testa e si metteva a sedere.
Perché non ho ancora provato ad aprire la porta?
Si sentì improvvisamente in imbarazzo, molto stupido per non aver per prima cosa provato ad aprire la porta.
Eppure c’era qualcosa, una sensazione latente che non riusciva ancora a definire. Scacciando quei pensieri, si mise prima in ginocchio, poi in piedi, infine cominciò a tastare
l’intera superficie della porta.
Non vi era alcuna maniglia. Ecco. Trovò una specie di rientranza, larga almeno due spanne e alta forse quattro, cinque centimetri. La ignorò, concentrato com’era nell’infruttuosa ricerca della maniglia.
La porta era larga poco più di un metro e alta meno di due. Completamente liscia, di legno, con i contorni di metallo su ogni lato. Tornò a occuparsi della rientranza. Vi infilò le dita e incontrò subito una superficie di metallo. Ne seguì i contorni, scoprendo che essa occupava l’intera rientranza. Si trattava di una specie di lastra di metallo, non riusciva a capire a cosa potesse servire. Forse doveva semplicemente spingere, e la porta si sarebbe aperta. Si sentì
ridicolo, nel momento stesso in cui le sue dita incontrarono il legno e cominciarono a premere.
Non accadde nulla. Ovviamente.
Si mise a sedere, appoggiando la schiena contro la porta, e prese a fissare l’oscurità. In essa forse vi erano le risposte che non aveva trovato nella luce. Si udì prendere un profondo respiro. E se non ve ne fossero state, di risposte? E se la sua esistenza fosse stata ora limitata a quel pavimento di pietra, quella porta senza maniglia, quella striscia di ineffabile luce?
Tremava. Non per il freddo, per la paura. Era terrorizzato. Non riusciva a dare risposta alle domande che lo tormentavano, era solo, nell’oscurità quasi completa, in un luogo che non conosceva, e non sapeva come ci fosse finito. Se tutto ciò era spaventoso e gli bruciava dentro come un fuoco, vi era un altro pensiero, più pressante, che stimolava le fiamme, come un bastone che rimesta i tizzoni ravvivando il camino.
Tentò di ignorarlo. Fino a quando non avesse completato l’esplorazione del luogo in cui si trovava, vi era ancora speranza. Che un particolare finalmente gli permettesse di capire. O un’altra porta da cui uscire. Persino che vi fosse un interruttore della luce.
Qualunque cosa fosse, poteva esistere, là nel buio.
Ma se invece non fosse stato così? Se la sua esplorazione, come per la porta e il filo di luce, non fosse servita ad altro che a fargli comprendere che non vi erano risposte, né speranze? All’incertezza del buio, le persone dovrebbero preferire la certezza della luce, ma lui sentiva che non era così. Poi, qualcosa che aveva visto – meglio, percepito – nell’oscurità gli tornò in mente. Era un dettaglio, un pensiero istintivo, una considerazione che gli era venuta
naturale: l’altezza della porta. Aveva valutato fosse alta due metri, all’incirca. Ecco tutto.
Per qualche minuto, sedendo al buio, lo sguardo nel nulla, non capì cosa in quel pensiero elementare lo avesse turbato. Poi si rese conto: aveva valutato l’altezza della porta
in due metri, istintivamente, confrontandola con la propria e senza dunque misurarla. Si alzò in piedi e lo fece. Era meno di una spanna più alta della sua testa. Allora si rese conto di
cosa non andava.
Perché non dovrei sapere quanto sono alto?
E allora un’altra domanda lo assalì, più crudele di tutte le altre, mordendogli il cuore e lasciandolo privo di ogni forza, tanto che ricadde al suolo e si raggomitolò vicino alla
porta. Era una domanda che dentro gli era risuonata fin dal risveglio, ora lo comprendeva, ma che per istinto di conservazione aveva ignorato, seppellendola in un angolo della mente, concentrandosi sul resto. Ora, non riusciva più a zittirla. Essa risuonava sempre più forte; poi, quando egli fu a terra, finalmente esplose.
Chi sono io?

Come è nata l’idea di questo libro?
Ho pensato ad un uomo che si venisse a trovare in una condizione di difficoltà estrema, solo e senza memoria. In genere infatti, nelle varie storie in cui un personaggio è vittima di amnesia, ha la possibilità di scoprire qualcosa di sé, di parlare con qualcuno, per ritrovare la propria identità. E invece chi si trova chiuso in una prigione porta con sé i propri ricordi e la propria identità. Il mio uomo solo nel buio è sia prigioniero che privo di ricordi. Da questa situazione sono partito per raccontare la sua lotta per ritrovare libertà e identità.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
È stato impegnativo, specialmente all’inizio, dato che la storia rimane incentrata per diverso tempo su un solo personaggio, nei cui panni ho dovuto cercare di calarmi per tentare di raccontare al meglio la drammatica esperienza vissuta pagina dopo pagina.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Leggo principalmente narrativa, senza preferenze particolari di genere, per quanto mi sia formato, specialmente da ragazzo, con tantissimi thriller e gialli. Scrivendo appunto storie di questo genere, prediligo in particolare gli scrittori anglofoni, tra i miei preferiti sicuramente Jeffery Deaver e Dennis Lehane, ma anche Follett, Grisham, Connelly. Senza dimenticare Agatha Christie, di cui ho letto decine di romanzi da ragazzo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Quarona, un piccolo paese in Valsesia, provincia di Vercelli. In precedenza ho vissuto poco lontano, a Coggiola, provincia di Biella, dove sono cresciuto.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sono a buon punto di un nuovo romanzo, in cui mi discosto parzialmente dal genere thriller-poliziesco per raccontare di un uomo, italiano di origine, che arrivato a diciotto anni decide di proseguire la sua vita in modo particolare, e diversi anni dopo racconta in prima persona le sue vicende.
Credo sia molto difficile imbastire una storia incentrata su un solo personaggio: la curiosità si rivolge al “cosa si inventerà?”