Edito da Antonio Crepaldi nel 2017 • Pagine: 260 • Compra su Amazon
NERO E FONDENTE
Un noir di un autore fagarese che rompe ogni schema. Che mistifica anche il proprio nome.
Una cannibalegia tortuosa di segreti. Dalle misteriose apparizioni in Rovare' nel 1795, mentre l'inesorabile Rivoluzione Francese chiudeva i battenti, sino alle rocambolesche disavventure di un gruppetto di ragazzi che nel 2011 fa capannello attorno alla propria fossa al camposanto, mangiandosi la carne, all’ombra del maniero dei Mazzucco-Corta', ove LEI osserva dallo specchio, da milioni di anni, e striscia perfidamente da un corpo all’altro alla ricerca del potere, essendo liquido il quale, se ne può solo aver sete.
La morte che dà senso alla vita.
Un romanzo intensissimo, che elabora nuove ed ardite strategie narrative. Un'orgia prosastica che si legge anche – e soprattutto – fra le righe. Colto, ricolto, perverso, grave tanto da cadere a terra, come il Corvo, il di LEI Spirito che le porta le vittime e poi le restituisce, in parte, un poco alla volta.
Ed infine lo scontro iperbolico fra i due serial killer, che scalda i tenebrosi umori di LEI. Che vive da sempre una vita nel limbo della dannazione.
E se lo leggerete, scoprirete chi è LEI...
8 agosto – Lo specchio di Angioletto si sta ammalando di uno strano morbo metallico. Non mi accuso di negligenza, è Angioletto il negligente. Io ero troppo occupata con lui. Mi deliziava coi suoi dettagli sempre più precisi su Subbushatt, il faraone del Vecchio Testamento e le sue legioni pestifere. Stava dicendomi che presto avrei capito le ragioni della vecchia suora di Fagarè; è ancora tutto nel taschino della giacca di Selmo. Un libricino di troppe pagine, tutto sulle verità dimenticate della Bibbia e sul faraone Subbushatt. Lì avrei trovato i pezzi mancanti della “Chiave di Salomone” che Berardo non voleva farmi leggere e, certo, avevo ragione a volerci mettere le candele e gli incensi negli incanti, perché servono. A quel punto Angioletto mi ha indicato il bordo dello specchio con un gesto sinuoso, come passandosi una corda invisibile sulla testa e sotto le ascelle. Il bordo è appestato da una ruggine a scaglie untuose e marroncine, che secerne un icore senza odore, biancastro, qualche goccia appena, ma nelle ultime ore è aumentato e adesso vedo la ruggine anche da lontano. Angioletto mi sorride in questo preciso istante. Mi ha chiesto di abbassare le tende e spegnere la musica, di camminare con poco rumore. Molte cose lo infastidiscono. Dice che le legioni di Subbushatt sono condensate in quel liquido, lo specchio è la sua vera pelle nel mio mondo, incrostata di chiazze di ruggine color sangue. Se non fermerò Subbushatt, allora Angioletto cadrà nell’inferno e invocherà la seconda morte, la stessa di cui parlava Virgilio nella Divina Commedia.
Sono sfinita, mi sforzo di sollevare anche solo le dita, non so come sentirmi viva, passo le migliori ore della giornata sprofondata fra i cuscini sparsi davanti allo specchio, con le finestre chiuse, le candele accese, mi pesano gli occhiali cerchiati di corno che porto sul naso, gli orecchini mi strappano i lobi delle orecchie, l’orologio mi soffoca il polso, i vestiti mi
premono sul corpo come bende strette, non porto mai le scarpe, temo che il tacco mi sfondi il tallone, che la suola e la tomaia mi deformino le dita. So dove Angioletto vuole arrivare. Non ha il dono della schiettezza, Angioletto. Devo riesumare mio padre se voglio scoprire le verità su Berardo e Subbushatt. Ieri ho mangiato due grani di incenso, mi sono bruciata le dita tenendo in mano la carbonella rabbiosa di calore, poi l’ho poggiata a terra, ho lasciato che annerisse il parquet. Ho sperato che scoppiasse un incendio fuori e bruciasse tutto il fuoco che avevo dentro.
Mi sbagliavo, non prendo mai una decisione da me. Riesumerò mio padre. È orribile che io sia giunta ad una simile conclusione, ma è ancor più orribile quanto poco orrore provi dinanzi ad un orrore simile. L’ho fatto, siamo al 13 agosto e l’ho fatto, ma come ho potuto?
Quale mostro sto diventando?
Quale mostro albergava in me che io non sono mai riuscita a svelare? Mio padre era diverso da come me lo aspettavo; ora ho capito che era diverso perché era vero. Averlo visto in quello stato di decomposizione me lo ha un ricordato com’era al funerale, ma sono certa di non ricordare molto di quel giorno lontano e se ho scorto qualche tratto somatico diSelmo, mio padre, beh, forse sbagliavo, io non l’ho mai conosciuto davvero.
Questa notte ho lasciato le mezze misure alle mezze persone, riandando col pensiero ai crimini dei quali ho disseminato la volta stellata della mia coscienza avvertendo una discontinuità. Mi penso e ripenso prima e dopo, è come se avessi lasciato la muta lontano, in uno strano universo chiuso in un barile in balia dei flutti. Quando ho aperto la bara non ero la stessa persona che aveva deciso di aprirla, ora non sono più la stessa persona che ha aperto la bara e poi non sarò più la stessa persona che ora scrive. Domani qualcuno si accorgerà della ghiaia smossa sotto la lapide di Selmo ma non sono certa che me ne importi, tanto io non sono e non sarò più la stessa.
La bara era di mogano e lo scrivo perché tutte le bare sono di mogano, lo si sente dire sempre; non capisco un accidente di legname, ma era mogano lo stesso. Ho scardinato il coperchio con un piccone e una pala, la mia non era forza, era rabbia cieca. In fondo sono ancora arrabbiata con Selmo perché è morto lasciando me e Antonina sole. Quasi, quasi riesumo anche Antonina e la sfregio di picconate, perché mi ha abbandonata anche lei. Selmo era rinsecchito. Sono rimasta sbalordita dal caos di quel corpo. Non si capiva granché, sembrava che i muscoli, i tessuti e il sangue si fossero trasformati in una polpa fragile marrone, collassata sul teschio e nella gabbia toracica. Degli abiti era rimasto qualcosa, intendo qualche brandello, ma erano finiti nella polpa anche loro. Ho trovato il libro sotto quello che restava del braccio destro. Non ho ancora letto una riga. Mi sono concessa il lusso di rimirare Selmo per qualche minuto…Era mio padre, era mio padre, pace all’anima sua.
16 agosto – Nel libricino di Selmo non ho trovato nulla, è solo un pezzo di Gargantua e Pantagruele di Rabelais e viene della nostra biblioteca. L’ho letto almeno vent’anni fa. L’apologia della merda e delle trippe in tutte le sue declinazioni. L’ho riletto tutto, giorno e notte. Mi sono rifatta le solite risate – primum cacare deinde culum astergere – presumo laddove avevo riso anni orsono.
Angioletto si è raccomandato che io lo riunisca al vecchio tomo monco e gli ho chiesto spiegazioni, quid pro quo, quid pro quo. Io riaggiusterò il tomo e lui mi dirà dove leggerlo. Ne conosce molti stralci, deve averli imparati all’asilo o forse li attinge da qualche dimensione extracorporea ove l’onniscienza è il naturale prolungamento della coscienza umana. 101
Mi ha canzonato congratulandosi con me perché ben dischiumeggio la verbocinazione laziale (credo intendesse riferirsi al Limosino che mal contraffaceva la lingua francese), poi mi ha detto che avrei dovuto captare la benevoglienza dell’omnigiudice, omniforme ed omnigeno sesso femminino. A questo proposito credo che Subbushatt sia una femmina.
Angioletto ha perseverato nell’utilizzo del titolo di faraone, ma l’ha poi ribaltato nell’epiteto di faraona d’Egitto, ma quale Egitto? L’Egitto per Dio e per la Madonna! Quasi a volersene prendere gioco.
Sta diventando criptico, contrariamente a Berardo che scade sempre più nella trivialità. Entrambi hanno però mostrato segni di evoluzione, anzi, mi correggo, di involuzione.
Il miasma di Subbushatt ha rallentato di un poco, ora misura quasi una spanna, ma l’umore di Angioletto scivola nel trasecolamento. Appena due ore fa l’ho visto in posizione di meditazione trascendentale, credo la posizione del Loto o qualcosa di simile. L’emorragia sul cranio sembrava più contenuta, gli abiti meno zuppi, aveva un’espressione serena, recitava Nam Myoho Renge Kyo, mi ha chiesto di portargli delle offerte, una mela e dell’acqua pulita dalla fontanella che sgorga qui in via Colomban, poi di piazzare tutto davanti allo specchio. Lui si sarebbe nutrito dei riflessi ed è stato di parola. Ha addentato la mela dalla sua parte e ha bevuto l’acqua con un gorgheggio voluttuoso, pareva che in tutta la vita avesse conosciuto solo il sentimento della sete e la fame, ma non la fame tout court, bensì di quella mela soltanto.
Nella mia realtà è successo qualcosa di terrificante. La mela si è afflosciata come il tendone di un circo, si è disfatta come una mela cotogna nel forno, è caduta in pezzi che assumevano le contorsioni più svariate: per un po’ ho quasi pensato che aumentassero le dimensioni utili, non più tre o quattro col tempo, ma cinque, mille, infinite, innumerevoli. Poi il dubbio è divenuto certezza.
Angioletto mi ha detto di osservare e giudicare il riflesso della mela riflesso nella specchiera dietro di me. Mi ci sono messa davanti carezzandomi il filo di perle al collo come avrebbe fatto Maria José la Regina di maggio; avevo un filo di rossetto sbavato e avrei voluto fosse sangue.
Angioletto mi ha spiegato che era un po’ così, un po’ diverso, un po’ vero, un po’ finto, un po’ falso e se avessi guardato attentamente nel torsolo scoperchiato come il torace di uomo squartato avrei compreso il nocciolo della trasmutazione, della trasverberazione inversa, della cocolla quantico-monacale di cui si sarebbe rivestito il mondo nel Giorno del Giudizio. Era tutto basato sulla più rigorosa incertezza. L’indeterminatezza mi avrebbe conferito la determinazione e con ciò avrei determinato. Ciò che stava di qua e di là dallo specchio era solo il prodotto della reciproca interazione delle incertezze, delle innumerevoli possibilità; restava solo una cosa più vera di ogni realtà ed era il morbo che rosicchiava entrambe le superfici.
Gli ho chiesto di afferrare la mano del mio riflesso dietro di lui. Confido che è stato un tocco leggero, le sue dita erano quasi delle spine morbide, un tantino fredde, di quel freddo bisognoso di calore, poi mi ha assalito di nuovo quella sensazione di inquietudine. L’ho percepito morto e viscido, coperto di petrolio, chiuso in un buco più profondo che buio. Temo che il vero Angioletto dietro lo specchio sia solo quello, morto e disfatto. Gli ho chiesto di raccontarmi del suo cadavere, delle sue ossa, della sua carne, del suo cuore e del cervello. Voglio il vero Angioletto. Mi ha risposto che lo farà nell’anno in cui il flauto, il clavicembalo, il violino e la grancassa suoneranno il flautista, il clavicembalista, il violinista e il gracazzone, cioè l’anno del mai. È stato il rifiuto più ingegnoso che abbia fin qui ricevuto.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea nacque da una confezione di cioccolato, un po’, di nebbia e tanto dolore.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Portarlo a termine mi è quasi costato la vita.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Isabella Santacroce, Penelope delle Colonne, Stephen King, Poe, Pratchett, Gide e molti altri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in me, sereno.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei progetti per il futuro sono sconosciuti anche a me.
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