
Edito da LFA Publisher nel 18 Ottobre 2018 • Pagine: 183 • Compra su Amazon
Antonio Lodamare è un cuoco napoletano di sessant’anni. Orfano di padre, trascorre un’infanzia difficile a causa di ristrettezze economiche. Diventa presto uno scugnizzo, ma grazie al ritorno dello zio Alfredo dall’America, intraprende l’arte della cucina che lo salverà dalla strada, ma lo deruberà di tutto il suo tempo. A seguito del licenziamento avvenuto a suo danno, Antonio si ritroverà catapultato in una realtà completamente diversa da come la immaginava, profondamente mutata in linguaggi, contenuti e apparenze. Grazie a un vecchio amico (Lorenzo: professore di filosofia), coglierà nuovi punti di vista interrogandosi sul tempo. Attraverso una visione profondamente cinica della realtà, metterà in discussione tutto il suo passato con una sana dose di rimpianto misto a rabbia e ironia. Ex clienti, parenti, amici e la società intera diventerà oggetto delle sue spietate analisi. Sullo sfondo di una Napoli sempre contraddittoria, nuove prove attendono al varco Antonio Lodamare, tra cui un viaggio, un mistero e la partecipazione a un programma televisivo.
QUARTA DI COPERTINA
Ci sono storie di uomini in cui non si potrà mai intravedere la fine. Ed altre, in cui la fine è segnata da un'assurda presunzione: quella di seguire una direzione.

STRALCIO DAL CAP 4
Era già da un anno che palesavo l’idea di mettere le mani ai fornelli. Mi ero un po’ scocciato di pelare patate, tagliare cipolle, spazzare a terra. Stavo maturando l’idea di farlo a insaputa di mio zio quando usciva a procurarsi i sigari. Avevo voglia di sorprenderlo, ma non volevo deluderlo. Meglio chiederglielo prima, pensai saggiamente.
«Voglio imparare a cucinare qualcosa ‘o zi’: mica posso sempre stare a pulire patate e cipolle? Fammi iniziare. Insegnami a cucinare qualcosa di sfizioso.»
Mi rispondeva sempre con un’aria annoiata. Mi ripeteva che prima o poi sarebbe arrivata, anche per me, l’occasione propizia e che dovevo saper attendere, ma io mi ero scocciato e così insistevo.
Un giorno finalmente mi fece contento.
«Va bene Anto’. Come prima cosa devi sapere come si prepara il brodo bianco», mi disse, «ti spiego tutto io. È la prima regola del duca Cavalcanti.»
“Cavalcanti?” Io a questa parola potevo solo ed esclusivamente associare un equino, ma con il brodo che c’entra? Tutto mi sarei aspettato: pure di mettere in ammollo i fagioli per il giorno successivo, pure di lessare un broccolo, infarinare un panzarotto senza friggerlo, ma quella richiesta la trovai veramente assurda. Così, reclamai spiegazioni all’istante:
«il brodo? Ma che dici ‘o zi’? Io l’ho sempre schifato! Pure quando mi morivo di fame non lo volevo.»
Zio Alfredo mosse il capo qua e là in segno di diniego, e dopo una boccata di sigaro, aggiunse:
«ho capito Anto’, fa una cosa: vai a prendere i miei sigari dal tabacchi che stanno per finire, poi me li porti e dopo vai da don Gennaro ‘o pastaro. Vedi se ha bisogno di qualche servizio per lui. Sicuramente ti accontenterà. Per oggi qui non mi servi. Il tuo lo hai fatto, e io non ho voglia di perdere tempo con te.» Gli andai a prendere i sigari come mi aveva ordinato e dopo passai da don Gennaro per vedere come se la passava, se aveva da offrirmi qualche lavoretto. Stava sotto un lenzuolo bianco macchiato di rosso con la faccia imbalsamata all’asfalto. Lo avevano fatto fuori! Un mucchio di gente gli faceva da capannello, c’era pure mammà. In quel preciso momento, pure se non lo stavo assaggiando, iniziò a piacermi tantissimo il brodo bianco.
Tornai di corsa in trattoria, mi scusai subito. Gli dissi che mi dispiaceva assai e che volevo ricominciare. Lo pregai di farmi contento.
Zio Alfredo aveva i piedi appoggiati sul piccolo davanzale della cucina con il sigaro fumante tra le dita. Il fumo s’incanalava tra le carabattole e le grate in ferro, e si perdeva nel buio della sera tra il rumore intenso di una sirena urlante e quello modico dei tacchi a spillo di un travestito che andava a prendere servizio presso il crocicchio della strada.
Non mi guardava negli occhi zio Alfredo, non proferiva parola.
«Ti prego ‘o zi’, ti prego.» Continuavo ad insistere.
Aveva deciso di rispondermi dopo che si era fumato per intero il suo sigaro, e in quel momento penai come un pazzo da manicomio all’arrivo di un pensiero che si faceva spazio a gomitate nella mia mente, un dubbio fondato su una sua scelta:
ma perché non aveva preferito la sigaretta? Breve e circoncisa come la vita, stretta e assai godibile come la fica che all’epoca, trovandomi nell’anticamera dell’adolescenza, ancora non conoscevo, ma sognavo come le bianche sponde della California, come le cosce della maestra delle scuole elementari: Maria Rosaria si chiamava per accontentare entrambe le suocere, adesso mi sovviene.
L’avevo solo intravista una sera, quella cosa nera. Quel giorno, mio zio, mi aveva mandato a casa prima del previsto, ma sorpreso dalla leggerezza delle mie mani di solito occupate da qualche ruoto o pignata, e stravolto dall’aver dimenticato la pizza di scarola che lui stesso aveva riservato per me e mammà, lasciai il vicolo in sospeso per ritornare di corsa all’indietro. Lo sorpresi in posizione scomoda, affannato, alle prese con un culo che sporgeva dal tavolo, e un corpo più che decente accartocciato sul piano. La donna si reggeva con le braccia tese e la faccia annoiata. La sua bocca semi aperta emetteva suoni normalizzati dello stesso tono, tipici del vecchio mestiere del falso godimento che non fallisce mai. Andava avanti a puttane da tempo ormai zio Alfredo. Io me ne scappai, non volevo intaccare le emozioni della sua prostata leggermente ingrossata. Mi ero accorto del suo fastidio già da un po’ di tempo per via delle sue continue pisciate nell’orinatoio del retrobottega. Niente di grave comunque.
La vista di quei corpi uniti mi suggerì un solo pensiero, un pensiero egoista e traditore come la fame: la pizza di scarola, e che ci mangiamo stasera?
«Fammi contento ‘o zi’.» Incessantemente proseguivo.
In quel momento il tempo aveva dilatato i suoi istanti. L’attesa divenne per me come una prigione dalla quale desideravo ardentemente di evadere. Le mie imprecazioni non sortivano alcun effetto. Erano nulle, innocue, come i miagolii dei gattini cuccioli, snervanti come i tric trac che fanno fetecchia nella notte di Capodanno lasciando quella delusione lancinante tra chi li aveva lanciati allo scopo di fare la botta più grossa.
Non rispondeva mai zio Alfredo, immerso nel silenzio simile a quello che invece regna la mattina di Capodanno, dopo la gozzoviglia.
Amava farsi pregare assumendo un atteggiamento da Robespierre che aveva appena ordinato una condanna a morte, e che per compiacersi, decide pure di assistere all’esecuzione. Io, rappresentavo il crocevia del cosiddetto “periodo del terrore”, facevo la parte del condannato con la testa sopra la ghigliottina a chiedere pietà in attesa che egli stesso indicasse al boia di procedere, oppure no. Ma la grazia non arrivava mai.
«Ho capito che ho sbagliato ‘o zi’, non lo farò mai più. Te lo prometto, te lo prometto.» Borbottavo come una gallina.
Il sigaro terminò, bevve un mezzo bicchiere di vino che aveva appoggiato sul bordo della cucina, e si asciugò le labbra con un panno umido che stava là affianco fottendosene altamente delle norme igieniche. Mi tranquillizzai per un attimo. Un sollievo fece planare il mio cuore. Adesso lo sentivo leggero come una piuma. Finalmente tra poco avrebbe parlato, qualsiasi fosse stata la sua decisione almeno era la fine di quello strazio per me. Continuava a guardare in direzione della finestra e non a me. Lentamente avvicinò le dita al taschino che si era fatto appositamente cucire da zia Nannina all’altezza del basso ventre del mantesino dove, per comodità, aveva riposto il pacchetto di sigari con quello dei cerini. Ne sfilò un altro. Il tipico rumore da sfregamento del cerino sulla parte ruvida del pacchetto fu per me come un tuono a Ferragosto. Subito dopo accostò la fiamma all’estremità del sigaro.
Avrei voluto morire. Il fumo invase di nuovo la finestra, ma questa volta riempiva anche i miei occhi divenuti sanguinari per via delle lacrime miste a fumo e collera.
«Allora ‘o zi’? Per piacere, per piacere.» Gli implorai in lacrime.
Il fumo ormai aveva dato la sua risposta definitiva così come il silenzio a quella mia supplica. Mi stavo per voltare e andare via per ritornare a casa e ritrovare di nuovo il volto di mia madre delusa. Il solo pensiero mi stimolava a continuare all’infinito con la mia ossecrazione prostrandomi pure ai suoi piedi se fosse stato necessario. Stavo lì con le mie pupille che andavano incuneandosi negli angoli degli occhi per scrutare l’uscio della cucina dalla quale sarei dovuto uscire, ma i miei miseri passi non si scrollavano dalla rigida posizione di partenza, e le punte dei piedi erano fisse in avanti come quelle dei cadetti nelle cerimonie solenni, acchittati con le tempie tarate ai loro berretti. Fu in quel preciso momento che la sua voce fece da capolino nel vuoto delle pareti allestite:
«mentre io fumo, ti dico tutto quello che devi fare. Tu procedi senza dire una parola, vediamo che ne esce fuori.» Sentenziò con un fare da sentenza inoppugnabile.
Si fecero le due di notte. Alla fine uscì fuori un brodo accettabile.
«Non c’è male», mi disse zio Alfredo senza assaggiare,
«portatelo a casa. Tua mamma è preoccupata, ti sta aspettando per la cena.»
Quella sera capii che le conseguenze degli errori non sono mai ritardatarie. Puntuali come i treni fascisti, gli errori si pagano nell’immediato, ma le conseguenze sono viaggi lunghi ed estenuanti: si scontano lentamente e amaramente.
STALCIO DAL CAPITOLO 11 –
La sera stessa del lungo insegnamento, zio Alfredo, dopo avermi intronato per bene con i bicchieri di vino, mi disse a mo’ di comando e senza timore di opposizioni:
«adesso vieni con me. Ti porto in un posto.» Dopo un tempo imprecisato, mi ritrovai con lui al buio su una spiaggia di cui non ho mai saputo la collocazione geografica. Io nella testa avevo i pensieri brutti, neri, sporchi e soprattutto sparsi come le bufale nelle campagne di Mondragone. Forse da quelle parti mi trovavo, ma per me sarebbe stato superfluo sapere il dove. Mi potevo trovare a Jesolo, piuttosto che Ostia o Palinuro tanto il mare di notte è tutto uguale.
«Ti ho portato al mare Anto’! Non sei contento? Come vedi il mare è tutto aperto: non ci sono ringhiere intorno che lo delimitano.» Mi disse spalancando quella mano e muovendola lentamente in modo panoramico.
E che vuoi parlare. Il silenzio mi aveva inghiottito.
Quella era l’unica cosa che potevo notare: cioè l’apertura, la mancanza di limiti. Per il resto non c’era niente che fosse, in suggestioni spontanee, protagonista dei miei sogni senza orario: niente bambini giocosi che fanno i castelli in riva al mare, niente belle donne in costume che escono con le gocce perlate sulla pelle bruna, niente visi scolpiti dai raggi del sole, niente “Sapore di sale” di Gino Paoli, nessuna fila di ombrelloni allineati sulla sabbia, nessun salvagente illanguidito sul mare. Pensare a quella distesa buia al cospetto della California raffigurata in quel poster intravisto a via Toledo, per me era come soggiornare sotto un disadorno ponte di periferia: strampalato e senza slancio, dimenticato da Dio.
«ti ho portato al mare non certo per farci il bagno.» Aggiunse zio Alfredo.
Questo, non so perché, lo avevo già intuito.
Prese qualcosa dalla tasca del vecchio cappotto che non aveva mai indossato nemmeno la vigilia di Natale e mi recò in mano una pistola. Io l’accettai subito come se mi fosse stata offerta gentilmente una zeppola. Poi la strinsi per il manico e lui, rivolgendosi al mare calmo come chi si rivolge languido al suo confessore, mi disse:
«mi basta che spari un colpo solo. Per questo siamo qua, a quest’ora di notte. Adesso hai capito Anto’?»
Discese ripidamente nella fogna del mio stomaco il quinto bicchiere di vino, anche se non lo avevo mai bevuto. Quello che ti da il colpo di grazia. Non tremavo, non sudavo, ma non ero ancora intenzionato a sparare.
«Premi questo cazzo di grilletto Anto’! Facimme ampressa! Tra le tante cose, tengo pure freddo. È importante per me Anto’, ed è importante pure per te. Lo vuoi capire o no?»
Mi aiutò con le sue braccia forzute a tenere l’arma rigidamente ferma tra le mie mani, e a puntare un punto morto a mezza altezza con il vivo di volata leggermente rivolto verso l’alto, ma non perpendicolare al cielo, perché Dio si offende.
Poi si allontanò da me lasciandomi solo al cospetto della mia impresa.
Io feci un grande respiro, concentrai le mie energie sul dito indice e sparai sul mio sogno. Era notte fonda e l’avevo fatto quel gesto. Il perché, il per come, il motivo di quella richiesta non aveva senso saperlo.
Io e mio zio incrociammo gli sguardi liberatori.
Provai una sensazione anomala. Non sapevo se avevo vinto o avevo perso, ma che importanza aveva? In fondo ci sono vittorie e sconfitte che non vale la pena nemmeno di riconoscere, perché non cambiano il corso della vita. Il gesto cambia il corso, solo quello conta.
Nemmeno don Gennaro ‘o pastaro mi aveva mai dato il privilegio di compiere quel gesto. Non mi aveva mai fatto sparare, eppure lui era un vero camorrista e stravedeva per me.
Eh, certo! Io non solo ero povero, ma ero pure orfano di padre. Una merce che faceva gola assai ai mammasantissima in caccia di arruolamenti come le puttane di alta classe.
E invece zio Alfredo che uomo è? Non si capisce. Faceva parte della gente per bene accovacciata, o della malavita con la testa alta? Dei malati del calcio e della fica? Un separato, un cornuto, un cattolico che non predica e non pratica? Un fascista, un comunista, un monoreddito, un privilegiato, un esodato, un ricco divenuto povero, un evasore, un possessore di un mutuo trentennale o di un mega conto in banca? Un qualunquista in pantofole dinanzi alla tv? Uno che si stira la camicia da solo? Un amante della vestaglia e della pizza fatta in casa? Dove lo mettiamo a zio Alfredo? In tribuna numerata già mangiato o in curva con la marenna sotto il braccio? Insomma, chi cazzo è zio Alfredo? Dove lo dovrei collocare? Questo è il punto: l’esigenza continua di collocare le persone in quella che la società chiama “normalità” che li schiavizza e li rende tutti uguali come i pendolari alla stazione: normali e uniformi. Quelli non inseriti in nessuna categoria sono considerati esseri ignobili e senza cuore. E menomale che esistono! “Gli incatalogabili” sono i più emozionanti, sono i migliori in assoluto. Per questo lo sono diventato pure io.
Ma alla parola “normale”, cazzo! E quanta importanza che gli danno! Come la osannano! Offrono sacrifici in suo onore tutti i giorni e in tutte le ore, ma è proprio quella che spaventa più di tutto. Più della massa che va allo stadio, più della mala informazione, perché contamina, distrugge l’intelletto e va a perforare la fantasia.
Sta pieno di punti interrogativi zio Alfredo che pure il Creatore, sono sicuro, avrà dei seri dubbi a giudicarlo quando lo avrà al suo cospetto. Ed è questo che lo rende affascinante, unico e raro come la prima notte di nozze.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea del libro è nata da letture filosofiche di cui sono appassionato e alle quali mi sono ispirato per alcuni pensieri relativi al tempa del tempo. In particolare dalla lettura de “Le confessioni” di Agostino D’Ippona e “De brevitate vitae” del filosofo presocratico Seneca. Il tema del tempo quindi come opportunità del presente (secondo il pensiero di Sant’Agostino) e come risorsa (secondo il pensiero di Seneca). Da qui poi si sono aggiunti una serie di spunti di riflessione e argomenti o meglio ingredienti che hanno arricchito il libro. Il protagonista della storia infatti, è un cuoco napoletano di sessant’anni che a seguito di un licenziamento avvenuto a causa di debiti contratti da uno sprovveduto datore di lavoro, si ritroverà a mettere in discussione la sua vita ripercorrendola per intero. La consuetudine nella vita del protagonista verrà rotta dall’episodio licenziamento e questa rottura provocherà una piccola crisi che lo porterà a mettere in discussione anche le scelte e le convinzioni che lui e la società ritiene giuste (il matrimonio, i figli, una vita spesa per il lavoro). Antonio non sarà esente da analizzare la sua vita, quella degli altri e soprattutto la nuova società che lo circonda perlopiù orientata alle apparenze con occhio cinico, ma anche con ironia tipicamente napoletana. Non mancheranno colpi di scena, un viaggio, un mistero che lo porterà a compiere un viaggio nella Napoli sotterranea a causa di una pistola e la partecipazione a un talent televisivo. Tanti personaggi, molte comparse. le vite raccontate attraverso il loro dolore, il loro vissuto ed il loro adattarsi all’esistenza. La prorompenza di Antonio, la sua ironia oltremodo non lascerà scampo a nessun altro.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Una volta individuati i canoni da seguire, è stato un divertimento. Un personaggio che ho fatto mio nel corso di un intero anno che ho impiegato nel scrivere questo libro. La parte difficile forse è stata la ricerca di uno stile particolare al quale do molta importanza. Il peso delle parole, delle metafore, è stato abbastanza impegnativo, ma non più di tanto. E’ stata una continua ricerca della bellezza come lo è l’arte per definizione del resto.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Tanti, non c’è dubbio. Le letture filosofiche come dicevo prima. Da Seneca a Sant’Agostino e poi Hegel, Nietzsche. Tantissimi libri di narrativa mi hanno segnato, anche se quelli che hanno dato una svolta alla mia creazione sono stati Celine, Antunes, Pessoa e tornando ai giorni nostri Paolo Sorrentino, Ammaniti, Santacroce.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in provincia di Napoli, non molto distante dal centro dove vado spesso per seguire eventi in città che riguardano la mia passione e non solo. Per lavoro mi sono spostato prima a Treviso e attualmente, sempre per lavoro, faccio la spola tra Roma e Napoli sfruttando il tempo dei viaggi in treno per scrivere.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In passato ho pubblicato una silloge di poesie dal titolo: Chiaroscuri – trilogia in versi. Ho già completato un secondo romanzo in cui si parla della difficile gestione del potere e sto scrivendo un terzo libro ove i protagonisti sono diversi. Si tratta di una sorta di talent letterario in cui bisognerà individuare chi falsa la propria identità. Insomma, mi piace sperimentare in letteratura. Quantomeno ci provo.