Edito da Kappavu Edizioni nel 2019 • Pagine: 136 • Compra su Amazon
SINOSSI
Anna decide di trascorrere alcuni giorni in un luogo isolato in montagna. La sua interiorità è lacerata, frammentata in un mosaico dalle tessere incrinate. Il piccolo eremo di San Romedio e le figure che lo abitano, la natura aspra e dolce che lo circonda e il succedersi degli eventi che ne scandiscono le giornate sono lo sfondo di un universo intimo mosso da contraddizioni, da un passato in chiaroscuro con cui confrontarsi, da istinti di vita e di morte in lotta tra loro. Con ferma cinepresa si delinea un percorso di consapevolezza che Anna, attingendo anche dalla sua sensibilità filosofica, potrà raggiungere solo attraverso una trasformazione in cui confluiranno sia la sorte toccata all’orso accudito presso l’eremo, sia l’inatteso incontro con Ezio e Leonardo.
QUARTA DI COPERTINA
«La limpidezza del narrare, la tenuta dall’inizio alla fine della trama, l’alternarsi tra la prima e la terza persona attraverso l’introduzione di momenti di riflessione autobiografica, costituiscono il pregio del libro, orientato verso gli universali temi del dolore e della morte, ma anche della salvezza e della rinascita. Oggi abbiamo bisogno di questi racconti di speranza.» Duccio Demetrio
BRANO 1 (pp.7-8)
Dai finestrini del treno le montagne si stagliavano come fossero a un passo. Il paesaggio, stracarico di filari di meli ancora acerbi, prometteva raccolti vermigli e succosi. Una giovane asiatica le era seduta accanto. Anna lesse “Japan” sull’etichetta della valigia, oltre a un nome che non seppe ricordare dopo aver spostato lo sguardo. La ragazza continuava a conversare con un amico attraverso il suo iPhone di ultima generazione. Le parole, a volte stridule, a volte morbide, risuonavano come una cantilena incomprensibile ma accogliente, quasi soporifera. O forse era la stanchezza del viaggio che adesso le faceva socchiudere gli occhi, prima spalancati al di là del vetro.
La voce della ragazza s’impennò in un acuto. Anna si scosse e per una frazione di secondo guardò sullo schermo del cellulare il volto maschile all’origine del cambiamento di tono che l’aveva sottratta al suo torpore. Capelli corti e neri, sguardo dal taglio orizzontale, un sorriso accattivante. In quell’attimo lui rispose, e la giovane rise con denti bianchissimi, come di porcellana.
La loro complicità sembrava protetta dalla lingua sconosciuta a tutti coloro che sedevano nello scompartimento. Anna fissò il volto della giapponese, il suo ridere argentino senza freni, i capelli corvini dritti in una simmetria e precisione da bambola orientale. La pelle candida emanava luce. Per contrasto percepì le proprie occhiaie, coperte in parte dal trucco. Quando la risata si spense, ritrasse veloce lo sguardo. Di nuovo l’iride fu invasa da una selva di filari di meli. La timida tinta rosata dei piccoli frutti, che di lì a poco sarebbe esplosa in un fulgido rosso, era sparsa ovunque nella valle.
Il treno continuava a salire, seguendo curve serpentine e, a tratti, cigolando sui binari. Anna si lasciò cullare dal sottofondo sonoro delle ruote che, con movimenti ritmici, la conducevano verso la sommità delle colline. Poi si assopì, senza opporre resistenza.
Quando un sobbalzo la svegliò, non trovò più nessuno accanto a sé, e anche il paesaggio era mutato. La valle aveva ceduto il posto alle montagne. Il grigio della roccia si confondeva con un velo di nebbia. Cercò il telefonino per leggere l’ora. Tornò a guardare fuori.
Il cartello della stazione di Pergine sbucò all’improvviso. Non sapeva se era contenta di essere già arrivata. Avrebbe continuato ancora per chilometri stando seduta immobile nello scompartimento deserto, se solo avesse potuto. Ma Pergine era il capolinea di quel convoglio regionale che sembrava, a differenza di lei, desideroso di arrestare finalmente la sua corsa. Quasi controvoglia scese, trascinando un trolley rigido e nuovo su cui non c’era traccia di alcun altro viaggio.
[……….]
BRANO 5 (pp.53-54)
La mattina seguente Anna aprì morbidamente gli occhi più presto del solito, mentre l’alba rischiarava di rosa la minuscola stanza. Si sentiva di nuovo inquieta. Alle sette già trafficava con le leve e le assi del portone, come le aveva insegnato la custode, finché riuscì ad aprirlo. Lo richiuse dietro di sé con attenzione.
La montagna era più silenziosa del solito e la cascata sembrava meno rumorosa. Il rifugio dell’orso era vuoto, ma si avvicinò lo stesso. Si accorse di un piccolo sentiero che a lato portava in una direzione sconosciuta. Camminò per circa tre quarti d’ora, mentre il bosco si animava via via che il sole si imponeva con il suo tepore sulla frescura dell’alba. Doveva prestare attenzione a dove poggiava i piedi. La strada era ripida, e la concentrazione nella marcia le smorzava l’irrequietezza della mente. Poi il sentiero si restrinse. La strettoia durò poco e, dopo tre o quattro metri, si dilatò all’inverosimile, finché le si parò davanti uno spettacolo inimmaginabile, tanto strepitoso quanto inatteso. Lo spazio era libero, immenso, senza confini. Al centro, due laghi di color verde smeraldo si facevano compagnia, identici nell’estensione e nella forma come due gemelli omozigoti. Tutt’intorno si dispiegava un cerchio ondulato di colline, su cui riposavano covoni di fieno ancora verdi. Adagiati e riversi come enormi birilli, punteggiavano il paesaggio con un’armonia di pose e fogge che sembrava studiata a tavolino. Al di là delle colline, una corona di monti fumava ancora la nebbia e l’umidità del primo mattino. C’erano anche delle presenze umane. Un contadino guidava un trattore che si inerpicava su un fianco della valle.
Due anziani pescavano immobili. Sembravano statuine di un presepe montano. L’aroma pungente dell’erba fresca di taglio si mescolava all’odore salmastro che emanava dai laghi. Sull’acqua si specchiavano le colline, le montagne, i pini. Anna si fermò davanti a quello spettacolo. Chissà se Kant si era trovato di fronte a qualcosa di altrettanto bello quando aveva formulato il concetto di Sublime. L’incommensurabilità della natura oltrepassava la ragione e suscitava al massimo grado il sentimento dello stupore. Di fronte alla natura, al nostro essere al mondo, a ciò che ci accade. Di fronte al miracolo dell’essere e della vita, di fronte allo scandalo del niente e della morte. Nient’altro se non un irriducibile stupore, dove ogni logica si dichiara impotente.
Anna pianse, ma le lacrime questa volta erano rade, calde e non salate. Le sentì rigare le guance, una ad una senza mescolarsi, e poi cadere tiepide sulle labbra. Si arrestarono senza che lei facesse nulla per frenare la loro discesa. Semplicemente non scesero più. E si asciugarono in fretta.
Lentamente cominciò a camminare lungo le rive dei due laghi.
La prospettiva variava passo dopo passo. A seconda dell’angolatura, poteva osservare meglio il covone, il riflesso argentato dell’acqua, il costone della montagna, le volute di nebbia, il ciglio della collina, il lago verde. Era un caleidoscopio, in cui lo scenario cambia in continuazione pur restando intatto. Era come giocare a un puzzle che non si completa mai. Ogni tassello evocava quello precedente e successivo, ma mai l’intero. Lo sguardo non riusciva a contenerlo. Debordava da ogni lato. Ma da ogni lato trasudava bellezza. Oltre al contadino, ai due pescatori e a lei, non c’era nessuno. Solo monti, erba, colline, laghi e cielo. E alcune panchine linde, verniciate di azzurro, collocate lungo il profilo dei due laghi. Da lì si poteva ascoltare il suono flebile dei lievi movimenti dell’acqua. Anna vi si sedette, e si sentì parte integrante di quell’affresco.
Panchina n. 6
“Sento tanto amore su di lei”. Di nuovo ritrovava la voce seducente e pacata della psicologa. Il lutto di sua mamma l’aveva condotta inizialmente in quello studio, che aveva frequentato settimanalmente per due lunghi anni. Ora era tornata, dopo il lutto del padre. Era come riprendere il filo di una storia, dieci anni dopo……
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di questo libro nasce da una esperienza personale, ossia un evento critico del mio vissuto. Ma la storia si è poi proiettata verso contenuti immaginifici, fantastici. La vicenda di Anna si svolge in un eremo fra le montagne, popolato da presenze che fanno da sfondo al racconto: i custodi, il manutentore del bosco, un orso malato. Ma saranno il veterinario Ezio e il figlio Leonardo che consentiranno ad Anna di trasformare il suo male di vivere. È un testo, come ha scritto il Prof. Duccio Demetrio nella quarta di copertina, in cui ciascuno si può riconoscere, perché orienta verso i temi universali del dolore e della sofferenza, ma anche della speranza e della rinascita.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato difficile portare a termine la stesura del libro. La storia si è fatta scrivere da sé, come se aspettasse solo di prendere forma.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Io amo in particolare i classici: Dostoevskij, Thomas Mann, Kafka sono tra i miei preferiti. E poi leggo autori di filosofia (in questo senso ha inciso la mia formazione accademica, perché sono laureata in filosofia). Tra gli autori contemporanei apprezzo Murakami, ma anche Banana Yoshimoto (il suo testo “Il lago” mi ha sedotto). E infine non posso non evocare le montagne del mio conterraneo Mauro Corona (“La voce degli uomini freddi” è un testo pregnante di fatica, dolore, ma anche capacità di riscatto).
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Attualmente vivo a Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone. Fino a due anni fa abitavo in provincia di Udine. L’università mi ha portato invece per quattro anni a risiedere a Venezia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Desidererei promuovere questo libro prima di impegnarmi in un’altra stesura, ma ho già in mente un’altra storia che scriverò a breve.
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