
Edito da Erika B. Riot nel 2020 • Pagine: 156 • Compra su Amazon
La schizofrenia, decisamente, non è poesia. È prima di tutto incomprensione reciproca. Il soggetto schizofrenico non riesce a comprendere il mondo esterno utilizzando chiavi di lettura comunemente condivise, mentre le persone che si relazionano con lui faticano ad entrare nei suoi schemi mentali, a capire come comunicare all’interno di un contesto spesso impenetrabile. A maggior ragione quando lo schizofrenico non sa di essere malato: si trova quindi a soffrire per la mancanza di empatia da parte di chi lo circonda e imparerà presto a identificare come nemici coloro che non partecipano alla sua allucinazione.
‘Non è poesia’ è un viaggio attraverso l’esperienza di Erika, una bambina che si trova suo malgrado ad essere l’unica caregiver della mamma, la quale soffre di schizofrenia paranoide e a causa della sua patologia tende ad isolarsi e ad allontanare in malo modo chiunque provi ad entrare in contatto con lei. Di conseguenza, anche Erika è costretta a confinarsi entro le mura di casa, a limitare al minimo i rapporti con estranei e familiari. Prova più volte a chiedere aiuto, ma sembra che nessuno voglia riconoscere la patologia. La parola “schizofrenia” fa ancora paura e il risultato di una sottostima del problema è spesso un’escalation di violenza. Allo stato attuale, inoltre, non c’è modo di obbligare una persona non consapevole della propria malattia a curarsi.
“Non è poesia” è il romanzo d’esordio di Erika B. Riot.
Classe 1986, Erika ha vissuto 21 anni con la madre schizofrenica ed ha voluto raccontare come si svolge la quotidianità in una famiglia disfunzionale, dove il malato non sa di esserlo e dove il peggioramento progressivo della malattia può portare a episodi particolarmente inconsulti.

Intro
«Vuoi stare con la mamma o con il babbo?»
Ho perso il conto delle volte in cui mi è tornato alla mente il ricordo di questa domanda. È una domanda barbara, sciagurata. A 7 anni non puoi saper rispondere, non hai i mezzi per farlo. Non dovresti averceli mai, a dire il vero, perché buttare giù dal ponte uno dei tuoi genitori non è umano né a 7 anni, né a 15, né a 50. Ma succede. L’amore può finire, le farfalle nello stomaco svaniscono, pian piano si scopre di avere priorità diverse e spazi di libertà dove l’altro è alieno. Nel mio caso, o meglio in quello dei miei genitori, la responsabilità di tutto va imputata alla realtà che ha preso il sopravvento. È diventata una primadonna schiva e insolente la realtà, per gran parte della mia vita.
Mi ricordo il tavolo di legno chiaro della sala, posizionato proprio lì a metà tra la porta d’ingresso e la cucina, dove me ne stavo seduta a guardarmi le mani in penombra mentre cercavo una risposta da dare troppo velocemente a un interrogativo che ancora non sapevo quanto potesse influenzare ogni cosa da lì in avanti. Ricordo mia madre seduta alla mia destra, con la sola luce calda della cucina a illuminare debolmente i nostri volti. Ricordo gli occhi stanchi di mio padre, in piedi davanti a me. In piedi, perché quando sei in mezzo a un tornado non ce la fai a stare composto. In piedi, forse perché inconsciamente era pronto a prendermi e scappare, ma questo l’ho capito dopo.
«Vuoi stare con la mamma o con il babbo?»
«Con la mamma, perché ha più bisogno di me.»
Mi sentivo un po’ come un eroe dei cartoni animati, come Chihiro che rimane nella città incantata per trovare il modo di salvare sé stessa ed i suoi genitori, affrontando spiriti, streghe ed esseri strani.
Credo di aver anche gonfiato il petto nel far uscire queste parole, come a dire: “Guardatemi, sono una figlia generosa. Ho risposto bene, ora può finire il gioco”. Ma il gioco non finì. La strega Yubaba non mi ridiede i miei genitori. Anzi, le prove da affrontare erano appena iniziate.
Mio padre abbassò lo sguardo e se ne andò lentamente verso la porta di casa. Si voltò, mentre varcava la soglia, per dirmi un soffocato «Ti voglio bene», prima di allontanarsi da quello che fino a un minuto prima era il nostro piccolo nido e d’improvviso si era trasformato in una scatola di cartone, la casa fragile e insicura dove vivono i clochard.
Mia madre mi abbracciò forte per qualche secondo, mi disse «Brava», affondando i polpastrelli nelle pieghe che la maglia troppo larga che indossavo formava sulla mia schiena, poi se ne tornò in cucina.
Sentivo che stava succedendo qualcosa di strano, ma per il momento quel Brava mi sarebbe bastato. L’indomani il mio babbo sarebbe tornato a casa. O forse no.
Te sta dentro, che qua fuori è un brutto mondo
Luciano Ligabue, Radiofreccia (il film)
Già all’asilo avevo intuito che qualcosa non andava: mentre le mie amiche parlavano di principi, principesse e supereroi dei cartoni animati, io l’unico film d’animazione che avessi mai visto era Bambi insieme alle maestre; mentre le mie coetanee pensavano solo a giocare insieme e a divertirsi, io ero stata educata a prestare la massima attenzione alle “false amicizie” e alle persone invidiose, a giocare da sola, perché “gli altri” erano pericolosi. Ero diventata amica della noia, con la quale passavo gran parte delle giornate ed alla quale confidavo il mio desiderio di stringere legami. Non ho mai capito di cosa potessero essere invidiose le altre bambine, ma mia madre mi aveva assicurato che lo erano e mi raccomandava sempre di stare molto attenta.
Ero quindi una bambina molto sospettosa, guardinga, sempre all’erta: non avevo ragione di dubitare delle parole di mia madre e da lei avevo imparato che certamente quasi tutte le persone che ci stavano intorno avevano una vita segreta e complottavano contro di noi. Volendo trovarne un lato positivo, era una teoria anche affascinante, a suo modo. Dovevamo difenderci dalle malelingue e dalle cattiverie gratuite, dovevo tenere nascosti i nuovi giocattoli e non prestare niente di mio a nessuno, perché ogni pennarello ceduto a una mia amica per 5 minuti non sarebbe più tornato indietro e tutti i bambini dell’asilo sarebbero diventati avvoltoi disposti a farmi del male per avere i miei pennarelli. L’egoismo dell’infante fa parte della fase egocentrica della crescita e serve in buona sostanza a strutturarne l’identità: i bambini fino ai 5 anni hanno un forte senso del possesso, è la fase del «è tutto mio», anche quello che, in realtà, mio non è. Al di sotto della patina opaca quindi, in queste affermazioni c’era anche del vero. Ma i normali comportamenti degli altri bambini venivano costantemente interpretati come malignità, azioni volontariamente compiute a fini speculativi o distruttivi. Non potevo fare nessun favore, a nessuno. Né d’altro canto potevo accettare niente da nessuno. Se fossi tornata a casa dopo aver dimenticato di restituire un gioco non mio, mia madre l’avrebbe certamente buttato nell’immondizia, convinta che in quell’innocente giocattolo potesse essere stato inserito qualche marchingegno per spiarla o qualche polvere irritante. Gli altri, indipendentemente da chi fossero e cosa facessero, erano cattivi.
Agli occhi di mia madre, neppure mio nonno era una persona della quale potersi fidare: un pomeriggio di inizio primavera lo incontrai mentre tornavo da scuola; lui passeggiava come sempre per via Marconi, una delle strade principali di Castrocaro Terme, dove si trovava la nostra casa. Mio nonno è sempre stato un gran camminatore, era un uomo forte che è diventato adulto lavorando in campagna. La casa dei suoi genitori si trovava in collina, poco distante dall’abitazione della famiglia Versari, che nel 1944 accolse alcuni prigionieri di guerra, partigiani e antifascisti che fuggivano dalla Germania. La famiglia Riot dava loro una mano come poteva, portandogli le uova o altri generi alimentari. Ormai anziano ricordo che anche quando non aveva commissioni da fare, persone da vedere o un qualunque altro motivo per uscire di casa, macinava chilometri girando intorno al tavolo della sala, con le mani incrociate dietro la schiena. In paese tutti lo conoscevano, andava spesso a incontrare gli amici al bar o a fare una partita a carte o a bocce al circolo degli anziani. Non era strano quindi per me incrociarlo mentre gironzolava per il paese di ritorno da qualche attività.
Mi vide camminare da sola sul marciapiede opposto al suo, mi fermò con un cenno della mano e attraversò più in fretta che poté la strada. Quando mi fu davanti mi diede, come faceva sempre, una carezza sulla guancia e mi prese una mano per depositarvi dentro 4 caramelle, poi proseguì chiedendomi come era andata la mia giornata a scuola e raccomandandomi di salutargli la mamma che mi aspettava a casa. Tornata a casa con le mie 4 caramelle in mano, corsi in cucina e raccontai con gioia di quell’incontro a mia madre. Lei sgranò gli occhi mi guardò esterrefatta e spaventata, stupita del fatto che io mi fossi fidata di qualcuno là fuori, seppur si trattasse del nonno. Per lei, non dovevo credere nemmeno a me stessa, ai miei occhi, alle mie percezioni. Mi fece immediatamente buttare le caramelle nel cestino, dicendomi che l’uomo con cui avevo parlato non era certamente il padre di mio padre, ma un sosia mandato da qualche persona malvagia al solo fine di avvelenarmi. Un anziano qualsiasi a cui erano stati dati gli abiti di mio nonno per adescarmi e poi avvelenarmi approfittando della mia ingenuità. Io continuavo a non capire…
«Ma era il nonno Federico, davvero» insistevo io. Mi trovai addosso una pioggia tanto scrosciante, quanto convinta e insistente di critiche alla mia capacità di osservazione che finì col farmi dubitare persino di quel che vedevo e sentivo. Alla fine della discussione, non riuscivo a smettere di domandarmi se davvero fossi in grado di riconoscere le persone, le voci, i volti. Ero io quella incapace, quella che non sapeva distinguere uno sconosciuto da una persona familiare. Mia madre, che non era nemmeno presente al momento dell’incontro, era invece asserragliata nelle sue certezze.
Lei ha sempre avuto dei grossi problemi alla vista. Glaucoma, cornee vascolarizzate, cataratta e altre patologie, tutte insieme. Un miscuglio talmente ampio di condizioni degenerative che, ogni qualvolta la accompagnavo da un oculista, il medico non sapeva neanche da che parte partire. Riferisce di avere queste difficoltà da quando ha preso una pallonata in faccia da ragazzina. Ma in realtà dice anche che le sue difficoltà visive sono iniziate quando ero piccola io, e allo stesso tempo racconta che già alle elementari stava nel primo banco perché non ci vedeva bene. Insomma, ha le idee molto confuse a riguardo. Un cestino pieno di versioni diverse da cui prendere di volta in volta la più comoda, o anche solo la prima che capita. Sua madre, Dio l’abbia in gloria, a dire il vero sosteneva che questi problemi li avesse sempre avuti, fin dalla nascita. La portò da molti specialisti, fece numerosi viaggi e altrettanti sacrifici per accompagnarla, da sola e con cinque figli, da qualche medico che potesse regalarle la vista. Per consentire alla sua ultimogenita di osservare il mondo. Ma non c’era niente da fare. Il responso era sempre lo stesso: la capacità visiva di mia madre sarebbe inevitabilmente andata peggiorando. Non c’era cura, a quei tempi. Ad oggi ha fatto quattro trapianti di cornea ma il risultato è sempre stato quello di recuperare la vista per qualche mese, per poi risprofondare nel buio. Forse, anzi, ne sono certa, le tenebre che hanno aperto la porta del suo cuore e l’hanno occupata come una banda di squatter sono figlie dello stesso buio che avvolge i suoi sensi. Quando non hai modo di vedere quello che ti circonda, quando non conosci gli sguardi di chi ti ama, devi scegliere se sentire i sentimenti di chi ti circonda o immaginarli. E l’immaginazione, si sa, può portarti un quadrilione di chilometri lontano da questo pianeta.
A causa della vascolarizzazione delle sue cornee, mia madre ha sempre avuto gli occhi rossi. Sembrava che un folletto avesse steso sopra il suo globo oculare un fitto tappeto purpureo e opaco, che lasciava però intravedere le sue pupille e le sue iridi scure, imprigionandole. A me ovviamente questa condizione pareva la normalità, come se avesse avuto gli occhi azzurri o marroni o neri, dato che l’avevo sempre vista così. Anzi, spesso mi chiedeva di che colore fossero i suoi occhi e non sapevo rispondere: guardando oltre la patina scura potevano sembrare in alcuni giorni azzurri, in altri neri. Ma i bambini, si sa, sono molto curiosi e al tempo stesso possono sembrare spietati quando notano qualcosa che gli sembra diverso. Non hanno filtri, dicono quello che pensano senza preoccupazioni, senza censure, senza paura di far male. Mentre stavo disegnando mia madre e il suo viso dallo sguardo color amaranto nell’ora di pittura all’asilo, una mia compagna vedendo quel colore inusuale utilizzato per raffigurare gli occhi, mi disse: «Tua madre è il diavolo!». Andammo avanti qualche minuto a battibeccare, facendo a gara a chi alzava di più il tono della voce. Tornata a casa, non riferii di questa piccola discussione a nessuno. Sapevo che, se lo avessi detto a mia madre, mi avrebbe allontanata ancora di più dalle mie compagne e avrebbe iniziato uno dei suoi soliti comizi sulla perfidia della gente. Francamente, non ne avevo alcuna voglia. Andai avanti però per qualche giorno a rivivere nella mia mente quel bisticcio: «E se Priscilla avesse ragione?» mi chiedevo riflettendo sulle parole della mia amica. In fondo, la mia era l’unica mamma che vedevo sempre così nervosa e preoccupata.
Partendo da questi presupposti di totale sfiducia nei confronti delle persone, persino nei confronti dei parenti e dei bambini, come potevo io costruire un rapporto sano, saldo e sereno con i miei coetanei o con altri adulti?

Come è nata l’idea di questo libro?
In realtà ho sempre saputo che prima o poi l’avrei scritto, ma non sapevo da dove partire, mi fermavo davanti al foglio bianco che mi guardava con sguardo interlocutorio. Poi, per la prima volta da quando me ne sono andata di casa, ho avuto paura per la mia sopravvivenza e per quella di mia madre. E’ stato il terrore a muovere la mia mano, in 3 settimane avevo finito la prima stesura, lo scheletro del manoscritto.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Dopo l’iniziale scrittura “di impulso” e le prime fasi di revisione ho dovuto mettere il manoscritto nel cassetto per un po’ di tempo, perché non riuscivo più a trovare i punti da sviluppare maggiormente. Sapevo che c’erano ampi margini di miglioramento, ma ormai conoscevo la bozza a memoria e non sapevo come modificarla. A inizio quarantena, quindi 3 anni dopo la prima stesura, mi son detta “ok è passato abbastanza tempo, possiamo darci un’occhiata” e ho scoperto di aver dato per scontate molte interpretazioni che al lettore sarebbero risultate oscure senza una valida spiegazione che le accompagnasse.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori preferiti sono Palahniuk e Terzani, ma non ho la presunzione di definirli “di riferimento”, non mi potrei mai avvicinare a loro.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata a Forlì ma vivo a Bergamo fin da piccola, da quando ci siam trasferite qui con mia madre per avvicinarci ai suoi parenti.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi mancano un paio di capitoli per finire un secondo libro di stampo totalmente diverso, molto sarcastico. Ho poi una cartella con degli appunti circa personaggi, ambientazioni e trama di un romanzo rosa, ma probabilmente lo pubblicherò con un altro nome.