Edito da Edizioni Helicon nel 2020 • Pagine: 794 • Compra su Amazon
Romanzo potente, e al contempo ironico, che narra il riscatto sociale, l’apoteosi, il crollo e la rinascita di un ciociaro con una vita “normale” per un certo tipo di società rampante.
Una vicenda inventata ma più vera del vero sulla corruzione, in Italia e altrove, che si snoda dal boom economico del dopoguerra e arriva ai nostri giorni, con rimandi a gravi episodi ormai di pubblico dominio, ma anche a risvolti parzialmente inediti.
Una spietata, complessa e dettagliatissima, descrizione di un abituale “modo di fare”, in un’epopea che si dipana lungo i percorsi tortuosi dell’arrivismo e dell’attitudine a comprare e farsi comprare, al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, che giunge all’odierna palude nebbiosa della pervasività informatica, del “tempo reale”, dell’interconnessione totale, della globalizzazione dei mercati e delle vite nell’epoca “social”, nella quale né i difetti, ma neppure i pregi di un tempo, sembrano essere più possibili, sino alle prime avvisaglie del contagio mondiale che metterà tutto in discussione.
Molti personaggi, alcuni virtuosi altri diabolici, ma tutti “reali”, sono i comprimari, talvolta grotteschi talaltra amabili, dell’ineffabile protagonista di questo quasi-thriller, che invitano al giudizio ma anche all’indulgenza, quale umana consolazione per non soccombere ai mostri creati con le nostre stesse mani.
Un racconto affascinante di tensione etica e di autentica rivoluzione dei costumi materiali, morali e religiosi, che è anche una storia d’amore e di sesso, in tutte le sue declinazioni, scritto dall’esperienza di un dirigente d’azienda e conoscitore del mondo della corruzione e del furto su ampia scala, dalla sapienza di un teologo e operatore sociale nel campo dell’emarginazione e dalla semplice umanità di un marito, padre e nonno.
Ad un certo punto scorsero in lontananza un camion in mezzo alla pista. Avvicinandosi Quirino si accorse che si trattava di un mezzo militare, con poca ruggine ma semidistrutto! Scese per osservarlo da vicino e gli si strinse il cuore! Sul muso del veicolo si poteva chiaramente leggere la marca: LANCIA 3 RO. Più in là scorse un Bedford inglese e vide allora, come dal vero, il sergente Caradonna, suo padre, alla guida del Lancia, scendere dal mezzo, col moschetto ancora fumante in una mano e l’altra a premersi il petto, far cenno, come di non sparare più, al nemico del Bedford, per poi cadere fulminato nelle braccia di questi, l’ultimo supremo pensiero rivolto al suo Quirino, il suo unico fiore! Il ciociaro si meravigliò che su quei residuati bellici vi fossero pochissime tracce di ruggine e corrosione! L’aria secca del Sahara li aveva come rinsecchiti, prosciugati ma preservati, come fossero state le vestigia di antichi astronauti dopo uno sbarco lunare! Soltanto il silenzio, sacrale e stupefatto, della misericordia si addiceva a quel luogo di memoria di un sacrificio inutile, un monumento eterno di quanto fosse piccolo l’errore umano, insignificante e tuttavia terribile, nei confronti dell’infinita immensità dell’Universo! Ormai quello era un luogo sacro, come mai avrebbero potuto essere la più grande chiesa, basilica, moschea, sinagoga, tempio, esistenti al mondo! il pavimento era la sabbia del deserto, intrisa del sangue dei caduti, le colonne le grida dei feriti, la volta il cielo abbacinato, calcinato, dal sole implacabile di giorno e glorificato dalla luna e dalle stelle della notte, come una preghiera infinita ed eterna!
Poi il reticolato deviò rapidamente sulla loro sinistra mentre la pista girava lentamente verso sud-est e le colline si allontanavano a loro volta verso destra, lasciando davanti a loro un’ampia pianura sabbiosa. Si cominciavano a scorgere in lontananza catene di dune di un bel colore dorato, dovuto al sole pomeridiano che le illuminava, con sporadici asini e cammelli che, in controluce, sembravano far loro la guardia. Da lì in poi non incontrarono più alcuna traccia di guerra ma videro, in lontananza, una grande pianura color marrone, una specie di depressione con in mezzo ampie zone che luccicavano: si trattava dei laghi salati! I cordoni progressivi di dune si erano intanto avvicinati sensibilmente, soltanto a qualche centinaio di metri.
Si fermarono e tornarono verso il villaggio, sull’imbrunire. Il sole era ormai basso ma la temperatura, in quel giorno di inizio novembre, era ancora abbastanza elevata! Quirino si fece portare al cimitero musulmano, l’unico della cittadina, dove le salme venivano inumate semplicemente, molto spesso nude e sempre senza nome. Là sotto riposava anche suo padre! Pregò, aprì il fazzoletto e qualche lacrima bagnò proiettile e fibbia, ci aggiunse una manciatina di terra del cimitero, poi risalì sul fuoristrada e ordinò al pilota di riportarlo a Tobruk, non senza prima essersi abbracciato e baciato col Maggiore libico, che appariva commosso quasi quanto lui!
Il sole era calato sulle dune, dietro la moschea violata dalla cieca smania iconoclasta del dittatore libico la grande luna si faceva più chiara e la prima stella della sera era un diamante nell’indaco del cielo mentre, in lontananza, tra le case basse, una vecchia tirava l’acqua da un pozzo. Quirino, nella magia di quell’ultramondano desertico, nel mistero senza tempo del Sahara trionfante – un tempo inutilmente violato! -, ricordò, con emozione da far schiantare il cuore nel petto, i versi della canzone di guerra, che la madre tra i singhiozzi accorati spesso cantava allora. Senza dubbio era un componimento, un inno quasi, della guerra fascista, una guerra illusoria e tragica, però l’autore l’aveva dotato di un afflato evocativo di deserto e sangue, di mistero sahariano, di incanto musulmano e di arsa immolazione bianca e beduina, eterni e indimenticabili!
“…Inchiodata sul palmeto – veglia immobile la luna
a cavallo della duna – sta l’antico minareto…!
…
…Colonnello non voglio encomio,
sono morto per la mia terra…!”
Quel luogo d’Africa, così estraneo alla sua vita, alla sua civiltà, divenne nella mente di Quirino, il luogo della sua infanzia e si stupì nell’osservare, proprio là tra le sabbie del deserto, come il tempo che conta nell’esistenza sia soltanto quello dell’infanzia, della puerizia e della adolescenza! Un tempo infinito, quasi fermo, quasi – si perdoni l’ossimoro che bisticcia col concetto – “senza tempo”!
Per tutti è così! Tutti ricordano benissimo i loro primi anni, dalla presa di coscienza di sé, verso i due-tre anni, sino all’incirca ai diciassette-diciotto anni! I minuti particolari, un grembiulino a quadretti con la martingala, la focaccia dolce cotta nel forno della cantinozza, i trastulli tra le gambe del papà, il paiolo di ferro sul fuoco del camino, il frontone di San Michele Arcangelo che spunta tra i tetti delle case lassù sul terrazzo, i poveri balocchi, e perfino quel soldatino rotto che ci si era ripromesso di incollare ma che ancora aspetta – perché in fondo quel proponimento non era altro che di ieri, proprio di ieri e non prima! -, l’uovo di legno col quale la mamma rammendava i calzini, la canzone Giarabub, il Natale di guerra, ma sempre Natale per un bambino, col bambinello e il bue e l’asinello di gesso tutti scoloriti, le nenie cantilenate da Alessandrina la cipiccia, la vecchia balia che non aveva mai visto il mare, le stagioni che si distinguevano soltanto dai riflessi, più o meno intensi e dorati, che filtravano dalla finestrella della cucina sotto l’arco di Sant’Antonio, la Madonnina azzurra col lumino ai piedi che rischiarava il dormitorio del collegio dei Maristi, le prime scarpe Superga, di tela bianca, da ragazzo grande!
La vita è una lunghissima prima giovinezza, seguita da un brevissimo, ma interminabile – ancora un’ossimoro! – dolore di felicità perduta! Soltanto quei quindici-sedici anni contano, sono tutta la vita, il resto è un precipitoso avvicendarsi, senza né senso né memoria, ma col continuo ricordo minuzioso, nostalgia di quella vita là, che saremmo disposti e capaci di riprendere in ogni momento con estrema facilità e felicità, perché nella memoria, tanto particolareggiata e minuziosa, l’unico aspetto vago e indistinto l’assumono i ricordi del dolore, della paura, come quella della guerra, mentre si rammenta bene soltanto il tempo felice! Perché per i ricordi brutti non vi è quasi posto nella memoria involontaria, come non vi è posto per le banalità affastellate, rapide, incolori e sciocche degli ultimi trent’anni! Una corsa insensata e immemore, senza costrutto né grazia, verso mete che ogni volta si spostano più in avanti, mentre per trovarle basterebbe guardare indietro!
La dolcezza amara – terzo ossimoro! – esiste veramente perché fatta della gaiezza del ricordo e della disperazione corrente perché questo non sarà più vissuto, al pari dell’acqua, che scende sempre e mai più potrà risalire all’altezza della sorgente! Il placido accoramento – quarto ossimoro! – che corrisponde alla consapevolezza di avere vissuto bene la propria stagione felice, in qualsivoglia condizione reale ciò sia avvenuto, ma di non essere affatto sicuro di non averla tradita in seguito, anzi!
L’aereo, durante il ritorno, fu un viaggio nel tempo: dallo “ieri” della sua infanzia, inconsapevolmente ferita ma consapevolmente felice, ad un oggi senza né grazia né magìa! Di una cosa Quirino era quasi sicuro e cioè che fosse stato Antonio in persona, quel pomeriggio, a condurre per mano suo figlio nel territorio desertico di Giarabub, dove lui stava ad attenderlo! Suo padre l’aveva guidato, così come l’aveva condotto, per tutta la vita, sino a quella posizione sociale invidiabile, fino a quel contratto scellerato e, mediante questo, fino a lui!
Un’altra cosa era certissima: nonostante che il loro feroce colonnello, Capo supremo, blaterasse sempre di pretendere risarcimenti da parte dell’Italia alla Libia, quei libici ancora erano amici degli italiani, li rimpiangevano e, una volta, avevano combattuto volentieri con loro e per loro! Due popoli uniti dalla “quarta sponda” del “territorio metropolitano”, durante un tempo e in un luogo felici, nei quali l’islamico era amico del cristiano, molto al di là del pensiero, accecato dal potere, del dittatore cristiano di ieri, di quello musulmano di oggi e di chissà quale di domani, troppo vanagloriosi per saper leggere negli occhi semplici, saggi e pacifici della gente comune!
Come è nata l’idea di questo libro?
Mi è nata dalla mia esperienza di dirigente d’azienda, ben addentro ai fatti di furto e corruzione, ma anche di operatore nel terzo settore, come pure di marito, padre e nonno.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato difficile, anzi l’ho scritto con gioia e trasporto e anche molta ironia, pur essendo un romanzo ponderoso e ricco di vicende e significati.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Classici come Moravia, Vittorini, Pavese ecc. ecc. e i nuovi bravi come Carofiglio e Veronesi, tanto per intenderci.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Roma per lo più, ma anche Milano e lunghi soggiorni all’estero per lavoro.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dopo tre libri pubblicati, un saggio, un romanzo e una raccolta di poesie e, adesso, questo nuovo romanzo, ne ho già in mente altri due, uno dei quali andrebbe a costituire quasi una trilogia con gli altri due. Mi stimola anche il fatto che, con l’ultima pubblicazione, ho avuto accesso ad un editore che pubblica senza il contributo dell’autore, oltre alle imbarazzanti lodi dei miei affezionati e gentili lettori.
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