L’ora del diavolo è una raccolta di racconti fantastici di Alessio Del Debbio pubblicata nel 2015 da Sensoinverso Edizioni, composta da storia profondamente legate al folklore della Lucchesia. Ecco la descrizione del libro, un estratto da uno dei racconti e, in fondo, il link alla scheda completa del testo su Amazon.
L’ora del diavolo: descrizione del libro
L’ora del diavolo è un’antologia di tredici racconti fantastici, ispirati a leggende e tradizioni popolari della Lucchesia e delle Alpi Apuane. Sono racconti che affondano le loro origini nel folklore locale, storie di patti stretti con il diavolo, favole per ogni età, che vedono protagonisti le creature magiche del bestiario apuano: dalle fate di pioggia agli streghi sui loro serpenti volastri, dalle sirene ai folletti della Versilia, passando per Lucida Mansi, l’Omo Selvatico, i fantasmi della Balza e le streghe nel bozzo. Racconti che narrano di un fantastico diverso, rielaborando lo scontro tra bene e male, tra luce e ombra, in chiave prettamente nostrana, mettendo in luce i piani architettati dal diavolo, in cui gli uomini finiscono spesso per cadere.
L’ora del diavolo, un estratto da uno dei racconti
Niente accade per caso. Non qua, sulle Alpi Apuane, dove regno incontrastato da secoli. Nessuno dei suoi abitanti può opporsi al mio volere, troppo deboli e succubi a desideri che io soltanto posso mutare in realtà. A chi dovrebbero rivolgersi, in fondo? Al Nazareno? Se esiste, ha ben altro da fare che prestare ascolto alle suppliche di ogni singolo uomo insoddisfatto. Agli streghi? Cenciosi relitti, se ne stanno a dormire in gelide caverne, uscendone a sera inoltrata, soltanto per montare sui Serpenti Volastri e rischiarare il cielo, come comete di fuoco, prima di riunirsi alla tavola di pietra in cima al Monte Matanna, e conversare, ricordando i bei tempi in cui erano giovani e forti, ubriachi di vino e strafatti di erba luccica. E le fate? Quelle stronzette con le ali, disinteressate ai problemi degli uomini, si nascondono in una buca presso Cardoso, da cui escono di notte, invisibili, per andare a prendere un po’ d’acqua, o nella fossa sotto Candalla, dove passano il tempo a piangere. E quelle poche che ancora non hanno rinunciato a un legame col mondo si ritrovano al laghetto ai piedi della Cascata dell’Acquapendente, bagnandosi e danzando sulle sue fresche acque, lisciandosi i lunghi capelli dorati e convincendosi, l’un l’altra, di essere ancora belle. E se qualche malcapitato, udendo le risa giulive, dovesse imbattersi in loro, non esiterebbero a farlo cieco per l’eternità.
Alla luce di ciò, è normale che gli uomini si rivolgano a me. Ah, gli uomini, quanto mi piacciono! A volte penso che senza di loro la mia esistenza sarebbe incompleta, un vuoto osservare da dietro le quinte della realtà senza poter agire, per cui sì, li adoro e non mi vergogno a dirlo. Li cerco, li osservo, soffro e rido con loro, mentre navigo in quegli animi inquieti per comprendere cosa vogliono davvero. E poi glielo offro, così, con naturalezza, su un piatto di lusinghe che mai nessuno ha rifiutato di assaggiare. Sono dei gran creduloni e anche ipocriti, a ben pensarci. Pregano Dio, la Madonna, i santi del firmamento, di cui conoscono a malapena i nomi, ma poi, quando realizzano che dai piani alti nessuno dà loro un segno, non esitano a cadere tra le mie braccia. E a trovare ciò di cui hanno bisogno.
Oh, io so bene cos’è che vogliono. Lo so perché cammino tra loro, non visto, celato ai loro sguardi stanchi, troppo presi dai problemi quotidiani. Pastori, falegnami, boscaioli, sarte e donne di casa, tutti, in fondo, hanno bisogno di qualcosa. A volte pascolo sul ciglio della strada che porta ad Arni, poco prima della Galleria del Cipollaio, in forma di capra bianca (una forma che, lo ammetto, adoro perché mi rende attento e scattante, permettendomi di balzare da una cima all’altra delle Apuane), e li guardo passare, da soli o con vecchi muli, piegati dal marmo o dalla legna che devono trasportare. Altre volte, sotto forma di cane o caprone nero, mi rotolo sui prati della Pania, inebriandomi del forte odore di menta, mentre gli uomini mi passano vicino, con le gerle piene di neve sulla schiena. Tornano dalle Buche della Neve, in cima alle Panie, dove hanno staccato blocchi di ghiaccio per portarli sulla tavola di qualche signorotto di città, che, al massimo, li ricompenserà con un soldo bucato. Triste destino, il loro, non diverso da quello di tanti altri di cui odo quotidianamente i lamenti. E allora decido di aiutarli, perché è la mia natura, osservare e poi agire, per un reciproco tornaconto.
Quando mi presento alla loro porta, vestito tutto elegante, con i capelli biondi impomatati e un effluvio di fiori di montagna a coprire un certo sgradevole odore di zolfo, mi scambiano per qualche nobile, magari il figlio di un aristocratico impegnato nel Grand Tour della penisola italiana, e mi ricevono con tutti i loro poveri onori, ma io taglio corto. Non voglio pane né zuppa, soltanto che prendano i miei doni e ne facciano buon uso. E i miei doni sono sogni che diventano realtà, non vuote chiacchiere da mercato o preghiere che nessun Dio ascolterà.
Se hanno fame, offro loro del cibo. Se hanno sete, faccio piovere fino a riempire pozzi e torrenti. Se devono costruire ponti, schiocco le dita e li faccio apparire, lasciando che si prendano loro il merito. Per questo mi amano, ringraziandomi più e più volte, e mi affidano la loro esistenza, dichiarandosi miei servitori, senza rendersi conto che essa è già mia, da quando mi hanno permesso di entrare. Sono il gran burattinaio di vite che, in mia assenza, sarebbero poco gloriose, destinate a perdersi negli abissi del tempo senza che nessuno ne abbia memoria.
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