
Edito da Besa Muci nel 2021 • Pagine: 156 • Compra su Amazon
In un’epoca senza tempo, dominata dalla legge delle armi e dalla vendetta, Sali Kamati, erede di un nobile casato, è costretto a riscattare il sangue del fratello ucciso per difendere il proprio onore. Il canto menzognero porta la notizia al villaggio e Dirja, sua moglie, intuisce che una sventura presto si abbatterà sulla loro casa. Gli uccelli del malaugurio, appollaiati sul platano del giardino, proiettano un’ombra oscura sul protagonista che si prepara a morire non prima di aver messo in ordine i suoi affari. Ma l’Ora ha in serbo per lui un destino completamente diverso: l’arrivo di Tusha, la “merla di montagna”, porterà scompiglio, ossessione, vergogna e maldicenza che si diffonderanno come un morbo. Un romanzo pervaso da atmosfere magiche, i cui personaggi devono confrontarsi con i propri demoni. Un’epopea eroica che unisce toni cupi e delicate sfumature liriche restituendo al lettore un affresco dell’animo umano nelle sue pieghe più insondabili e nascoste.

L’uomo che gli stava davanti gli entrò dritto in testa attraverso quelle due fessure. La fustanella era bianca come la brina di quel limpido mattino, le opinga avevano in cima due pompon rossi come il sangue che
gli aveva scaldato il petto, le calze bianche sparivano all’interno del gonnellino che gli ricopriva le ginocchia. Sulla camicia dalle ampie maniche indossava uno xhamadan nero carbone, come i capelli della figlia che lasciava a casa senza un marito. Tra le maniche larghe
dello xhamadan, alcuni fili d’oro strisciavano come serpenti. Il cinturone scuro, arricchito da fili argentati, si raccoglieva intorno alla vita di quello spilungone. Dall’interno del cinturone faceva capolino soltanto
l’impugnatura di una rivoltella, sulla quale vi era incisa la testa di un toro. L’altra arma la teneva nella mano destra che, indebolita dallo sparo, penzolava in basso, mentre il sudore grondava a terra, aprendo piccoli solchi nella polvere.
Era un bell’uomo, con un paio di grossi baffi che riposavano sulle guance non rasate da giorni, ricoperte da spine grigie. I lunghi capelli, simili a sterpi, gli ricadevano sulle spalle. Da tempo si erano ingrigiti.
Sulle labbra carnose vi era un naso dal dorso sporgente. Sotto la fronte, solcata dalle tortuose vie della vita,trovavano posto due occhi azzurri come il cielo in cui risuona lo schiamazzo della gazza. Il capo era adornato dalla qeleshe, che luccicava alla forte luce del sole, con una punta in cima grande quanto un mignolo.
Çelo si reggeva in piedi come un tacchino a cui avessero tagliato la gola, senza emettere alcun verso. Gli arrivava alle orecchie la voce tenebrosa di quell’uomo, come un rombo assordante.
“Sto vendicando il sangue di mio fratello. Io sono Sali Kamati e lascio il mio destino nelle mani di Dio, perché ora è arrivato il mio turno”.
Quelle parole amare, velenose come il caffè della madre al mattino, fecero rivoltare Çelo Mezani. Disteso in quella radura, in cui le margherite emanavano un aroma agro che si mescolava all’odore di maggiorana,
si sentiva inebriato, appesantito. Le palpebre gli si fecero di piombo, greve come il portone di una fortezza.
… al primo colpo di fucile,
Çelo girò il viso…
Il lamentoso canto ricoprì tutti i Prati dei Tarei; il violino accompagnava il rapsodo, le cui grida erano seguite da altri uomini, che gli tenevano bordone.
“Il canto nasce prima della morte”, pensò Çelo, al quale tutto quel cielo blu senza una sola nuvola, davanti ai suoi occhi, scorreva tra le vene, adagio, come un ultimo respiro. L’immagine di Sali Kamati inter-
ruppe quel mare calmo. Gli accarezzò la guancia. Dal suo occhio versò una lacrima pesante, che l’occhio di
Çelo bevve assetato.
“Acqua… un goccio d’acqua” si lamentò Çelo Mezani.
L’altro prese una fiaschetta e gli versò molto attentamente una goccia d’acqua sulle labbra secche, screpolate come la cima del Çuka. L’acqua umettò quei due deserti rossi, ma Çelo non aveva neppure la forza
di leccarla. L’altro, quindi, bagnò un fazzoletto pulito, su cui era ricamata la testa di un toro, e gli rinfrescò le labbra, gli zigomi, la fronte, il mento, il collo scoperto.
“E adesso? Stai meglio?” gli domandò premurosamente Sali Kamati.
Çelo gli rispose abbozzando un sorriso…. al secondo colpo di fucile,
Çelo chiuse gli occhi…
Il canto continuava a riempire l’aria, mentre il violino della morte faceva rabbrividire. Ma Sali si stupì notando un’anomalia: aveva sparato una sola volta, da dove era arrivato il secondo sparo?
“Maledetta madre!”, imprecò tra sé, ma aveva altro a cui pensare perché Çelo, dopo aver ascoltato quel lamento, aveva chiuso gli occhi. Trovò una lastra di pietra levigata e gliela mise dietro la nuca. Gli incrociò
le mani sul petto e posò sui palmi la qeleshe che era rotolata poco più in là, alla sua sinistra.
Gli sistemò le rivoltelle nel cinturone, riunì le gambe aperte, scuotendo per bene dai ciuffi delle opinga la polvere di vetro. Ora sì che restavano dritti. Estrasse il sudario di seta dalla sua cintura. Gli pose sugli occhi due sassolini, affinché gli uccelli non potessero cibarsene se il corpo fosse rimasto a lungo in quella valle.
Avvolse il corpo del morto dalla testa ai piedi e sugli angoli della stoffa sistemò delle pietre perché non volasse via. Poi si mise in piedi, si tirò su le calze che gli erano scivolate fino alle ginocchia, ripose l’arma nel cinturone e si avviò senza fretta.
… al terzo colpo di fucile,
Çelo fu ucciso davvero…
Sali si indispettì e le orecchie gli si arrossarono fino alle punte.
“Da dove è arrivato il terzo sparo?” si chiese, mentre il violino strideva come il canto della cicala. Sentì un soffio di vento gelido sul collo. Aveva seminato morte ed era madido di sudore. Si voltò e vide uno
stormo di uccelli del malaugurio che volava seguendo il suo passo. Non emettevano alcun verso, sbattevano soltanto le ali e gli stavano dietro come una mandria di montoni.
Andarono dalla madre e le dissero che Çelo era stato ucciso…
oh vi prego, oh vi prego…
Sali Kamati si sentì come punto da una vespa. Non si trattenne più e il sangue gli salì alla testa.
“Ma di quale madre sventurata parlate, mostri! Da circa dieci anni la madre di Çelo è ricoperta da due palmi d’erba. Ma perché mentite, vi prenda il diavolo, vi prenda!”Gli uccelli si fermarono per un istante.
Lo fissarono come fosse un seme di canapa e rimasero
sospesi in aria.
… non ditemi queste parole
perché il mio Çelo è vivo
vi prego, vi prego…
non darò più alla luce un figlio.
“Eh…” disse tra sé e, a grandi passi, partì per arrivare il prima possibile. Scendendo dal pereto selvatico di Çapo, là dove cominciava il quartiere degli zingari egiziani, scorse la capanna di legno di Safet. Avvicinandosi ancora, vide che lo stava aspettando sulla por-
ta con le mani sui fianchi.
Fece strada a Sali Kamati all’interno della capanna, mentre gli uccelli per la prima volta emisero un grido e andarono a posarsi sul tetto.
“Colpiscili e scacciali” gli disse Sali Kamati “hanno un disgustoso odore di…”
“… di morte”disse Safet togliendogli le parole di bocca.
L’uomo si sedette su un canapè in legno e l’altro lo aiutò a liberarsi dello xhamadan, del cinturone, di un sacchetto di monete, delle armi, della cartucciera e delle opinga. Ripose il tutto su una sedia con atten-
zione, poi prese un guanciale e lo sistemò alla testa del divano.
Porta e finestre erano aperte ma il camino era acceso; in una pentola bolliva un liquido che emanava odore di montagna.
“Cosa ci hai messo, Safet?” gli domandò indifferente.
“È un’erba che ti placherà la mente e ti riscalderà il
cuore raggelato per aver causato morte”.
“E tu come lo sai?”
“Lo so, lo so… Ho mandato mio figlio ad avvisare
la vedova, perché vadano a recuperare il corpo là dove
lo ha lasciato vossignoria”.
“Come lo hai saputo?”
“Il canto ti ha preceduto…”
“Hanno mentito, Safet. Io ho sparato una volta sola”.
“Tutti uguali voi di questa razza. Fate d’un fuscello
una trave…”

Come è nata l’idea di questo libro?
Il libro nasce dall’idea di raccontare dell’Albania attraverso la Storia. Non necessariamente la Storia dei libri, ma i racconti degli avi, degli antenati. Cerco di parlare della mia terra, attraverso la loro voce e le loro parole, perché penso che il lettore italiano abbia necessità di sentir parlare dell’Albania in maniera semplice e per com’è la terra. Qui, in questo libro si concentra la mia passione per i miti e i racconti degli avi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà di portarlo al termine, non nasce dall’argomento o dal libro stesso, bensì dal mio essere insicuro, dal mio mettermi sempre in discussione. Diciamo che gli ho dato il giusto tempo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei punti di riferimento, come ho detto, sono i miei antenati.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Tirana, dove sono giornalista e conduttore televisivo e radiofonico.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Quest’anno ho vinto il Premio dell’Unione Europea per la Letteratura 2021 con il romanzo Flama, che presto sarà tradotto anche in Italia. Intanto, sto lavorando a un nuovo libro, di cui non posso svelare nulla.
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