Edito da Paola Emaldi nel 2017 • Pagine: 151 • Compra su Amazon
Parigi, 1958. Tutto era iniziato il giorno in cui il maestro Lachart aveva proposto, per la lezione di storia: La seconda guerra mondiale e la resistenza in Francia.
Si trattava della lezione di storia più entusiasmante, perché quando si è il figlio di un grande eroe è naturale sentirsi orgogliosi ed è così che Samuel si sentiva: profondamente orgoglioso delle sue origini e della sua identità. Finché non viene citata quella data, assolutamente incongruente con quella della sua nascita.
Accompagnato dall’amica Cecilia, Samuel cerca la verità sul padre, tra il laboratorio del liutaio Gerard e il garage delle invenzioni.
Attraverso i taccuini di Ester, la madre di Samuel, i due ragazzini si imbattono nella formula che vuole condensare tutte le espressioni della fisica, come dovevano essere al tempo zero del cosmo, il frutto della ricerca che aveva assorbito le energie di una vita intera, quella, appunto, di Ester, appassionata astrofisica.
L'arrivo di Jan a Parigi minaccia di destabilizzare la vita di Samuel, insidiataa dall'amore più invincibile tra gli amori potenti, quello che appartiene al passato.
Attraverso la voce di Jan si dipana la storia di Ester, raccontata dall'infanzia a Praga agli studi a Berlino, quindi attraverso gli anni della guerra fino alla nuova vita a Parigi, con il figlio Samuel, in una casa dalla quale la vista sulla Senna si confonde con quella sulla Moldava. E un padre che li osserva sorridente da una fotografia appoggiata sul comodino della camera da letto.
Con l’aiuto di Hubert, il portiere, ci avevamo portato la credenza con la ribalta, che poteva fungere da piano di lavoro, con tanti piccoli cassetti, sia sull’alzata sia ai lati, dove riporre la minuteria, una sedia, il cesto in cui avevo raccolto i miei disegni, uno scaffale in cui avevo disposto manuali, libri e quaderni di appunti, la scatola degli attrezzi.
Ci avevo condotto Cecilia dopo la scuola, poi insieme eravamo andati a ritirare Napoléon alla liuteria.
Gerard era impaziente di consegnarci il cane mentre Tatì cercava di convincere Napoléon a infilarsi il guinzaglio, operazione che apparve immediatamente assai complessa dato che Napoléon non si decideva a stare fermo.
Gerard era visibilmente contrariato per via del fatto che nel trambusto delle manovre non poteva mantenere la posa pubblica, che gli consente di nascondere il suo lato destro.
Finalmente la pazienza di Tatì ebbe la meglio e il cane ci fu consegnato con estermo sollievo di Gerard. Uscimmo quindi dalla liuteria per avviarci verso casa.
Per strada Cecilia si sforzava di tenerlo, ma Napoléon la tirava da ogni lato ed ero dovuto intervenire perché non la facesse cadere nella neve.
Sulle prime Napoléon non era sembrato affatto felice della rimessa, soprattutto quando la porta si era chiusa.
«Speriamo che non vada avanti tutta la notte!»
Ero preoccupato per il baccano e temevo la reazione dei vicini.
«Sicuramente si abituerà, il tempo medica tutto» mi aveva rassicurato maman.
Nel pomeriggio Hubert mi aveva consegnato una lettera per maman. Aveva il francobollo Cecoslovacco, era di Nina.
Nina è un’ amica d’infanzia di maman che era rimasta a Praga e sognava di venire a Parigi per aprire un atelier di moda, dato che era una sarta, però non era possibile per via della cortina di ferro.
Scriveva frequentemente e chiedeva delle mie fotografie, in cambio ne inviava di sue ma erano senz’altro di molto tempo prima, dato che la ritraevano giovane, molto più giovane di come era maman, il che non collimava col fatto che erano coetanee.
Chiedeva sempre a chi somigliavo e maman le rispondeva: «Ma a sua madre, naturalmente, è tutto sua madre!» il che, posso confermarlo, corrisponde alla verità.
Io sono molto simile a maman, eccetto che per i miei occhi chiari, che potrei aver ereditato da nonno Samuel, che pure aveva gli occhi chiari, ammesso che anche uno dei genitori di mio padre li avesse chiari, come per gli incroci dei piselli di Mendel che ci aveva spiegato il maestro Lachart. Io non so di che colore siano, o siano stati, gli occhi dei miei nonni paterni, neppure maman lo sa dato che non li ha mai incontrati, ma almeno uno dei due deve averli avuti azzurri, perché Mendel lo ha dimostrato.
Le lettere di Nina facevano sorridere maman, che me le traduceva perché erano scritte in Ceco, e poi mi diceva di conservarle.
«Ma non posso leggerle»
«Non importa, tienile tu che sei più ordinato di me» e su questo ha senz’altro ragione.
Allora le riponevo nella scatola da scarpe che tengo nell’armadio, sul ripiano basso, accanto alla cesta delle cose cecoslovacche: una bottiglia di cristallo, una vecchia armonica a bocca, un disco con inciso l’inno nazionale che non potremo ascoltare finché non compreremo il giradischi.
Dato che mi sentivo arruffato dentro per via dell’incongruenza, scendevo ogni pomeriggio alla rimessa, per fare compagnia a Napoléon, tenere occupato il mio tempo e essere libero.
Dovevo trovare qualcosa per distrarre Napoléon dal suo dolore e per questa ragione stavo ideando una navicella spaziale, simile allo Sputnik ma grande abbastanza per poter ospitare Napoléon, il giorno che l’avrei lanciato per una gita nello spazio, come aveva fatto la cagnetta Laika qualche mese prima, che però non era rientrata viva, ovvero, non era rientrata affatto, perciò doveva essere una navicella con un telecomando potente, che la richiamasse a terra dopo che le scorte di cibo e acqua si fossero esaurite.
Naturalmente per quel tempo avrei insegnato a Napoléon ad usare il radio telegrafo elettromagnetico, che può trasmettere anche in assenza di atmosfera, con una tastiera speciale che può essere attivata con la zampa e prima ancora avrei dovuto progettare e costruire un simile apparecchio.
Così Napoléon avrebbe comunicato messaggi predefiniti, tipo «Tutto bene», «È bellissimo quassù», «Voglio tornare a casa». La mia cosmonave, così equipaggiata, sarebbe stata qualcosa di meno dilettantesco di quella che avevano appena lanciato i Russi.
Cercavo in questo modo di distogliermi dalle mie preoccupazioni ma Cecilia mi tormentava:
«Ti vedo molto disorientato Samuel, hai bisogno di me. Andiamo a indagare a casa tua».
Alla fine avevo ceduto.
Cecilia si sta preparando al suo futuro di spionaggio e voleva dirigere le ricerche:
«Naturalmente Napoléon sarà della squadra» aveva esclamato raggiante.
Tutto era iniziato il giorno in cui il maestro Lachart aveva proposto, per la lezione di storia: La seconda guerra mondiale e la resistenza in Francia.
Il maestro Lachart ci aveva spiegato tutto della linea Maginot, del regime di Vichy, della Francia spaccata in due, del generale De Gaulle e dei movimenti di resistenza. Ovviamente aveva citato mio padre.
Si trattava della lezione di storia più entusiasmante, logicamente, perché quando si è figli di un vero eroe è naturale sentirsi orgogliosi, ed era così che mi sentivo, profondamente fiero delle mie origini e della mia identità.
Osservavo interessato le illustrazioni del libro: le divise dei nazisti, Hitler e Péten che si stringono la mano e la foto di mio padre, la stessa che maman tiene sul comodino, quella con la sciarpetta al collo e il cappello nero. Però, anche Cecilia se n’era accorta: c’era un’incongruenza, drammatica.
«I libri sono zeppi di errori» mi aveva detto maman, «vuoi che te ne mostri alcuni?»
Ne aveva raccolto uno a caso, dalla pila accanto al comò: Come funzionano gli apparecchi radio, l’aveva sfogliato e aveva letto solo un paio di pagine, quando mi mostrò il primo errore:
«Vedi: onde longhe invece di onde lunghe», poi «ecco, guarda ancora qui: sintonicatore anziché sintonizzatore, ne ho già trovati due, vuoi che prosegua? Ne troverò certamente degli altri».
Per il momento mi aveva convinto e avevo riferito la spiegazione a Cecilia: «Ah» aveva esclamato senza ribattere. Era parsa quasi delusa.
Tuttavia, qualche giorno più tardi, il maestro Lachart aveva ripetuto in aula la data di morte di mio padre: 1943.
Cecilia si era girata verso di me, con gli occhi ancora più grandi del solito, e si mordeva il labbro per non parlare e non farsi riprendere dal maestro. Ma i suoi occhi mi dicevano: «Hai visto, Samuel, hai visto?»
Ovviamente noi siamo della classe 1945 e, ancora più ovviamente, la gestazione nella specie umana non può superare i nove mesi.
Mi sentivo uno straccio: La Verità va sempre onorata, ripeteva in continuazione tuo padre, mi rimbalzava la voce di maman da un orecchio all’altro, e mi ero dovuto pizzicare un braccio per non piangere di fronte a tutta la classe.
Cecilia non stava più nella pelle per incominciare le ricerche. Sarebbe venuta a casa nostra tutti i pomeriggi in cerca di indizi. Ci veniva sempre comunque, ma ora avrebbe avuto un obiettivo speciale: dimostrare che non potevo essere il figlio di Jean Moulin.
«Cerchiamo tra le carte di tua madre» aveva esordito, «ci sarà pure un certificato di nascita» e si era guardata intorno, rendendosi immediatamente conto della difficoltà dell’impresa, per via della mole di libri e quaderni e riviste che invadono la nostra casa.
«Dovremmo partire dai suoi scritti. Tua madre non ha tenuto un diario della sua vita, o qualcosa del genere?»
Un diario vero e proprio no, ma c’erano naturalmente i suoi taccuini, dal numero ventisette all’ultimo, il numero sessantatre.
«E i primi ventisei?» aveva chiesto Cecilia contemplando lo scaffale occupato dai quaderni.
«Sono andati persi durante la guerra, che è come un buco nero che inghiotte tutto, anche gli appunti».
Violare gli scritti di maman mi sembrava un’azione talmente riprovevole che faticavo ad accettarla, ma Cecilia insisteva per incominciare le ricerche proprio da lì.
Un attimo dopo aveva il primo taccuino della serie, il numero ventisette, tra le mani e lo sfogliava. Sulla prima pagina era indicata la data: 14 Giugno 1945, che casualmente è anche la mia data di nascita.
Come è nata l’idea di questo libro?
Avevo desiderio di raccontare un tema che è all’intersezione tra scienza e fede, tra materia e spirito, tra l’esistenza e il nulla. Avevo desiderio di immaginare l’origine dell’Universo e la nascita del tempo e dello spazio. Ho abbracciato un personaggio che aveva la stessa curiosità, l’astrofisica Ester, e l’ho collocata negli anni, a cavallo della seconda guerra mondiale, in cui si la fisica moderna faceva le sue sconvolgenti scoperte. Il resto della storia si è costruito con i numerosi spunti che il secolo XX offre.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Questo breve romanzo è frutto di revisioni successive di una prima stesura che si è trasformata nel tempo, nelle diverse elaborazioni successive. Della storia originale non è rimasto quasi nulla, sembra incredibile anche a me. Uso spesso questa tecnica: trovandomi insoddisfatta della prima stesura, ogni volta riprendo il lavoro conservando unicamente i personaggi, con le loro specificità, cui sono più affezionata. Un maestro di disegno usava cancellare tutta la traccia a matita che avevo segnato sul foglio, se questa aveva un difetto irrecuperabile: “Non preoccuparti”, mi rassicurava mentre la gomma si portava via il disegno. Rifarlo costa in frustrazione ma il risultato premia. Funziona veramente così: riconoscere quello che non va, perché manca nelle proporzioni, nei volumi, nell’armonia, nella musicalità, nel ritmo, e togliere, cancellare, lasciar andare, anziché insistere caparbiamente con la medesima tecnica. Quanto vero sia ciò anche nella vita reale è una conferma che si ottiene con l’età. Con il coraggio di recidere, lasciar andare, togliere, la storia si definisce quasi da sé, dall’interazione di personaggi che si caratterizzano nella fantasia. Quando diventano identità strutturate sono essi stessi ad appropriarsi delle loro vite letterarie, cosicché la storia procede. Ho partecipato senza l’esito desiderato a qualche concorso per esordienti, poi ho scelto l’autopubblicazione.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Amo Romain Gary, Amos Oz, David Grossmann, Daniel Pennac.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho vissuto e vivo a Lodi, ma con radici romagnole che mi portano, spesso e volentieri, in quella regione.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Amo la letteratura, mi piace leggere e adoro scrivere. Ovviamente, desidero continuare a farlo.
Unica!!
Riconoscere quello che non va, recidere, lasciar andare per cercare l’armonia, le proporzioni, l’equilibrio….. è una grande dote.
Bravissima Paola