
Edito da Roberto Ricciardi nel 2020 • Pagine: 40 • Compra su Amazon
I vantaggi della perfetta conoscenza dell'inglese, sul piano personale e professionale, sono indiscutibili: crescita personale, opportunità di lavoro e di carriera, possibilità di inserimento in contesti internazionali, relazioni interpersonali multietniche, ampliamento dei propri orizzonti, ecc. Eppure gli italiani, secondo il rapporto English Proficiency Index 2019, sono ultimi in Europa per la conoscenza dell'inglese. Fin qui la brutta notizia. La buona è che la consapevolezza dell'importanza dell'inglese sta crescendo in Italia.
Da queste considerazioni prendono spunto le riflessioni contenute nel libro "Parliamo d'inglese. Osservazioni di un bilingue in Italia" di Roberto Ricciardi. L'autore, nato e residente a Messina, padre italiano e madre statunitense, ha alle spalle una trentennale esperienza come insegnante privato d'inglese, traduttore di lavori scientifici e interprete. Il libro analizza i metodi e le caratteristiche dell'insegnamento delle lingue straniere nel sistema educativo e scolastico per spiegare cosa non abbia funzionato, fornendo al contempo suggerimenti validi non solo per gli studenti ma anche per chi, già avanti con gli anni, desideri imparare una seconda lingua.
La didattica delle lingue straniere è stato un tema affrontato in ambiti accademici e specialistici. L'autore si rivolge, invece, direttamente agli studenti di tutte le età e alle famiglie, affinché assumano un ruolo attivo nei processi di apprendimento delle lingue straniere.L'analisi non riguarda soltanto l'insegnamento più meno o meno efficace dell'inglese nelle aule scolastiche, ma abbraccia anche l'atteggiamento dei genitori tra le pareti domestiche. La prima agenzia educativa, infatti, è la famiglia. È qui che bambini e adolescenti dovrebbero essere stimolati, non costretti, dagli adulti all'apprendimento di una lingua straniera. Più si è giovani, minori sono le barriere (anche psicologiche) per imparare una nuova lingua. Non a caso, l'autore ricorda come le abitudini familiari – i viaggi di studio, i campeggi, l'ascolto e la lettura di brani in inglese – fin da piccolo hanno sviluppato in lui la propensione per le lingue straniere; e come, una volta adulto, leggeva le fiabe in inglese al figlio per farlo addormentare. Grazie all'ascolto, intorno ai sei anni, il figlio era già capace di leggere e comprendere un testo in inglese.
Il ruolo della famiglia nei processi di apprendimento è fondamentale, anche perché spesso deve controbilanciare i limiti della scuola pubblica, l'altra agenzia educativa, che non sempre è in grado di coinvolgere e motivare gli studenti. Gli ostacoli soggettivi che uno studente incontra nella scuola pubblica sono per lo più indotti da comportamenti sociali: il peso del giudizio altrui per l'incertezza o la goffaggine della propria pronuncia, il giudizio univoco e insindacabile degli insegnanti che può condizionare e talvolta compromettere il rapporto con la materia. A ciò si aggiungono alcune pecche oggettive del sistema scolastico, come l'eccessivo peso delle regole grammaticali, l'astrattezza dell'insegnamento, il mancato uso del dizionario, l'approccio vendicativo dei professori verso gli studenti che hanno trascorso periodi di studio all'estero, per finire con la frustrazione dei docenti, categoria bistrattata e poco motivata. Queste considerazioni sono valide oggi più che mai, visto che la didattica a distanza ha amplificato limiti e problemi del tradizionale approccio all'insegnamento scolastico.
Eppure, afferma l'autore, i mezzi per apprendere una lingua straniera o per migliorarne la conoscenza, anche autonomamente, non mancano. Ricciardi li passa in rassegna, evidenziando di ognuno i punti di forza e le criticità. In generale, pur nelle diversità che contraddistinguono gli individui, i sistemi più efficaci sono quelli dove il tasso di stress da apprendimento è molto basso, come l'ascolto intensivo (film, audiolibri, dialoghi), mentre elevata è la componente ludica o la vicinanza dei contenuti ai propri interessi personali e professionali (App, giochi, simulazioni). Le full-immersion all'estero sono uno dei metodi più efficaci, anche se in tempi di Covid i viaggi sono preclusi.
Nonostante l'ultima posizione a livello europeo, la consapevolezza dell'importanza dell'inglese è in aumento. Le riflessioni di Ricciardi, pertanto, intendono alimentare un dibattito sui nuovi sistemi pedagogici e sull'importanza di inserire l'apprendimento delle lingue straniere tra le capacità necessarie fin dai primissimi anni di vita.

Lo ammetto. Considero il bilinguismo una sorta di privilegio. Come tante altre persone, ho i genitori di diversa nazionalità (nel mio caso, padre italiano, madre statunitense).
Mia madre parlava a me e ai miei fratelli in inglese, anche se d’abitudine rispondevamo in italiano. Improvvisamente, all’età di otto anni la mia conoscenza passiva si è attivata, stimolata da una serie di corsi di inglese prodotti dalla BBC e trasmessi in RAI all’inizio degli anni ’70. Navigando in internet, ho visto che c’è qualche nostalgico che se ne ricorda (vedi anni70-latvdeiragazzi.over-blog.it). Si trattava di una serie di brevi telefilm in inglese, con delle pause nelle quali venivano illustrati aspetti lessicali e grammaticali contenuti nei dialoghi.
Le trasmissioni iniziavano attorno alle 15:00, una fascia oraria ancora non sfruttata (per conoscenza dei più giovani, normalmente le trasmissioni dei due unici canali esistenti, il “primo” e il “secondo”, iniziavano alle 17:30 circa, per terminare attorno alle 23:30). Ricordo che quando ne parlavo ai miei compagni di classe alle elementari, mi guardavano come se fossi un alieno. Tentavo di coinvolgere qualcuno, ma invano. La cosa non interessava a nessuno.
Andavamo in viaggio ogni anno coi miei genitori, i quali, ispirati da una simpatica commedia americana, diretta da Vincent Minnelli nel 1954, intitolata “12 metri d’amore” (The Long, Long Trailer), nel 1968 acquistarono una roulotte, con la quale, oltre a diverse regioni d’Italia, visitammo molti paesi dell’Europa occidentale, tra cui Svizzera, Francia, Austria, Germania, Olanda e Gran Bretagna. In quest’ultima ci andammo nel 1972. Fu un’esperienza bellissima, indimenticabile.
L’idea di campeggio era molto più spartana di oggi, e i campeggi in Inghilterra e Scozia erano quintessenziali in tal senso (senza elettricità o acqua calda, per intenderci). Ma a quell’età – io avevo nove anni, i miei erano poco più che trentenni – tutto ci sembrava meraviglioso, compreso il cibo (magari, in altra occasione, potrò sfatare alcuni miti negativi al riguardo).
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