
Edito da Luoghinteriori nel 2021 • Pagine: 238 • Compra su Amazon
Il fenomeno del femminicidio affligge l’Italia, così come molti altri paesi nel mondo, andando a ostacolare in maniera subdola e persistente l’obiettivo del raggiungimento di un’effettiva parità tra donne e uomini. Il saggio "Parole e pregiudizi" offre un contributo riguardo a questo spinoso problema sociale, partendo dal presupposto che per sradicarlo bisogna partire dalle sue radici culturali, ossia dalla disparità di potere tra donne e uomini socialmente e culturalmente costruita nel corso del tempo. “Parole e pregiudizi” analizza il linguaggio che i quotidiani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i casi di femminicidio, al fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge sia coerente o no con gli obiettivi di prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione.
Problema cruciale del femminicidio è, infatti, che la retorica dell’emergenza si rifiuti ancora di considerarlo un fenomeno strutturale socio-culturale, e non solo una delle tante forme di devianza criminale. Solo se tutte/i daremo un contributo al progresso della società in cui viviamo, le nostre bambine e i nostri bambini potranno avere un futuro migliore e libero da pregiudizi. Il primo passo è raccontare la realtà con le parole giuste.
Il libro è introdotto da una prefazione della professoressa Saveria Capecchi.

La lingua e le parole sono uno strumento di potere. E chi utilizza la lingua e le parole per mestiere ha un potere enorme, perché costruendo ogni frase orienta l’interpretazione di chi legge decidendo di rappresentare in un certo modo la realtà sociale. Ogni parola che si sceglie di utilizzare porta con sé il bagaglio culturale che chi parla o scrive ha su quel tema, ma anche gli stereotipi e i pregiudizi sociali e culturali con cui tutti e tutte siamo cresciuti. I giornali hanno quindi una responsabilità quotidiana nella narrazione di un grave fenomeno sociale quale è la violenza maschile contro le donne, che, radicando la propria origine nella cultura, ancora di più si scontra con quei pregiudizi e quegli stereotipi che è indispensabile combattere per eliminarla.
Dire qualcosa in un certo modo significa pensare quel qualcosa in un certo modo; e significa condizionare anche chi legge a pensarlo in quel modo. Il modo in cui si racconta la violenza maschile contro le donne non è mai neutro, e pensare che il/la giornalista di cronaca si limiti a riportare fatti in modo puramente oggettivo è irreale: è inevitabile che il linguaggio di chi scrive rispecchi sempre la sua cultura e le sue idee su quel particolare argomento o contesto. Ognuno guarda alla realtà con i propri occhi.
Partendo dal presupposto che la violenza di genere sia un problema culturale, che quindi deve trovare la propria soluzione nella cultura e non solo nella legge, questo saggio si propone di analizzare il linguaggio che i quotidiani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i casi di femminicidio, al fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge è coerente o no con gli obiettivi di prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione imposti in primo luogo dalla Convenzione di Istanbul. La prevenzione della violenza parte infatti proprio dalla cultura, dall’esigenza di un profondo rinnovamento culturale che renda effettiva la pari dignità delle donne all’interno della società. E quindi l’uso corretto e consapevole della lingua, delle parole, è uno dei primi indispensabili passi per costruire una società nuova, più libera e rispettosa di tutte le sue componenti.

Come è nata l’idea di questo libro?
Da alcuni anni studio e scrivo di violenza di genere, di violenza maschile contro le donne. Dopo aver pubblicato un saggio “Se questo è amore” che analizza i vari aspetti di questo tragico e pervasivo problema sociale, e un romanzo “Troppo giusto quindi sbagliato”, che con lo strumento della narrativa racconta quanto sia difficile per una donna maltrattata denunciare quanto le accade ed affrontare il sistema della giustizia, ora con “Parole e pregiudizi” ho voluto riflettere su un aspetto particolare del problema: il modo in cui viene raccontato. Perché è proprio attraverso le parole con cui viene raccontato che noi ci rappresentiamo ed interpretiamo un fenomeno, un evento; e quindi i giornalisti e le giornaliste hanno un’enorme responsabilità nel determinare la percezione sociale dei femminicidi. L’obiettivo e la speranza di chi come me riflette sul potere delle parole è che i mass media comprendano l’importanza dell’utilizzo di un linguaggio corretto e assumano l’impegno di dare il proprio contributo al progresso della società in cui viviamo, e in cui soprattutto crescono le nostre bambine e i nostri bambini. Loro hanno diritto di avere un futuro migliore e libero da pregiudizi.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Scrivere questo libro ha comportato un lavoro di analisi durato un anno sugli articoli pubblicati dai più diffusi quotidiani italiani riguardo ad un totale di 26 femminicidi. L’analisi si è concentrata sulle parole-chiave utilizzate e sul senso complessivo delle narrazioni. E’ stato un lavoro impegnativo, quindi, ma che spero costituisca un nuovo tassello nell’insieme dei tanti lavori di studiose in questo particolare settore.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Maria Dell’Anno ha vissuto a Milano, Roma, Ferrara e ancora non ha finito di traslocare. Tuttavia adora Torino, città dove ambienta i suoi romanzi.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il mio progetto per il futuro è continuare a scrivere; per me scrivere è vivere. Ho ancora tante altre storie da raccontare e tanti aspetti del nostro strano mondo su cui riflettere. Forse non mi basterà la vita per scrivere tutto ciò che voglio scrivere, ma passerò la vita a provarci.
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