
Edito da Bookabook Milano nel 23 maggio 2021 • Pagine: 269 • Compra su Amazon
L’ispettore della sezione omicidi della polizia di Bucarest, Razvan Ursuleanu, viene incaricato di ritrovare un uomo scomparso, un barbone come ce ne sono tanti in Romania. E’ un incarico anomalo, che il suo capo gli trasmette con profondo disprezzo. L’uomo scomparso verrà ritrovato morto e l’incarico assumerà un senso per l'ispettore. Nel passato della vittima Razvan scopre parte del passato inquietante della nazione.
La storia di una famiglia, separata dagli eventi, si intreccia alla Storia dell’epoca della dittatura e dei tanti residui che ancora pervadono la democrazia. Accanto all’ispettore appare anche una donna elegante, funzionario del Ministero degli Interni e un professore di Storia dal passato ingombrante e dal presente misterioso.
Sullo sfondo la Bucarest di oggi: moderna e fatiscente, che corre veloce verso il futuro senza rimuovere “le scorie” dal passato.

Scomparso
Razvan e Razvan
Su un punto il suo capo aveva ragione: amava Bucarest.
Amava girare a vuoto per le strade di questa città, annusare gli odori che salivano dai cortili abbandonati, sentire le voci stridule delle donne zigane e le grida roche degli uomini che parevano sempre ubriachi.
Amava le ombre perché di colori ne vedeva ben pochi.
Invece non gli piaceva la centrale di polizia, non sopportava i colleghi, se doveva scrivere un verbale preferiva dettarlo al telefono ad Adina. Da molto tempo non aveva più un ufficio, l’aveva lasciato ad Adina e lei lo custodiva nella speranza che lui tornasse più spesso possibile.
Razvan appariva in centrale solo quando il capo lo obbligava.
Tutto quel mondo lì gli ricordava l’apparato. Certo, era anche il suo passato; un passato che non era servito a nulla.
Il passato non è altro che il presente andato a male. Solo che il cibo si può buttare mentre la propria vita non va in discarica. Ti resta addosso puzzolente. Questo era il suo pensiero.
Un uomo non sceglie l’epoca in cui vivere e se avesse potuto scegliere Razvan non avrebbe saputo decidersi. Non era così ingenuo da pensare che l’umanità fosse mai stata migliore.
Ogni giorno che trascorreva al mondo si rafforzava in lui la convinzione di essere nel posto sbagliato e nel momento peggiore, tuttavia l’unica alternativa possibile era il non esistere.
Sì, non esistere doveva essere proprio una buona condizione. In molti momenti aveva la forte sensazione di essere completamente assente al mondo, di guardarlo da un angolo buio, non da sopra, piuttosto da sotto.
Diversamente, la città gli piaceva perché era concreta, fatta di volumi di pietra scolpiti in stili diversi che rimandavano ad un passato, a persone che hanno sofferto e combattuto forse. Mentre le trasformazioni moderne lo infastidivano con tutti quei palazzi di vetro. Il vetro era sinonimo di inganno: finta trasparenza.
E le persone?
Razvan pensava poco a se stesso e molto agli altri, come se sentisse la responsabilità dell’umanità intera. Le persone erano un’altra faccenda. Nella città gli sembravano un po’ più vere, o forse era solo una sua speranza.
“Non è cambiato niente.”
Gli stava dicendo un insegnante di italiano che aveva il suo stesso nome.
“L’ideologia non significa più nulla, liberali… psd…o partito del popolo…prima si arricchivano dentro l’apparato con l’arroganza di chi sa di aproffittare della posizione di potere, con la democrazia invece rubano con la convinzione di essere nel giusto per volere del popolo.”
L’ispettore Razvan Ursuleanu taceva, ascoltava scettico, non tanto perché il suo omonimo non avesse ragione, quanto perché quell’uomo non lo convinceva. C’era qualcosa in lui che riconosceva come una tara del suo popolo, una delle tante e lui le conosceva bene.
“Mio nonno…”
L’insegnante fece una lunga pausa prima di continuare, come se non riuscisse a trovare un verbo adeguato ad esprimere quel che voleva attribuire a suo nonno, che essendo vissuto sotto il regime, o lo aveva subito oppure l’aveva appoggiato, di opposizione ce n’era stata poca, molto poca.
“Mio nonno dice che almeno a quel tempo avevamo un forte senso dello Stato, oggi invece lo Stato è solo un magazzino da saccheggiare.”
Il suo amico sorseggiò la birra. Non era proprio un amico. Razvan non aveva amici, perché non aveva mai avuto tempo per gli amici. Lo aveva incontrato qualche giorno prima all’ospedale di oftalmologia. L’altro non aveva problemi agli occhi, aspettava sua madre che stava facendo una visita, mentre lui doveva fare il solito controllo, il medico gli aveva confermato la sua evidente cecità.
“Rubano, questo lo sanno fare bene, quel che è più shoccante è che si sentono quasi giustificati per il fatto stesso di essere uomini di potere e il popolo si potrebbe dire li giustifica per lo stesso motivo.”
Si erano rivisti alla sera per bere una birra in un bistrot vicino piazza Romana. Era stato il prof a proporre di rivedersi e Razvan aveva detto di sì, convinto. Non l’aveva mai fatto. Forse gli piaceva il fatto che parlava sempre l’altro e lui doveva solo ascoltare.
Aveva grandi occhi scuri che pendevano agli angoli, begli occhi, Razvan glieli invidiava. Un viso largo, mento squadrato e sguardo bonario, eppure lui continuava a percepire una tara. Finalmente quando il prof smise di parlare e con un lieve sorriso di compiacenza bevve un altro sorso di birra guardando Razvan senza tuttavia dare l’impressione che attendesse la sua opinione sulla questione, l’ispettore capì di cosa si trattasse.
Durante il discorso continuava a rimuginare sulle informazioni che con orgoglio il prof aveva dato di sé. Aveva più di 50 anni e doveva ancora terminare la tesi di dottorato, aveva lavorato per 10 anni su una tesi, poi per un diverbio con la professoressa relatrice l’aveva abbandonata, ne aveva iniziata un’altra e gli anni passavano e da sette stava ancora studiando per finire la nuova tesi. Nel frattempo aveva insegnato, ora faceva il segretario perché non c’erano tanti studenti di italiano.
Abitava con i suoi genitori e suo nonno, un reduce del comunismo. Un quadro personale di cui sembrava orgoglioso come se fosse un ragazzo di 25 massimo 30 anni.
L’immaturità cronica! Rifletteva Razvan.
“Non c’è speranza!” Concluse il prof.
I due Razvan si salutarono senza che nessuno proponesse di rivedersi, come se quel che era stato detto fosse tutto, non c’era nulla da aggiungere per quella serata né per altri momenti.
Seguendo l’ombra del grosso amico che si allontanava, faceva sempre così dopo aver incontrato una persona, rimaneva fermo e con la sua debole vista cercava di cogliere il ritmo della siluette che se ne andava, come se dal movimento della schiena e dall’andatura potesse ricavare qualche informazione, Razvan pensava che non era d’accordo, che l’altro Razvan aveva ragione sui politici ma non sul fatto che non ci fosse speranza, perché era un modo come un altro per togliersi dalle responsabilità: un’altra tara.
Un ispettore di polizia è comunque un servitore dello Stato. Non poteva permettersi di avere un’opinione drastica sul sistema.
In ogni caso Razvan preferiva evitare la centrale di polizia. Quello era sicuramente un luogo senza speranza.

Come è nata l’idea di questo libro?
Dalla scoperta della tragedia di Pitesti nel 1949/52 in Romania.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Abbastanza perché volevo attualizzare quella vicenda immaginando che potesse ripetersi in un tempo recente.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Da Simenon a Potok, da Isaak Bashevis Singer a Balzac e molti altri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Polverara in provincia di Padova e per 9 anni ho lavorato a Bucarest, Romania.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Passaggio della Vittoria è il secondo romanzo dedicato all’Ispettore Razvan (il primo è stato “A Bucarest non c’è niente da vedere” Ed. Ex Cogita 2017) e soprattutto a raccontare la complessità del presente e del passato romeno. Un terzo libro è già pronto e altri sono in cantiere.
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