
Edito da Carlo Nobili nel 2019 • Pagine: 178 • Compra su Amazon
Patrimonio di culture, Roma, città polifonica ha incominciato a esserlo a partire dalla periferia e questo è successo ben prima che il fenomeno della dimensione multietnica di questa città si presentasse così come oggi lo conosciamo. Tutti a Roma sono arrivati come stranieri e tutti sono stati accolti come romani. È la vocazione di questa città, devota e superstiziosa, ingenua e maliziosa, accomodante e cinica, compagnona e diffidente, provinciale eppure "Caput Mundi". Roma tutto assorbe e armonizza e nel farlo fa sentimento di ogni sua bellezza. Peccatrice più che orante, ruffiana e un po’ bastarda, santa e puttana ma mai matrigra, elegge la dolcezza della vita senza pensare alle fiamme dell’Inferno: “Romana è quanta gente abbita er mónno”, dicevano gli antichi Imperatori e “Romano è ogni cristiano” dicevano i Papi. A Roma, in centro così come in periferia, sui colli storici così come in borgata, giri un angolo e ti ritrovi all’improvviso su un altro palcoscenico, cambiano le scene e i protagonisti, cambia l’architettura e cambiano i modi di parlare, ogni angolo diventa paese perché Roma, di fatto è questo, un insieme di tanti piccoli paesi: un paese più un paese e poi un altro paese e un altro ancora e così all’infinito. Nei racconti qui presentati vi sono le storie ordinarie di gente umile, storie che perlopiù passano inosservate ma che ad occhi attenti si rivelano fonte di una filosofia particolare, fatta pure dall’indolenza dei suoi personaggi, dalla loro apatia, dal carattere sgradevolmente sincero e dal sarcastico e strafottente fatalismo tipico del romano. A parte la prima storia "testaccina, questa raccolta di 18 racconti – disposti su di una ipotetica linea storico-cronologica – ruota tutta intorno alla periferia romana, Centocelle, Torpignattara, Casalbertone, e ai suoi straordinari protagonisti di ieri e di oggi.

Je piaceva giocà, e giocava a tutto, a carte, a biliardo, ai cavalli e scommetteva su ogni cosa. Quela vòrta je aveva detto bbene, ma tanto, eh! Due passioni ciavéva er sor Ansermo, tutt’e due pericolose: er gioco e le donne. E se sa come va a finì quanno de mezzo ce stanno ‘sti du’ vizzi, quasi sempre co’ le zampe pe’ aria. E lui nun fece eccezzione. Le donne – se diceva che ce n’aveva tante, che era ‘n gastigatóre – je magnòrno quasi tutto. Er gastigatóre era rimasto gastigàto. Quer poco che je arimàse, puro li pochi spicci che aveva messo da parte pe’ la famija, lo perdette ar gioco. Se dice che li quatrìni sò come la rena, ‘na soffiàta e vóleno, e tanto più succede co’ queli che t’arìveno cor finfirinfì. Queli se ne vanno cor fanfarafà. Se riducétte ar verde, perdétte tutto, quatrìni, palazzi, villone a S. Giovanni, landò, brillòcco e puro er bastone ‘nsieme a le giumente. ‘Nsomma, fece ‘a fine che dice er proverbio “Conte senza quatrìni e senza palazzo è ‘n conte der cazzo”. Lui penzava d’esse superiore a tutti ma de sicuro era er più fregnaccióne. Voleva fà er milòrdo ma nun apparteneva a nisuna milorderìa, né la bazzicàva. Er sonetto 26 der Belli paréva scritto paro paro pe’ lui: “… hai perzo er trono, e tt’è arimàsto? ‘N ìcchese”. Er sor Ansermo, bonànima, era tutto fumo e gnènte aròsto!

Come è nata l’idea di questo libro?
Dall’amore che l’autore prova per le proprie radici romane.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La scrittura è un atto di fantasia e memoria, un miscuglio affascinante e divertente. Nessuna difficoltà se non, come per ogni libro, la correzione delle bozze.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Roma da sempre.
Dal punto di vista letterario, quali sono i vostri progetti per il futuro?
Una novella su uno spaccato particolare di Roma.
Lascia un commento