
Edito da Luca Zaffini nel 2020 • Pagine: 450 • Compra su Amazon
Il nostro mondo forse è già stato distrutto nel 1962 e nel 2000, ma non ce ne siamo mai resi conto. Fino ad ora. L’ispettore Ettore Zema, specialista della Divisione Centrale Anticrimine, torna nella odiata città del nord Italia in cui ha vissuto, richiesto dalla questura per risolvere l’orrendo omicidio di una studentessa universitaria. Ben presto dovrà fare i conti con un passato dimenticato e con un presente ostile. Ma è il futuro ciò che lo angoscia. Quando gli autori dell’omicidio proclamano la fine del mondo, Ettore capisce che non è uno scherzo: è un gioco, con regole impossibili da seguire in una partita impossibile da vincere.

1
PANNOCCHIE SUL FIUME
FIDANZATA TAKE-AWAY E CLOWN INFUOCATO
1962: LA CHIAMATA
DIO È HOMER SIMPSON
MORTE ALL’OPERA TRA RAGGI LASER
– Con quella pannocchia ha seviziato la ragazza, e poi se l’è mangiata.
– La pannocchia?
– No.
Ettore Zema si sposta, liberando la visuale della sponda del fiume in autunno. Rami contorti minacciano un capanno di lamiera. Vi si avvicina, nel giubbotto di pelle macchiato dalle nubi plumbee e dalla vischiosa foschia che sale dalla melma. Il cielo color grafite crea un dipinto impressionista mescolandosi col sottobosco fangoso infestato da ortiche. Le foglie morte sono sangue sulla tela di un artista pazzo.
Ettore, entrando, sfiora Benvenuto Poliseno. Questi, il Sovrintendente del Gabinetto provinciale di Polizia Scientifica, è solo una macchia pallida che sbuca da un goffo cappotto canna di fucile. Ha impercettibili baffi canuti in mezzo a guance butterate da malevola acne giovanile. È lui che gli ha fornito i dettagli sulla pannocchia e sulla ragazza.
Presso l’impianto di sollevamento acque, custodito solo da sterpaglie, due tute della Polizia Scientifica vagano come bianchi fuochi fatui tra la vegetazione. Guardano verso il capanno, e fanno qualche cenno a Benvenuto. Uno dei due agenti regge in mano un oggetto come fosse una lanterna. È la pannocchia. Guanti di lattice la stringono, evanescenti idre gommose cosparse di sangue rosa, contenenti l’acido sudore dell’agente.
Ettore osserva la stamberga. Il tardo pomeriggio autunnale non riesce a illuminare l’interno delle pareti ondulate, fredde lastre rosse di ruggine e vernice scrostata. Se il fetore potesse assumere un colore sarebbe il grigio della carne avariata in un frigo ingiallito dall’età e dalla sporcizia. Il fiume scorre a pochi metri, silenzioso e letale come un boa nero. Un lampo divora l’opacità dell’aria, rendendo tutto azzurro e asettico. Le cellule fotovoltaiche feriscono Ettore con una fitta dietro gli occhi, ma ora gli consentono di vedere chiaramente.
Una smorfia increspa le labbra secche di un poliziotto a fianco di Ettore e Benvenuto. Ettore si sente la mano destra tremante, gelida e sudata. È bianca come la pancia di un pesce. La porta a coprirsi gli occhi.
C’è un tavolo di metallo, rigato e bozzato, tipo quelli per autopsia, con fori per far scolare i liquidi. Un amico di Ettore, veterinario, ne ha uno simile, con una bilancia incorporata. Il suo cane pesava 15 chili, più della manciata d’ossa composte sul tavolo. Marrone. Un osso anulare. Il resto dello scheletro scarnificato di ragazza è dormiente sul ripiano metallico. La testa è l’unica cosa perfettamente conservata. I residui di tessuti attaccati alle ossa hanno iniziato ad annerirsi e a emettere un tanfo dolciastro.
Il poliziotto dalle labbra sottili spara una battuta. – Causa di morte anoressia.
Ettore ringhia senza voltarsi.
Quando si avvicina, una nuvola nera si solleva dal corpo, volteggia nel capanno con un ronzio e torna a posarsi sullo scheletro. Mosche che posano le loro larve nelle giunture delle ossa, alla ricerca dell’ultimo calore della vita. Ettore sente un forte prurito sulla guancia, come ruvide e velocissime zampette che gli si arrampicano verso l’occhio.
Lo scheletro ha le braccia incrociate sul bacino. All’altezza del collo comincia la testa della bionda: dove le è stata tagliata la gola la pelle è sfrangiata in tanti piccoli lembi bianchi di cellule morte e asciutte, e dal grumo marrone che è il collo spuntano cose che si spandono come lacci di scarpe bagnati.
Il volto è serafico. I capelli ricci e vaporosi, secondo Ettore, potrebbero addirittura ancora profumare di shampoo. La ragazza è struccata e le lentiggini le punteggiano il naso sottile e le labbra esangui. Ettore si volta verso il Sovrintendente della Scientifica, e vede riflesso in una spilla il proprio sguardo ceruleo e vacuo.
– Benve, come avrà fatto a conservarle la testa in queste condizioni da bambola?
Benvenuto Poliseno fa spallucce. – Sempre più spesso si verificano questi casi. Aprono tombe trentennali, e scoprono corpi intatti. Troppi antibiotici.
– Questa è stata ammazzata da poco – sottolinea Ettore evitando di guardare il corpo.
In lontananza, vicino ai generatori delle cellule fotoelettriche, Ettore nota un agente della Scientifica che deposita la pannocchia lucida in una busta di carta marrone per le prove. Ettore cerca di evitare di pensare a bancarelle di carnevale. Zucchero filato. Pannocchie arrosto. Carne al sangue.
– Alla Direzione Centrale Anticrimine dovresti esserti abituato a queste cose. L’assassino è straniero, pare.
– Adesso sai i giornali che casino. Dagli all’extracomunitario. Comunque, alla DAC io non bazzico quei Nerd della scientifica. Noi del Servizio Centrale Operativo si lavora di intuito e logica, non di microscopio.
– Nerd loro? E tu che collezioni giocattoli?
– Roba vintage. Vale molto.
– Sempre giocattoli sono. Nerd.
Dopo quello scambio Ettore trova la forza di analizzare il volto della vittima. Ha gli occhi chiusi, ma Ettore tira a indovinare, visualizzando iridi come acque caraibiche. Scommette che la povera ragazza ha occhi color acquamarina. Non osa toccarla per verificare questa curiosità senza senso.
– Poveraccia – sussurra Ettore che in quel momento è solo una montagna di carne che sta perdendo sensibilità alle mani a causa della nausea, sperando che non sia qualcosa di peggio. L’età avanza, e se fuori è muscoloso e asciutto, dentro chissà. – Come si chiamava?
– Non lo sappiamo ancora. Niente documenti – dice Benvenuto.
– Borsetta?
– Solo quelle trovate qui intorno, vecchie e sdrucite, residui di scippi. Vuote. Le abbiamo controllate, nessuna sembra appartenerle. Stiamo continuando a cercare.
Un altro agente, in borghese, si avvicina a Ettore e gli passa un foglietto. Dopo pochi secondi, Ettore se lo infila nella tasca del giubbotto di pelle.
– Benvenuto, andiamo a prendere il bastardo. L’hanno già trovato.
– Ehi, i miei ragazzi mi scavalcano? Ci san fare, eh? Dove li trovi altri così veloci?
– Al Servizio Polizia Scientifica del Polo Tuscolano di Roma, dove non ti hanno voluto.
– Ma va, stronzo – ghigna Benve.
Uscendo dal capanno, Ettore si china in un repentino conato. Curiosamente, è l’aria fresca a fargli male. Ora il fiume non sembra più tacere. Poco più a valle c’è un enorme depuratore del secolo scorso, e il suo muggito smorza un po’ le sue acide e roche parole, rivolte all’agente in borghese.
– Telefona al PM. Avrà un arresto da convalidare.
Si volta di nuovo verso il capanno, per imprimersi la scena nella mente e capire se c’è qualche dettaglio che prima non ha notato.
In quell’istante le labbra grigie della ragazza si spalancano, rivelando denti perfetti. Un filamento di saliva collega la lingua nera al palato.
La ragazza apre gli occhi e urla.
Il colore delle iridi è davvero acquamarina.
Le pupille sono quelle di un serpente.
Il sole, nascosto quando erano al fiume, è innaturalmente alto per quell’ora tarda e quella stagione. Si stira tra le sbarre di metallo alle finestre della questura. La ruggine emersa sui muri dell’atrio li rende troppo purpurei. Ettore e Benvenuto camminano dietro colonne annerite e porte in legno e vetro smerigliato, anacronistiche sotto neon gelidi.
Ettore, tossendo, spezza il silenzio che dura dalla processione di auto dal fiume alla questura. Mentre lui e Benvenuto stavano facendo il sopralluogo sulla scena del delitto, due volanti sono andate a prendere il reo. Niente di più facile.
– Uno studente di fisica? Un thailandese? – Dice Ettore – questa poi…
– Così come la ragazza – sottolinea Benvenuto, grattandosi la guancia increspata e umida. – L’hanno identificata, infine.
– Non mi sembrava thai.
A questa cazzata di Ettore, Benvenuto si ferma. – Studentessa di fisica, intendevo. Ilenia Alati. Identificata lei, alla prima perquisizione è scappato fuori il legame con il thai. Era la sua ragazza, dalle prime dichiarazioni rilasciate a Gennari. A volte mi meraviglio che ti abbiano preso in considerazione, a Roma.
– Vabbè, ancora non ti è andata giù che me la sono svignata, eh, brasciòle?
– Brasciòle? E che vuol dire?
– Ciccio.
– Non mi piace. E potevi almeno mettere una buona parola per me. Sono sempre qui, alla Scientifica in ‘sta questura di merda. Volevo venirci anch’io a Roma, al Polo Tuscolano. Caspita, avete decine di laboratori fighissimi.
– Guarda che prima scherzavo, sul fatto che non ti hanno voluto – dice Ettore.
– See – ribadisce Benve.
– www.interno.it
– Che è? – Chiede Benvenuto irritato.
– Manda un’e-mail al Ministero dell’Interno e chiedi perché non ti hanno accettato alla DAC. Lo sai come sono fatto. Chiedere un favore? Piuttosto mi infilo un istrice nelle mutande. Dai, Benve, dì la verità, qui stai bene.
– Se lo dici tu. La nebbia di questa schifo di città mi ha rovinato la faccia. Vabbè, pensiamo alla ragazza, va’.
– Già. Questione passionale? – Chiede Ettore. – Lo voleva lasciare? Era incinta? Tutte queste domande, e tutte le altre che ci verranno in mente, devono trovare una risposta. Magari il fatto che l’Alati fosse la sua ragazza, lui se l’immaginava soltanto. Magari è solo l’ultima di tante. Magari ne mangia una ogni giovedì.
Benvenuto sembra esitare prima di parlare. – Sei ancora convinto di averla vista urlare?
– Convinto è un parolone. Mi è sembrato. Mi ha guardato e gli occhi avevano le pupille di sbieco, come un serpente. E ha urlato.
L’immagine è ciclica dietro agli occhi di Ettore, ricordandogli una visita in un Museo quand’era un ragazzino. C’era un macchinario strambo. Un enorme occhio di plastica. Un pulsante da premere, un flash che imprimeva l’immagine di un clown sulla retina. La faccia infuocata del pagliaccio maledetto, poi, si proiettava verdastra e pulsante su ogni superficie, così quel maledetto clown non ti abbandonava per ore. Era tatuato nella tua retina e ti osservava, e condizionava la realtà che vedevi.
– Tra tutto, non capisco l’uso della pannocchia – dice Ettore.
– Bah – dice Benvenuto, telegrafando col tasto dell’ascensore, – ne abbiamo viste di cose fuori di testa alla Scientifica. L’avranno comprata in centro per mangiarsela, poi a lui sarà venuto in mente di usarla. Forse lei era consenziente, all’inizio. Niente di eccezionale. O forse lui ha letto troppo Faulkner.
Ettore si strofina la testa rasata per sentire se c’è una ricrescita brizzolata da sterminare quanto prima. – La pannocchia mi fa venire in mente un accostamento strano. Mi immagino qualche totem di pietra immerso nella giungla, con montagne di frutta deposta da selvaggi in paranoia per l’ira degli Dei.
– Ancora le tue visioni, o ci stai pensando razionalmente? – Benvenuto entra nell’ascensore, increspando il naso alla puzza di fumo stantio e caffè caramellato che pervade la cabina. – No, perché se è il caso ti ricordo che è in vigore la Basaglia da un bel pezzo, quindi vai tranquillo e ammettilo.
– Va a cagare – sghignazza Ettore, seguendolo nell’ascensore. Percepisce la fredda umidità del cappotto di Benvenuto. – Penso a un omicidio rituale, e già mi vengono i brividi. Perché il thai ha risparmiato la testa dell’Alati? La cosa deve avere qualche significato.
– Forse era sazio – dice Benvenuto.
– O forse nella testa c’è poca ciccia. O non aveva strumenti per spaccare il cranio e mangiare il cervello. Bah. Per quello basta una pietra qualsiasi.
– E poi dici a noi della Scientifica che sguazziamo tra dettagli e frattagli? I segni dei morsi sulle ossa parlano chiaro. Tutto il sangue e i resti di Ilenia Alati sono in quel capanno. Niente gocce fuori, o almeno così sembra dai primi rilevamenti. Niente di lei è uscito da lì, se non nella pancia del thai.
– Magari in borse? – Dice Ettore. – Forse se l’è messa in frigo.
– Non credo. Questo casino sarebbe stato molto meno assurdo, se così fosse. Quel tizio, Khaoprang… l’agente scelto Gennari dice che non ha ancora confessato. Ha parlato di qualcosa. Ma in verità non si capisce bene cosa voglia dire.
– Dà i numeri, insomma – sibila Ettore. – Se pensa di scamparla facendo il matto…
Mentre attraversano tutta l’ala vecchia della questura, Ettore non vede altro che teste anonime. Ha la visione sfocata, e per quanto strizzi le palpebre non riesce a tagliare il velo che si è deposto. La testa è tutto ciò che resta di quella ragazza, una sfera rosa, pensa. Solo lo scheletro. Ha urlato. Gli era già capitato, da bambino, di vedere cose strane.
– Andrà in camera ardente con la bara chiusa – dice Ettore, più a se stesso che a Benvenuto. – La capocchia di un fiammifero d’ossa.
Il Sovrintendente della Scientifica finge di non aver sentito, e abbatte i pensieri in volo pindarico di Ettore. Si sa: Benvenuto Poliseno non è tipo da brodo caldo per l’anima e roba simile. – Ettore, ti saprò dire quando avrò il resoconto dell’autopsia, un lavoretto facile per l’anatomopatologo, visto il poco che resta. A parte lo stomaco del thai. Se siamo fortunati, il bastardo non l’ha ancora espulsa.
– Cristo di un dio – fa Ettore, – sto per vomitare. Dal nervoso più che altro. Smettila. Raccomandati con il medico. Deve fare particolare attenzione alle pupille della ragazza. Annoti se c’è qualcosa di strano, una malformazione dell’iride, diversa colorazione. Qualsiasi cosa. Poveretta, non riesco a capacitarmi di come si possa rendere tale spregio a un essere umano. A una ragazza così eterea, delicata.
– Mah, magari oltre a studentessa era pure una battona, occhi-di-serpente – dice Benvenuto.
– A volte sei proprio stronzo.
Ettore rimugina che sicuramente deve essersi immaginato l’urlo. La stanchezza, il fetore, il disgusto. Lo stress del ritorno in quella tetra città. Quegli ingredienti devono avergli causato uno sbalzo di pressione, qualcosa di simile. Un’allucinazione.
– ‘Sto thai è un maniaco di prima lega, Benvenuto. Fidati. Mo’ lo torchio, e lo schiaffo in gabbia a vita, e se qualche psicologo tenta di dargli l’incapacità di intendere, lo fotto pure a lui. Proprio mi viene voglia di prenderlo a cazzotti.
– Occhio, se fa muay thai ti rovina – dice Benvenuto.
– Non credo proprio. Sono troppo grosso.
– Boxe thailandese. Quelli menano come fabbri, l’ho visto in TV.
– Una volta si limitavano a trasmettere della sana boxe – protesta Ettore.
Di fronte ai due, la porta della sala dove si svolgerà l’interrogatorio ha la targhetta blu raffigurante un omino bianco stilizzato che è storta in orizzontale.
In tal modo, l’omino sembra morto stecchito.
I campi di grano sono rossi. Il cielo verde, gli alberi viola.
La palla di fuoco sorge silenziosa dall’orizzonte, ribollendo incandescente. I campi di grano aspettano immobili la fine, quando saranno abbracciati dal fiato letale del mostro vorace. Il ruggito arriva dopo qualche secondo. Le spighe, consce che saranno per sempre cenere e che nessuno le mieterà più, si scatenano ebbre in una danza sguaiata per poi fermarsi imbarazzate, nere e sottili ciglia dell’occhio di fuoco che si spalanca.
Ettore si vede fuggire nel campo, tra steli rigogliosi il cui fruscio ricorda quello di un fiammifero che s’incendia. Piomba in una zona proprio al centro del podere, un ampio cerchio. Si ferma, ansimante nell’afa di giugno. La palla di fuoco è sparita. S’odono solo le cicale e il suo fiatone, ed Ettore immagina sia quello a far muovere le spighe, poiché curiosamente vanno a tempo con i suoi respiri. Prova a trattenere il fiato. Le spighe si bloccano.
I suoi capelli castani appiccicati alla fronte sono tanto lisci e bruciati dal sole che sembrano anch’essi foglie accartocciate di pannocchie.
Il vento porta con sé parole.
Manifestati Chaos.
Manifestati aethyr, costante di Planck.
Ettore si sposta dal cerchio. Una colonna di luce ne sale purpurea. Come olio sull’acqua, sulla sua superficie si agitano tante stelle, e la luce del giorno sembra meno vivida.
Manifestati Vortex.
Ettore vede un tipo che si sta maneggiando tra le gambe. È quel tipo che sta parlando e urla ogni tanto quelle strane cose. Ettore ci aveva provato, recentemente, a maneggiarsi come fa quel tizio. Non un granché, tanto appiccicaticcio e fatica, solo per provare una specie di mal di pancia. Al tizio sembra piacere, invece.
Distoglie lo sguardo ma l’immagine lo segue, proiettata sulla natura circostante come i fotogrammi del cinema estivo all’aperto nella piazza di Gioia del Colle.
Si sveglia.
Il sole brucia il volto, le palpebre indolenzite per essere state cotte per ore dal riverbero. Torna alla bici, appoggiata al cartello di indicazioni per il paese di Acquaviva delle Fonti. Sono una dozzina di chilometri fino a Gioia. Per arrivare in un lieve ritardo, che è quello che garantisce ramanzine e non botte, dovrà pompare sui pedali come Gastone Nencini. Salire sulla vecchia Bianchi che apparteneva al nonno è sempre una piacevole sfida con il ghiaietto della strada, che più volte ha bevuto sangue dalle ginocchia di Ettore. Passo, doppio passo, balzo sul pedale e via, i primi dieci metri sbisciando come un ubriaco, evitando buche e ceppi d’erba, immaginando d’essere un cowboy che sta domando un nero stallone imbizzarrito.
I residui del sogno baluginano dietro le palpebre come quando si fissa una candela e poi si sposta lo sguardo sulla parete.
Si getta per la discesa a tutta velocità. Se cade, avrà una scusa per la mamma, che distratta dalle ginocchia sbucciate, si limiterà a un’accettabile ramanzina. Accettabile è quella che dura mezz’ora invece di mezza giornata.
La voce dell’uomo gli rimbomba in testa. Il suo viso, distorto, gli zigomi enormi. Non è uno scherzo della natura, come li chiama il barbiere, è solo particolare. Ma porta il terrore che solo gli zingari che rubano i bambini sanno diffondere. Sembra un attore di film muti. Mento tondo e largo, deciso, sotto zigomi sproporzionati. Occhi da cane rabbioso evidenziati dalle sopracciglia alzate.
Ciò che spaventa Ettore è che non sta sognando. La faccia la vede sul serio, proprio lì sulla strada bianca.
Poi il vento caldo che lo schiaffeggia in discesa sembra diradare le ultime lucciole di sonno. Il verde della vegetazione riga i campi dorati, la ghiaia ride sotto le ruote sbilenche della bici.
Poco dopo, Ettore svolta dietro un piccolo promontorio in Località Masseria Cattiva.
E sono lì, alti fari d’acciaio. Bianche sentinelle con una specie di gonna, anch’essa d’acciaio. Sono tre birilli di latta giganteschi.
Ieri non c’erano. Oggi, sono sbocciati, curati da manciate di soldati come formiche intorno a fiori chiusi. Puntano al cielo distanti l’uno dall’altro un tratto pari a due volte il campo di pallone di Gioia del Colle, e sono circondati da una miriade di altri veicoli.
Ettore immagina che, al momento del lancio, la corolla di petali che li blocca si aprirà come una margherita. Su un fianco del missile, spicca una stella bianca in campo azzurro e alcune righe rosse e bianche. La scritta, in stampatello, US AIR FORCE.
Sente di nuovo la voce dell’uomo, eccitata, nella sua testa.
Ettore non sa bene cosa significhino le sue parole, sa solo che sono cattive, proprio come quei missili. Non sono grandi come quello che ha portato quel comunista nello spazio. Non servono a quello. Questi portano la Bomba, il fiore di fuoco, identico a quello che ha sognato poco prima.
La voce si innalza al cielo, ma non è arrabbiata. Sembra un misto di contentezza e affanno. La voce lo saluta così: – 1,4 megatoni. Più che sufficienti per scatenare la seconda apocalisse.
Ettore rabbrividisce sotto il sole di giugno. Capisce che quello dell’uomo del sogno può essere solo un arrivederci, o una minaccia.
– Non potete capire – dice Khaoprang. Nessuna inflessione thailandese nel suo italiano, almeno per quanto Ettore conosca le inflessioni thailandesi. Immagina siano simili all’accento cinese.
L’interrogatorio si svolge in quello che era un cesso. Riflessi nello specchio opaco e mangiato dall’ossido come da un fungo tossico, ci sono Ettore, Benvenuto, e lo studente sottoposto a fermo. Il PM, assente, ha delegato l’interrogatorio. L’avvocato difensore del thailandese è più interessato a uno sputo in terra che al proprio assistito, e resta appoggiato a un muro, metà in ombra, metà alla luce.
Del grassoccio agente scelto Gennari, in borghese, si intravede solo il braccio in maniche di camicia. La luce al neon non è abbastanza forte. Ettore e Benve sono solo due ombre in più sulla parete. Diverse piastrelle si sono staccate lasciando vedere le strane forme della calce sottostante, come fossili del ventesimo secolo.
Benve presenta Ettore agli agenti, e dovrà prendere fiato per poter sparare tutti quei titoli. – Il dottor Ettore Zema. Ispettore Capo presso la Seconda Divisione del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine. Collaborerà con la nostra squadra.
Ettore mima un cenno con la mano. Il piantone e Gennari salutano militarmente. In seguito, il piantone si allontana verso la porta, senza uscire, e così Gennari, che puntualizza: – Non vuole l’avvocato, il thailandese.
– Lo deve avere per legge. Adesso – dice Ettore voltandosi verso il thai, – com’è tipico di voi cazzoni maniaci, verrai a dirci che il tutto faceva parte di un disegno superiore. Di come sia stato Dio stesso a chiedertelo.
Lo studente thai è immobile. Sembra una caricatura dei giapponesi nelle vignette della Seconda guerra mondiale. Da quando è entrato nella Direzione Centrale Anticrimine a Roma, Ettore ne ha incontrati di maniaci. Dopo un po’ tutti ripetono i vari patterns codificati nei manuali. Ma questo invece sembra parecchio anomalo.
– Ma LOL! È stato Homer Simpson a chiedermelo – dice il thai.
Ettore guarda Benvenuto. Questi alza le spalle. Ettore incalza.
– Ma checcazzo dici? LOL?
– LOL! – Fa il thai.
– Credo stia ridendo, Ispettore – azzarda il piantone, uno sbarbato rossiccio che non può avere più di diciannove anni.
– Cioè questo parla come in una chat – dice Ettore. Alza gli occhi al cielo. Si volta verso Benvenuto, indicando il thai. – E la vostra questura ha scomodato la DAC per ‘sto stronzo qui?
Chiamato in causa, a Khaoprang si scioglie la lingua. – LOL! Sì… è stato un dio a ordinarmelo. Ma ogni simbolo di ogni civiltà è un dio. Homer Simpson è un dio. Il logo della CocaCola è un dio. Tutto è dio e tutto me l’ha ordinato. Non avrei mai potuto ucciderla di mia spontanea volontà.
– Come no. Ma te la sei pappata in scioltezza – ribatte Ettore.
– Ha tradito. L’amavo troppo per ucciderla. Ho dovuto farlo, altrimenti Lagrange e i suoi complici avrebbero vinto. E il mondo sarebbe rimasto lo stesso, schifoso, lento, statico, triste, dogmatico, grigio, mondo di oggi. La felicità sarebbe stata uccisa. Ho sacrificato lei per la felicità.
Benvenuto, fino a quel momento appoggiato alle piastrelle punteggiate di antiche gocce d’acqua asciugate e gomme masticate simili a verruche, scatta in avanti.
– Lagrange? – Sibila.
Dai tubi di piombo che deturpano tremanti il soffitto, provengono gorgoglii di calcare incrostato, come folletti che corrono dentro i condotti, ridendo. Il riscaldamento è eccessivo. Ogni tanto una goccia cade dalle giunture a gomito, corrose, e si schianta con uno schiocco su un mucchio di scatoloni gonfi di umidità.
Il thai si volta verso Benvenuto. – L’amavo troppo per ucciderla.
Fa un gesto incrociando le dita di entrambe le mani.
– Che era quel gesto con le mani? – Chiede Ettore al piantone.
– Non saprei, Ispettore.
– Un occhiolino – dice il thai.
Ettore si rivolge allo studente thailandese con tono paterno. – Ma testa di cazzo, non faresti prima a fare un vero, dannato, occhiolino?
– LOL!
– LOL ‘sto cazzo. Sei nella merda. Hai poco da ridere.
Ettore esce dalla stanza, per attenuare il puzzo di stantio e urina che stazionerà per ore dalle narici. Chiude la porta, e prende una boccata d’aria un po’ meno densa. Sarebbe tentato di mangiarsi una cicca, ma potrebbe ingoiarla per il nervoso. Dopo una decina di secondi rientra, tra l’ilarità di Gennari e il piantone.
– Cosa avete da ridere? – Sbraita Ettore, forse troppo brusco.
Torna di fronte al tavolo di Khaoprang.
– L’amavo troppo per ucciderla. Ma Lagrange doveva morire.
Ancora una volta, alla menzione di Lagrange, Benvenuto si desta. Ettore cerca di combattere il thai sul suo stesso terreno.
– E che vuol dire che l’amavi troppo per ucciderla? Eros e Thanathos erano fratelli. È la prima ragazza che fai fuori e ti mangi? – Insiste Ettore.
Silenzio. I successivi tentativi di far parlare lo studente si rivelano inutili. Ettore esce dal cesso. Scompare nell’oscurità del corridoio, assorbito come una spugna spinta in un secchio di inchiostro nero. Lo segue un’ombra a forma di poliziotto, Benvenuto, mentre Gennari e il piantone riportano Khaoprang in galera nella attesa della convalida dell’arresto. Nel buio più totale della sera autunnale, si sentono solo due voci.
– È sorta una comunità thailandese negli ultimi tempi, Benvenuto?
– No. Cinesi, coreani del nord. Niente thai. Ma davvero, Ettore?
– Che?
– Che Eros e Thanathos erano fratelli?
– Boh. Vado a buttare uno sguardo nella tana dello studente, brasciòle.
– Piantala con quel soprannome. O ricomincio col tuo. Carnatòsre – ringhia Benvenuto.
– La mia carne non ha niente di tosto. Soprattutto ora – dice Ettore.
– Comunque a casa del thai ci sono già stati i miei ragazzi. Hanno prelevato tutto quello che c’era da sequestrare. Non è meglio che ti riposi, Ettore? Mi sembri cotto. Ma cotto cotto. A sapere che l’avremmo beccato così facilmente, potevamo pure evitare di chiamarti.
– Eh, ma stamattina il questore non lo poteva sapere. E questo non è un omicidio con modalità comuni, no? Traffico umano, forse. Ma hai ragione, andrò domattina. Tanto è sotto sigilli, no? Però potrebbe essergli sfuggito qualcosa, ai tuoi. Non parlo di oggetti, ma di impressioni soggettive, colpi d’occhio. Fammi avere il resoconto dettagliato di quel che hanno trovato, sia nel capanno che nella casa dei thai. Ah, e forse oggi o domani faccio un salto da te, per un aperitivo. E per parlare.
– Stefania? – Azzarda Benvenuto.
– Lascia perdere. Ne parleremo. Stasera vedo una.
– Sarebbe ora che iniziassi a muovere il culo e darti da fare con qualcuna.
– Vedremo. Benve, secondo te il tipo era drogato? Cioè, ci è o ci fa? Non sono riuscito a riconoscere effetti chiari di sostanze stupefacenti.
– Ci diranno i risultati dei prelievi, a breve. Ma ad occhio non credo fosse drogato. L’ho capito quando mi ha detto una cosa, in quell’attimo che sei uscito dalla stanza. No? Quando ridevamo, hai sentito? Quando l’ha detto, aveva lo sguardo sereno e la voce ferma. Come quando si dice una ovvietà.
– Mah, un po’ poco per escludere la droga. Cioè, cosa avrebbe detto? – Chiede Ettore.
– Ha detto che la fine di tutto è vicina. La quarta apocalisse, o Tetrapocalisse, incombe – dice Benvenuto. – L’agente Gennari e quel novellino, Santoli, hanno riso a quella sparata.
– Detto da lui non mi fa ridere – sibila Ettore. – S’è mangiato la fidanzata, cazzo.
Le pareti dell’angusto bagnetto vibrano, forse per i suoni gravi dell’Opera o forse per le ventole d’areazione, che faticano, intoppate da sbuffi di polvere. Ettore si getta acqua gelida negli occhi, curando di non bagnarsi la giacca.
– Potrebbe essere tua figlia – dice allo specchio. Gli occhi cerulei lo fissano scettici. – No. È abbastanza vecchia da poter essere la madre, di mia figlia – si risponde.
Gioia non è una ragazzina. Se ha deciso di uscire con lui, che ha vent’anni di più, avrà le sue ragioni. Ragioni balorde, forse. Ragioni irrisolte, ma sempre ragioni.
Il bagno, rozzamente affrescato, smette di vibrare. L’orchestra s’è accordata. Ettore cercherà, almeno per quelle due ore, di evitare di pensare a Ilenia Alati e al thailandese.
– Stefania mi direbbe che andrei all’inferno, per quel che sto facendo. Che è peccato. Che Maddalena ne sarebbe traumatizzata se lo venisse a sapere.
Si controlla la pelle. Minuscole rughe.
– Fanculo. Stefania mi direbbe che andrei all’inferno per qualsiasi cosa. E Maddalena, cacchio… Maddalena gliela strapperò, a quella pazza fanatica.
Ettore torna verso la platea, con l’impressione di galleggiare sulla moquette rossa del teatro. Ragioni balorde, figure paterne, inferno. Tutto sparisce, pensa Ettore, quando hai le tette di una trentenne tra le mani.
Venti minuti dopo sembrano venti ore. Goccia a goccia i palchi del teatro si sciolgono sulle teste degli spettatori in platea. Danno una visione distorta, a occhio di pesce, dell’interno del teatro. È una goccia di condensa di umidità, che cadendo trascina con sé i riflessi delle affrescature barocche e degli stucchi screpolati.
Un’esplosione in scena desta Ettore. Una visione intorpidita del palco fosforescente si confonde alle scorie oniriche nella sua mente. Sognava Stefania, che in sogno è come stringere la sottile sabbia bianca, quando apri le mani per vederla è già scivolata tra le dita ma ne senti ancora la sensazione ruvida sulla pelle. Ettore non ricorda cosa lei dicesse o facesse, in sogno. Solo l’immagine del suo viso, incazzato, con il crocifisso marchiato a fuoco sulla fronte, gli è rimasta impressa sulla retina, come il clown, come la testa di Ilenia Alati. E già va a confondersi con l’aria. E già gli manca, forse più di quanto lei gli manchi nella realtà.
Ora c’è Gioia di fianco a lui, ed Ettore spera non si sia accorta che lui stava sonnecchiando. Di fianco a lui non c’è Stefania, ma un’altra donna, e si sente spaesato come quando ci si sveglia la prima mattina in un letto d’albergo.
“Mi chiamo Gioia”, aveva solo detto, minuta, castana, con capelli stranissimi ricci ma lisciati alle estremità. La voce squillante l’aveva fregato, così come l’abbondante seno, strepitoso, avvolto in una maglia di ciniglia grigia. Quelle maglie con la cerniera. È una pianista. Di più, Ettore non sa, di più lei non gli ha detto.
– Gioia – aveva esordito Ettore giunto a teatro, affossato nel suo giubbotto di pelle, – pensa che una volta avevo un’amica di nome Claudia che si faceva chiamare così.
– Si faceva chiamare Gioia?
– No, Claudia! – Ettore aveva sbuffato un risolino.
Lei non aveva capito la battuta, o non le era piaciuta. Non era granché in effetti. Ma l’umorismo intelligente non doveva sembrarle un fattore primario nella scelta di uno spasimante, perché sfuggente e indecifrabile non aveva detto nulla. Si era guardata le unghie mangiucchiate, brutte, e si era voltata da qualche parte verso l’entrata. Forse come a dire: “togliamoci questo dente e poi spariamo”. Spariamo, si auspica Ettore, nel senso di sparire e non l’altro.
Ora, dopo l’eternità, una geisha sta morendo sul palco investita da fasci laser rossi, dopo aver commesso hara-kiri. Intorno a lei una decina di donne nude, sedute in cerchio, con il corpo dipinto di bianco e gli occhi rossi, urlano tenendo le mani tra le gambe e fissando un punto indefinito del palcoscenico. Sono tutte maschere senza lineamenti tranne smorfie di orrore. Chissà, pensa Ettore, se Ilenia Alati aveva quell’espressione quella mattina, prima di morire. Chissà quante donne, nel mondo, in quel momento, hanno quella espressione e siedono alienate in celle nascoste, in balìa di maniaci torturatori.
Chi è che aveva detto che l’Opera è l’unico luogo dove qualcuno che viene accoltellato, invece di morire, canta? Ettore fa una smorfia, lisciandosi il mento alla ricerca di spunzoni di barba intorno al pizzetto sale e pepe. C’è anche chi, dopo morta, si alza e urla, come accaduto quello stesso, lontanissimo, pomeriggio.
Gioia lo sta guardando, Ettore lo percepisce, ma evita di voltarsi a incontrare il suo sguardo. Sfere nere e irrequiete dietro occhiali dalla montatura di plastica azzurra. – Vuoi restare? – Fa lei.
– Piuttosto, mi faccio un bidè in una siviera da fonderia – ghigna Ettore.
Lei non l’ha capita, ancora. Forse, pensa Ettore, non sa cos’è una siviera, quei cosi dove c’è il metallo fuso. Ettore sorride con una smorfia.
Gioia si alza di scatto e lui pensa, adesso la perdo. Poi lei gli afferra la mano e lo fa alzare a forza, trascinandolo. Lui pesa almeno quaranta chili più di lei. Nel buio Ettore vede solo la sua schiena, piccola ma erotica nella sua irruenza e nelle sue movenze, circondata da vuote poltrone di velluto rosso. I faretti di sicurezza lasciano un fastidioso alone sul pavimento delle scale, illuminando cicche nere schiacciate anni prima. Gioia corre via ridendo, e trascina Ettore con sé. Lei è sguaiata, lui è terrorizzato.
Un’ora dopo siedono nell’affusolata BMW fumo di Londra di Ettore. Nella oscura piazzola di ghiaia sulla strada panoramica che avvolge la città, si nota solo il parabrezza che riflette le stelle e le lontane luci ai vapori di sodio, giganti rosse in confronto ai minuscoli puntini pallidi che si affacciano su Ettore e Gioia. Hanno guardato per tutta la sera le striature rosse nei pochi sprazzi di cielo finalmente sereno.
Non hanno mai parlato, ed Ettore ha dovuto faticare per non pensare all’appartamento del thai che dovrà visitare l’indomani mattina. Per non pensare alla follia di quel tizio. LOL.
Ettore ha dimenticato lo smartphone nell’altro vestito. Gioia il cellulare, nell’altra borsa. È una scusa per non segnarsi il mio numero, pensa Ettore. Poi si dice che se è così rincoglionito lui, perché non potrebbe esserlo pure lei? Strappa una cartolina ingiallita che teneva sotto il cruscotto. L’ologramma di una anonima piazza fuoriesce dalla carta a seconda del movimento del polso, e la scritta Bye Bye Geneve 2000 scorre da un lato all’altro dell’immagine. Ettore non ricorda da dove sbuchi quella cartolina, dato che sul retro è intonsa. Come si faceva una volta, scrive su un frammento della cartolina il proprio numero di telefono, e sull’altra quello che lei gli detta, e glielo dà.
Dopo averla riaccompagnata alla sua utilitaria bianca, torna a casa, pensandola. Tette. Ma perché pensa a quello? Be’, poco altro a cui pensare. La tipa non si sbottona. Ettore sa poco o nulla. Io sbaglio, pensa Ettore, dico tutto e subito. Dovrei essere più misterioso. È una volta parcheggiato a casa che scopre che con la cartolina ha scazzato alla grande. Ha dato a lei la metà di cartolina che spettava a lui, e viceversa. E quindi si è tenuto il proprio numero. Mo’ come lo recupera? Chi gli ha organizzato l’appuntamento non ce l’ha, quel cavolo di numero.
Uscito dal garage sotterraneo, Ettore dà un calcio a un bidone e maledice quella giornata disastrosa. Il bidone, con un fragore sottile ma fastidioso, rotola sull’asfalto nero fino ad arrestarsi in una pozzanghera. Quando l’acqua torbida si placa, si nota riflesso il neon rosso di un sexy shop vibrare silenzioso come una tana di serpenti corallo.
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