Edito da Infinito edizioni nel 2021 • Pagine: 144 • Compra su Amazon
Cosa si nasconde dietro al pesce che arriva sulle nostre tavole? Di quanto i nostri mari e gli oceani sono diventati più poveri a causa delle attuali politiche della pesca?
Gabriele Bertacchini risponde a queste fondamentali domande prendendoci per mano e portandoci a bordo dei grandi pescherecci, sotto la superficie dell'acqua e negli allevamenti industriali, svelandoci scomodi "segreti". Ne scaturisce un viaggio tra storici e moderni attrezzi di cattura, dati impietosi, avvenimenti di cronaca e splendide specie viventi che stanno diventando sempre più rare.
Un libro per diventare consumatori più consapevoli e fare le scelte migliori, per noi, per il mare, per la Terra. Un libro per dire: "Cogliamo i piccoli e grandi segnali che il mare ci invia. Osserviamo. Guardiamoci dentro e adattiamoci alle sue esigenze, al suo respiro. Sentiamoci parte di qualcosa di più grande. Fermiamoci per un istante, ascoltiamo quello che il mare ha da dirci". (Umberto Pelizzari).
Secondo uno studio della New Economics Foundation, se noi italiani dovessimo mangiare solo pesce che proviene dalle “nostre” acque non ne avremmo più a disposizione, approssimativamente, intorno alla fine di marzo di ogni anno. Un cittadino dell’Unione europea (Ue) l’avrebbe terminato intorno all’inizio di luglio.
Si chiama Fish Dependence Day, ovvero la data in cui, senza apporti esterni, le scorte interne di pesce di un Paese o di un insieme di Paesi si esauriscono.
Questo giorno sta arrivando sempre prima; nonostante sia cresciuta la potenza di pesca complessiva, il che la dice lunga. Se trent’anni fa l’Europa era in grado di soddisfare la domanda di pesce, pescandolo in acque “proprie”, fino a settembre od ottobre, nel 2019, questo giorno “ipotetico” si è verificato il 9 luglio. (….)
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), il consumo pro capite di prodotti ittici a livello mondiale è in costante aumento. Se nel 1961 era di soli nove chilogrammi annui, oggi si sono superati i venti.
Tra acquacultura e catture si sta parlando di oltre centosettanta milioni di tonnellate complessive. (…)
Secondo la Fao e Greenpeace, a livello globale quasi il novanta per cento degli stock ittici è completamente o eccessivamente sfruttato. Più precisamente, il trentuno per cento delle specie ittiche è sovrasfruttato e il cinquantotto per cento è pienamente sfruttato. Il Wwf aumenta un po’ questi numeri, dichiarando che il trentatré per cento degli stock ittici globali è sovrapescato e il sessanta per cento viene sfruttato al massimo delle sue capacità. (…)
Il merluzzo nordico (o merluzzo bianco), da cui si ricavano il baccalà, se conservato sotto sale, e lo stoccafisso, se essiccato, di migliore qualità, vive nelle acque fredde dell’Oceano Atlantico settentrionale. Può raggiungere i due metri di lunghezza e superare i novanta chilogrammi di peso ma, normalmente, si attesta su dimensioni inferiori. Ama trattenersi in prossimità dei fondali, dove trova il proprio nutrimento, perlopiù fatto di molluschi, gamberi o pesci più piccoli. È piuttosto adattabile riguardo l’ambiente e, generalmente, forma banchi piuttosto numerosi. Non va confuso con altre specie similari, quali il merluzzo del Pacifico, il merluzzo della Groenlandia, il merluzzo atlantico e tantomeno con il nasello, presente anche nel Mediterraneo. Complessivamente, sotto il nome merluzzo si possono trovare tredici specie, seppure la gran parte di esse appartiene a generi sistematici differenti.
La Iucn l’ha ufficialmente inserito nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione, nella categoria “vulnerabile”. Secondo il Millennium Ecosystem Assessment, nel Nord Atlantico, in prossimità dell’isola canadese di Terranova, nella zona dei Grandi Banchi (una delle aree più pescose al mondo, divenuta famosa già a inizio 1500), a fine anni Sessanta si pescavano circa ottocentomila tonnellate di merluzzo bianco. Nel 1992 questo numero era inferiore a dieci. La biomassa di questa specie era scesa del novantanove per cento in meno di trent’anni.
(…)
In inglese si chiamano bycatch; in italiano catture accessorie. Sono tutti quegli animali che vengono catturati in modo involontario durante una battuta di pesca e che non corrispondono alla specie ricercata (specie target), quella per la quale si è usciti in mare. Molto spesso si tratta di esemplari giovani, altre volte di specie protette e tutelate da normative internazionali. A seconda dell’attrezzo di pesca utilizzato e dell’animale su cui si sta concentrando la battuta, le catture accidentali possono essere molto significative. Ad esempio, sempre secondo il Wwf, per un chilo di gamberetti è possibile trovare nella rete dai cinque ai venti chilogrammi di animali non desiderati.
Non è un caso che, secondo la Iucn, la prima causa di minaccia per i vertebrati marini acquatici italiani sia la mortalità accidentale. (…)
Uno studio effettuato tra il 2011 e il 2019 dall’Università di Mānoa, nelle Hawaii, ha mostrato come il trentotto per cento degli squali tigre che vivono nelle acque intorno a Tahiti presentasse ferite da ami o attrezzi da pesca industriale. I ricercatori spiegano che “gli squali sono semplicemente attratti dall’esca. Se catturati, mordono o rompono il palangaro. Così nuotano via con gli ami nello stomaco, nella gola, nella bocca, attorno alle mascelle o altrove sul corpo. Le ferite superficiali possono causare qualunque tipo di disagio, da una lieve irritazione al sanguinamento; mentre un amo ingerito può lacerare gli organi interni”.
Uno studio del 2014, riportato dal progetto TartaLife dell’Unione europea, ha mostrato come nel Mediterraneo, annualmente, vengano catturate circa cinquantasettemila tartarughe con i palangari pelagici e circa tredicimila con i palangari di fondo, ma i numeri non sono sempre uniformi e sono difficili da stimare. (….)
Si chiama FIFO, fish in: fish out (pesce in entrata: pesce in uscita), ovvero l’efficienza con cui, in termini di peso equivalente, l’acquacoltura converte un’unità di pesce selvatico in un’unita di pesce allevato. La
ricerca, di certo, sta facendo passi da gigante, perché alle industrie non piace buttare vie risorse inutilmente e bisogna cercare di ottimizzare le rese il più possibile. (….)
Questo significa che se invece che mangiare sardine si mangiasse salmone, perché la sua carne piace di più, il numero dei salmoni di allevamento crescerebbe a discapito di altro pesce, che verrebbe prelevato dal mare per essere trasformato in farina che servirebbe per nutrire i salmoni. Nella realtà, nonostante l’utilizzo di parti scartate dalla filiera ittica, è proprio quello che sta capitando.
Ecco la prima fregatura dell’allevamento: non risolve il problema dell’esaurimento delle risorse presenti in natura. (…)
In natura, ogni specie è presente con determinate popolazioni numeriche, che non sono altro che la risultante delle risorse presenti in un luogo e dell’interazione con le altre forme di vita che lo occupano. Mettersi a giocare con i numeri può essere piuttosto pericoloso, e non sempre lo si riesce a fare bene. Forse, è vera la famosa frase: “Gli allevamenti sono fabbriche di proteine alla rovescia”. (…)
L’acquacoltura può anche causare la distruzione di interi ecosistemi.
Per fare spazio alle gabbie, ci si può infatti impossessare di luoghi che sono adatti allo scopo, per ragioni di comodità logistica e caratteristiche ambientali.
Nel 1990, in tutto il mondo, si produceva meno di mezzo milione di tonnellate di gamberetti; nel 2000 circa ottocentomila tonnellate; oggi circa quattro milioni di tonnellate. (….)
I dati evidenti di cui disponiamo, fatti di numeri, ricerche, sensazioni e osservazioni dirette, rischiano d’essere come una Cassandra moderna, niente più che una sacerdotessa di sventura. “L’uomo rifiuta l’avvertimento, preferendo il giocattolo del momento. Si preferisce il dono oggi, anche se è truccato, invece che riflettere e andare a vedere dentro quali possono
essere i pericoli”, ha continuato Luca Mercalli in un’intervista. (…)
Non dobbiamo fare assolutamente niente per permettere alla natura di esprimersi. Non servono piani mirati, strategie di sviluppo o altro. È un grido che continuo a lanciare, anche a costo di risultare ripetitivo. Mascheriamo la parola “dominio” con la parola gestione. I pesci e gli altri animali del mare semplicemente ci sono, e questo è sufficiente.
Le pagine che hanno preceduto queste possono sembrare devastanti, per numeri e visione di quello che sta succedendo, ma sono solo delle descrizioni. Raccontano che i tonni, i salmoni, i pesci spada e i merluzzi, almeno per ora, ci sono ancora. Se anche non li vediamo, nuotano nei diversi mari o negli oceani in giro per il mondo. Sono pronti a
tornare anche dove non sono più abbondanti come un tempo. Per capire in che modo ci possono riuscire c’è la storia di (…)
Come è nata l’idea di questo libro?
Dalle osservazioni dirette che faccio nei fondali marini della Sardegna e dai ricordi di mio nonno che, da pescatore amatoriale, mi raccontava di come fossero cambiate le cose tra gli anni ’70, ’80 e ’90.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato difficile, è bastato raccontare quello che si osserva e mettere insieme i dati che le diverse Ong o enti istituzionali forniscono puntualmente.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Luca Mercalli, Konrand Lorenz.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo diviso tra Sardegna e Trentino.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuare a raccontare il mondo della natura, descrivendo le sue meraviglie e le ferite che gli stiamo provocando.
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