Edito da Brè Edizioni nel 2019 • Pagine: 340 • Compra su Amazon
PhoeniX è un atipico romanzo di fantascienza dalla trama complessa ma ben congegnata, narrato in prima persona e in “diretta” da un futuro non poi molto distante, da Auberon Young, un personaggio profondamente umano in una dimensione, spaziale e temporale, che di umano non ha nulla. Eppure è anche una storia d’amore, di quelle che partendo dal presente attraversano i secoli. Si narra la storia del ritorno dell’uomo sulla Luna e della sua colonizzazione sullo sfondo di un pianeta Terra devastato dalle guerre atomiche e governato dal Popolo dei Libri, una teocrazia formata dai rappresentanti delle tre religioni monoteiste. Una ulteriore conferma dei grandi, eterni mali della umanità: brama di potere, ignoranza, e avidità di denaro. Per fortuna esistono singole persone, donne e uomini, che amano, studiano, cercano un avvenire migliore. La passione per lo spazio, per la scienza, la sete di avventura per esplorare e scoprire nuove possibilità, l’inadeguatezza dell’essere umano davanti alla complessità dell’esistenza e dell’Universo, l’amore che non muore mai: sono questi i temi che percorrono le vite di Shaila e Auberon, due giovani ricercatori newyorkesi che vivono la loro storia d’amore in un mondo che si trasforma in un incubo davanti ai loro occhi. Un romanzo che, per la meticolosa ricerca scientifica dell’autore, appagherà i sognatori e scalderà i cuori di chi cerca emozionanti storie d’amore.
E ora sono qui, a contemplare l’iscrizione sulla targa d’acciaio. Mi osserva dalla zampa d’insetto che poggia sulla polvere grigia.
We came in peace for all mankind dice. E così ripenso, ricordo.
Mi chiamo Auberon Young, nome che, alla vigilia del mio ottantesimo compleanno, suona come la risata di una iena a un funerale. Sono nato a New York City nel 2001. Forse vi dirà qualcosa il fatto che fosse settembre, un undici settembre per essere esatti. Sono cresciuto a Little Italy, anche se in quell’anno lì, di Italy c’era rimasto ben poco. I profumi più ricorrenti della mia infanzia erano quelli trasportati dai vapori delle cucine dei ristoranti cinesi vicino alla nostra abitazione, aromi che tuttora mi rammentano le strade dove sono cresciuto.
Ricordo le corse con lo skateboard lungo Canal Street. Sui due lati della strada si fronteggiavano rivendite di pallide mozzarelle italiane e drugstores cinesi stipati di merci indecifrabili. Rivedo i colori vibranti dei pesci appesi all’aria mentre schizzavo fra bancali di spezie puzzolenti e verdure dalle forme aliene. Ho ancora nelle orecchie gli echi degli strepitii delle zuffe tra bande di mafiosi cinesi e italiani, e gli insulti incomprensibili che mi lanciavano quando sfrecciavo in mezzo a loro con le mie magiche ruote di plastica.
Rivedo i cieli azzurri attraversati dalle scie bianche degli aerei che ricamavano arabeschi fra i tetti a pagoda e i grattacieli. Camminavo col naso all’insù, affascinato da quelle ragnatele delicate che tracciavano un confine tra noi e quello che c’era al di là. Forse la voglia di volare è iniziata proprio così, per vedere cosa c’era oltre quei reticolati geometrici che, con la loro sola esistenza, mi suggerivano l’idea di una soglia da oltrepassare.
Ero un giovane newyorkese a cui non importava niente del baseball e del Super Bowl. Mentre i miei coetanei impazzivano per i New York Yankees o i Philadelphia Eagles, io guardavo le stelle. Un velo di malinconia e la sensazione di non essere mai a casa mi
accompagnavano ovunque. Non sono mai riuscito a spiegarmi da dove fosse nata questa sensazione di estraneità, perché mi sentissi fuori dal mondo, non al mio posto. Tuttora non mi capisco. La mia era una famiglia tranquilla, non ho mai sentito i miei genitori litigare, niente piatti che volavano o silenzi grondanti gelo e infetti di rancori. La mia vita non aveva subito particolari traumi, eppure, fin dai miei primi ricordi, mi sono sempre sentito un alieno in una terra aliena. Sono uscito da un uovo difettoso.
Con il passare del tempo mi resi conto che anche gli altri scorgevano il riflesso di questa mia percezione; fin dal primo anno di scuola i compagni di classe mi lanciavano occhiate oblique, come se fossi stato un cucciolo di una specie diversa capitato lì per errore.
Naturalmente arrivai a preferire la compagnia di me stesso a quella di coloro che, pur essendo in teoria miei simili, mi guardavano con un’istintiva diffidenza. Altrettanto naturalmente gli altri iniziarono a pensare che mi dessi delle arie, che mi sentissi superiore a loro: il classico secchione montato. Non riuscivo a far capire che i miei atteggiamenti erano la reazione a quel senso di inadeguatezza che mi trascinavo dietro. E che mi rendeva inevitabilmente solo.
A volte la solitudine mi pesava. In quei momenti trovavo rifugio nella perfezione della matematica, mi rassicurava sapere che i numeri possedevano una loro eterna, immutabile, algida identità. Erano vecchi amici, di quelli che non cambiano mai nonostante il passare degli anni. Per il mio decimo compleanno, ai miei genitori chiesi in regalo un telescopio, e, oltre allo skate e alle equazioni, fu il terzo interesse della mia giovane vita. Certo, l’inquinamento luminoso di Manhattan non era l’ideale per esplorare le profondità siderali, ma la continua caccia con il mirino del Celestron mi insegnò a individuare le costellazioni che la Grande Mela mi lasciava vedere e a impararne i nomi. Una cinquantina di stelle tremolanti era tutto ciò che mi era concesso vedere. Imparai a identificare le sette stelle dell’Orsa Maggiore, una manciata di caramelle bianche gialle e azzurre, disposte con precisione.
Alioth la brillante, Dubhe l’antica stella polare, Alkaid la
boreale; Mizar, Merak, Phecda, Megrez. Osservavo a una a una, quelle gemme colorate fino a che gli occhi erano capaci di sopportare il loro luccichio pungente. Poi trattenevo il respiro e risalivo con il mirino del telescopio fino a Polaris, la stella del nord, quindi scivolavo lungo la dorsale del piccolo carro, ipnotizzato dai minuetti di luce delle sue stelle doppie. Cassiopea, Pegaso, Orione, erano giardini luminosi colmi di giochi colorati nei quali trascorrevo le mie ore più felici. Avevo una vocazione, anche se non l’avevo ancora messa bene a fuoco a quei tempi.
Poi conobbi Shaila. Dopo un’infanzia tranquilla lei spalancò le porte della mia adolescenza, e, con essa, i venti che mi avrebbero spinto più lontano di quanto avessi mai osato immaginare.
Ricordo come se fosse ora il mio primo giorno al liceo, la Columbia Secondary School for Math Science & Engineering. Me ne stavo in piedi sul marciapiede davanti alla facciata in mattoni rossi dell’istituto guardando gli studenti varcare la soglia; indugiavo lì perché non mi piaceva la ressa, sarei entrato quando la via fosse stata più sgombra. C’era confusione e non sentii il sibilo del bolide che si stava avvicinando alle mie spalle.
Mi ritrovai a terra, boccheggiando per riportare aria nei polmoni dopo che l’urto mi aveva lasciato senza respiro. Quando girai la testa vidi accanto a me una ragazza, in piedi, con un piccolo skateboard verde sottobraccio, mi guardava come se qualcosa fosse stata colpa mia.
«Stai bene?» mi chiese.
«Sì. Credo…»
Due grandi occhi di cui non riuscivo a afferrare il colore mi squadravano da sotto una cascata di capelli rossi come le foglie degli alberi di Central Park in autunno, un sipario di denti bianchissimi fece brillare un sorriso nel viso dall’ovale perfetto. Poi la portatrice di tutta quella bellezza, che mi aveva lasciato senza fiato più della botta, fece spallucce e si diresse verso l’entrata della scuola sbirciandomi da sopra la spalla e lasciandomi con l’impressione di avere appena interloquito con un alacre scoiattolo o qualche animaletto dei boschi. Mi rimisi in piedi, spolverai via la polvere dai jeans e zoppicando un po’ mi avviai verso il mio destino, cercandola con gli occhi fra gli studenti. Era il 9 settembre 2015, due giorni prima del mio quattordicesimo compleanno.
Armstrong, Collins, Aldrin. E Nixon. I politici trovano sempre il modo di infilarsi dappertutto, non lo trovo giusto. Tiro fuori il laser da una tasca della tuta e lo regolo sulla frequenza di 445 nanometri. Pochi istanti dopo sono solo tre i nomi rimasti sulla targa. I politici hanno fatto già abbastanza danni per essere degni di un ricordo.
Fatto questo, vado a raddrizzare il primo segno del nostro sbarco, mi sembra sbagliato che debba languire nella polvere. Quando per Neil e Buzz fu il momento di rientrare nell’orbita lunare fra le braccia di Collins che li attendeva a bordo del modulo di comando, il getto di scarico del motore a razzo del LEM abbatté il vessillo, tuttora abbandonato nella regolite; lo tiro su per quei tre ragazzi, non certo per la patria.
Vedo la Old Glory e quasi non la riconosco, poi mi rendo conto, dopo tutti questi anni di esposizione ai raggi ultravioletti del sole, che è pallida, sbiadita come il fantasma di ciò che fummo. Una lacera bandiera bianca, issata dall’umanità nei confronti del proprio futuro.
Già fin dal giorno della mia nascita i segnali della catastrofe non erano certo mancati, ma, come di solito succede, risultarono evidenti solo in seguito, con il senno di poi. Io non avevo conosciuto altro che quei tempi in cui bastava uno starnuto più forte del normale per far scattare un allarme bomba. I metal detector erano parte del paesaggio quanto i distributori della Coca-Cola. Controlli estenuanti, body scanner che ti contavano ogni pelo del corpo, sguardi sospettosi, paranoia diffusa, era tutto normale come il
cielo blu o il tacchino in forno nel giorno del ringraziamento. Dalle rievocazioni dei bei tempi andati che ascoltavo in famiglia avevo appreso che una volta la vita era stata più semplice; la data della mia nascita aveva rappresentato una rottura, un passaggio fra due diverse epoche e modi di vivere, ma quel clima di sospetto era tutto quello che conoscevo, appunto. Ero solo un adolescente le cui principali preoccupazioni si riducevano a escogitare i modi più interessanti di passare il tempo libero. E poi come compagna di classe ritrovai lei, la mia investitrice, la mia nuova fissazione: Shaila Lovelace Cooper.
La rivedo come era quasi un secolo fa, con gli occhi della mente, allo stesso modo in cui voi ricordate un’opera d’arte, la Monna Lisa forse, o magari il Giudizio Universale.
Lei sedeva dall’altra parte dell’aula, accanto alla finestra che ne metteva in risalto in controluce il profilo armonioso. Mi perdevo per ore a contemplare il modo in cui il naso le disegnava sul volto uno scivolo che si spegneva nella morbida curva delle labbra, un poco dischiuse mentre seguiva la lezione.
Rivedo i suoi occhi che avevo scoperto essere grigio azzurro, dal riverbero color acciaio che rivelava molte cose del suo carattere. Ma ricordarla così ora mi fa male.
All’epoca non avevo il coraggio di parlarle, al di là delle normali relazioni tra studenti non avevo certo esperienze di ragazze, fidanzate o quant’altro. Era il tempo dorato in cui la pura armonia di una formula trigonometrica bastava a riempirmi di felicità. Tuttavia capivo che quella ragazza era diversa. Durante le presentazioni degli studenti in classe aveva detto di essere nata in Inghilterra, e di essersi trasferita da poco a New York a causa del lavoro del padre, un diplomatico.
Quando nei corridoi o in mensa la vedevo chiacchierare con le amiche, intuivo dal suo sguardo che era in parte altrove, come se non si sentisse al suo posto; per la prima volta provavo un sentimento di affinità verso un altro essere umano, che poi quell’essere fosse oltremodo attraente non faceva che peggiorare la situazione. Lei se ne veniva e andava da scuola con quello skate verde e i libri nello zainetto, e io avevo la continua sensazione che non appena giravo la testa mi osservasse. Come in effetti era, mi confessò qualche tempo dopo.
Poi, una mattina, eravamo ormai verso la fine dell’anno scolastico e le strade erano bollenti come solo nella Grande Mela sanno essere, mentre seguivo la lezione di chimica organica cercando di non farmi distrarre troppo dalle mie fantasie, l’assistente di fisica, John Delprado se non ricordo male, irruppe in classe con aria sconvolta. A quanto pareva un certo Iran aveva lanciato alcuni missili contro un certo Israele. Per me quelli non erano altro che nomi sbirciati sulla mappa geografica del mondo appesa in aula, o ascoltati distrattamente al telegiornale, ma l’agitazione di Delprado comunicò a tutti noi un senso di catastrofe. Anche nelle altre classi si era diffuso un notevole trambusto e presto nei corridoi si formarono capannelli di professori e studenti che commentavano l’accaduto. Shaila era lì, pallida, appoggiata al suo armadietto, i lineamenti tesi. Senza pensare alla mia timidezza le andai vicino. Nessuno dei due parlò, ascoltavamo i discorsi degli altri: Lo avevano detto e lo hanno fatto – non c’è nessun accordo ufficiale, non interverremo – proprio adesso con le elezioni – lo hanno fatto apposta – era solo questione di tempo – loro e il loro maledetto libro – sono i politici, non i libri, che lanciano le bombe.
Come è nata l’idea di questo libro?
Mi sono tuffato nella scrittura di PhoeniX a partire da una visione avuta in dormiveglia: l’immagine di un astronauta sulla Luna, in piedi davanti alla targa attaccata al LEM che recita “we came in peace for all mankind”. Mi sono chiesto chi fosse quell’uomo e perché stava lì, da solo, a guardare quella scritta. Ho così dissepolto la storia dell’ultimo sopravvissuto della nostra cosiddetta civiltà che narra ai lettori il futuro della Terra, e la sua fine.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
PhoeniX è un libro che aspettava solo di essere scritto: le tematiche quanto mai attuali del racconto, brama di potere, ignoranza, e avidità di denaro, incombono sul nostro futuro minacciando la sopravvivenza stessa dell’umanità. Non è stato troppo difficile farmi trascinare dall’ispirazione prendendo spunto da quello che vedo e sento tutti i giorni.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Direi che gli autori che più hanno influenzato la mia scrittura sono: Hermann Hesse – Oscar Wilde – Giuseppe Genna – George Orwell – Isaac Asimov – Aldous Huxley – Italo Calvino – Ray Bradbury – John Steinbeck – Oriana Fallaci – Umberto Eco – Richard Matheson – Stephen King – Mark Twain – Jack London – Richard Bach – John Irving – Herman Melville – Dino Buzzati – Chuck Palahniuk – John Niven.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo e lavoro a Milano dopo avere girato il mondo.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi piacciono le sfide, quindi il mio prossimo libro sarà totalmente diverso. Non avrà a che fare né con giovani sognatori che vogliono governare il mondo, e che riescono nel loro intento come in REVNION, né con viaggi spaziali e l’apparente pace dei silenzi interstellari di PhoeniX. Sarà piuttosto un thriller, un viaggio nei lati oscuri del cuore degli uomini, in particolare di quelli che vogliono mangiarsi il mondo, e di quelli che invece fanno parte del menù. Si svolgerà a Milano, perché tutto nasce da Milano, anche se non sembra.
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