
Edito da Arcana Edizioni nel 2019 • Pagine: 160 • Compra su Amazon
Il decennio che ci lasciamo alle spalle si tratteggia come talmente vasto e complesso da un punto di vista musicale (e sociale) che è bene fermarsi e iniziare a mettere dei punti fissi.
Dall’esplosione dell’hip hop alla perdita di autorevolezza della musica “indipendente”, finanche alle consuete preoccupazioni di presunta morte del rock, ci sono poche certezze se non che il gusto pop, a poco a poco, ha portato verso una “estetizzazione” della musica che ha pian piano contaminato ogni genere o, meglio, che ha superato ogni genus. Che ciò sia stato causato dalla straordinaria semplicità di fruizione seriale di playlist senza barriere musicali, dallo spostamento di interesse dai social di scrittura a quelli d’immagine, dal passaggio da un’era Obama a quella di Trump, dalla digitalizzazione dilagante, è difficile a dirsi.
La Piccola guida agli anni Dieci serve piuttosto per offrire al lettore un possibile percorso per individuare album e canzoni che, per diverse ragioni, siano ancor oggi importanti (e belli), con l’approfondimento di fatti altrettanto significativi per meglio inquadrare e iniziare a riflettere sui cambiamenti, musicali ma anche sociali, che hanno segnato questo decennio.

Lo zeitgest, lo “spirito del tempo”, è sfuggente. E mutevole lungo la stessa cornice temporale. A condizione che si sia riusciti a identificarlo, si sposta continuamente. E, nella nostra era, si disloca ancora più velocemente. Intrappolati nella quotidianità, il particolare ci fa perdere il tutto, il generale. Oggigiorno le quantità di informazioni e di dati che veicoliamo ininterrottamente contribuiscono a una difficoltà di pensiero più a lungo termine: si è presi dall’oggi, è già sufficiente a livello di sollecitazioni e stimoli culturali in senso ampio.
Queste sono alcune delle ragioni della complessità di questo libro, perché cercare di delineare – se non delle linee coerenti – dei movimenti prevalenti, delle idee maggioritarie, dei sentimenti condivisi che hanno permeato questo decennio, finanche gli album più rappresentativi e le canzoni più belle, non è impresa facile. Soprattutto perché questo decennio è stato seminale dal punto di vista musicale: è avvenuta infatti una evidente ricollocazione del gusto giovanile, soprattutto della critica, verso il pop. Se infatti è normale che il pop – lo dice la parola stessa, che deriva da “popular” – sia sempre stato il linguaggio più diffuso, vero è che la critica musicale lo abbia sempre visto un po’ di sbieco, con diffidenza, per dedicarsi con prevalenza al rock, al folk e all’elettronica, concludendo per la loro maggiore valenza culturale. Ovviamente qui non si sta parlando della critica musicale ancora più colta, ovvero quella che ha la musica classica o il jazz come oggetto, perché quella è da tempo appannaggio di una ancor più ristretta cerchia di persone, anche per ragioni anagrafiche.
La critica musicale degli anni Dieci invece è, coerentemente con la liquidità e trasversalità di questo tempo, aperta a qualsiasi genere (ne sia la prova la ritrovata considerazione per il jazz) e ha rintracciato nel pop molti più motivi di interesse che in altri linguaggi. Anche perché oggettivamente nel pop si è sperimentato maggiormente che da altre parti, dove ci si è un po’ seduti sugli allori.
Raccontare questa evoluzione dunque non è semplice, anche per un ulteriore elemento fondamentale: l’età di chi scrive. Come anche uno studio universitario citato come notizia in questo libro ha dimostrato, infatti, i gusti musicali cambiano durante la propria vita per cui l’identificazione di quel famoso e sfuggente zeitgest muta a seconda dell’età dello scrivente. E ciò è ancor più vero in quest’epoca che ha visto una specie di frattura generazionale: il rischio per chi come me ha passato i 40 anni di risultare passatista e comunque superato è molto alto. La mia fortuna, per riequilibrare ma non annullare quell’eventualità, è stata quella di aver lavorato su Kalporz in questi anni con ragazzi molto più giovani di me, essermi confrontato con loro, averli cercati di capire dopo un normale disorientamento iniziale, e quindi aver cambiato anche certe mie convinzioni. Partendo dal presupposto, ovvio ma che spesso non ci ricordiamo, che nella vita l’unica cosa certa è il cambiamento, per cui non ha senso inseguire un passato non più esistente. Tanto, verrebbe da dire, ci pensa l’inevitabile sentimento nostalgico a farci tendere verso la vecchia musica che già conosciamo e, circa la nuova, a farci affidare a stilemi che ci mettano a nostro agio; ma siccome ciò opera chiaramente a livello inconscio, è bene che a livello conscio si cerchi di essere ben presenti e piazzati nel tempo che stiamo vivendo.
Il concetto di zeitgest è inoltre connesso a quello di moda. Inutile nascondersi: quello che i siti specializzati di musica veicolano maggiormente, gli album che ricevono le votazioni più alte, i musicisti che sono oggetto del maggior numero di notizie, è anche una questione di moda, intesa esattamente come dice il dizionario nella “espressione del gusto predominante (tipico di una determinata società)”, interessante “gli ambiti intellettuali, ideologici, i movimenti artistici e letterari o, più genericamente, abitudini, comportamenti, preferenze”. Passare dunque da un concetto di moda a una storicizzazione di quelle tendenze è dunque impresa ardua, perché le stesse vanno mondate di quegli orientamenti più contingenti, più frivoli, più banali seppure presenti. E qui tra l’altro accade a mio parere un corto circuito che si è verificato negli anni Dieci e che, a mio personalissimo avviso, è invece non corretto: se infatti è fondamentale vedere il tempo presente con gli occhi attuali, è altrettanto nodale guardare al passato senza deformarlo con le lenti di oggi. Un esempio sarà più chiaro: Pitchfork nel 2002 ha pubblicato una classifica dei migliori 100 album degli anni Ottanta, e poi ha rifatto lo stesso esercizio (ampliato a 200 album) nel 2018: classifica stravolta, ovviamente in funzione del gusto pop oggi in voga, operando un bilanciamento numerico di artisti afroamericani e donne (meno presenti nella classifica del 2002) per essere in linea con le sensibilità attuali. La rilettura del passato con le nostre convinzioni attuali non credo sia operazione del tutto onesta. Lo è invece eventualmente lavorare in una prospettiva mediana: considerare le trasformazioni avvenute ma mantenendo una rappresentazione dei fatti oggettivi che sono avvenuti in maniera coerente a quella del momento stesso in cui si sono verificati. Raccontare gli anni Dieci ha in sé questa difficoltà, perché è vero che si sta analizzando un periodo molto vicino, ma è comunque passato per cui è il momento di cercare di selezionare – come si faceva una volta nella cultura contadina con il grano attraverso il setaccio – quello che è giusto portare avanti e quello che invece, nonostante la moda lo abbia messo sotto i riflettori, non è così importante.
Del resto tutto questo lavoro vuole essere, e non può che essere, solo un inizio di discussione, un piccolo contributo (e per questo l’inserimento di questo aggettivo, “piccolo”, nel titolo) per cominciare a confrontarsi su cosa è stato considerevole e cosa no, e pure – suvvia usiamolo questo termine – cosa è stato “bello” e cosa no.
Con ben presente questo sfidante obiettivo, il mio lavoro è stato in fondo facilitato: la scelta di individuare un numero definito di notizie mi ha permesso di concentrarmi in una logica giornalistica a me più congeniale, con l’obiettivo però di considerare quelle news più come spunto per allargare i ragionamenti connessi a quello snodo che come singolo accadimento. Circa gli album ho cercato di mantenere una prospettiva il più possibile oggettiva, partendo dalle classifiche che annualmente abbiamo pubblicato su Kalporz e andando a ri-ragionarci su, a confrontare i riscontri su Metacritic (un aggregatore delle recensioni mondiali che fornisce un rating statisticamente attendibile) e, insomma, a fare delle scelte ma pur sempre nell’ambito di una oggettività storica più marcata. Per le canzoni invece ho seguito più il cuore, e quindi la soggettività è visibile: chiunque scrive di musica sa che si può risultare banali, poco interessanti e sicuramente poco coinvolgenti per il lettore se si scrive di qualcosa che è lontano dalle proprie corde, per cui quel capitolo è più personale e, sicuramente, più criticabile a livello di selezione. Però nel tempo mi sono abituato a fidarmi del mio fiuto, seppure condizionato dall’età, e va da sé che scrivere di musica, così come di arte in generale, implichi un elevato livello di soggettività.
Le regole d’ingaggio delle selezioni sono un paio: non inserire più di un album dello stesso artista (anche se su Kendrick Lamar ero stato tentato) e di scegliere canzoni non presenti nei 50 album. La ragione della prima è in relazione con la constatazione che 50 album sono pochi se si considera un raggio di tempo di dieci anni, e perciò l’obiettivo era di dare un ventaglio il più ampio possibile di artisti. La seconda è connessa e nasce dalla considerazione ovvia che se si è ascoltato bene un disco si conoscono altrettanto bene tutti i brani in esso contenuti, per cui non vi è ragione per segnalare ulteriormente quelle canzoni. […]

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata perché in questo decennio è avvenuta una frattura generazionale tra chi ascoltava rock e non si riconosce più nella “musica che va”, per cui la speranza è essere una cerniera tra questo tipo di appassionati e i più giovani.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato particolarmente difficile, perché ho utilizzato una tecnica giornalistica a me congeniale.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
In Italia tra chi scrive meglio, nell’ambito della critica musicale, segnalo Stefano Solventi.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
A Reggio Emilia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Scrivere un libro di fiabe per bimbi.
Lascia un commento