Edito da BesaMuci nel 2019 • Pagine: 202 • Compra su Amazon
Un romanzo che è una satira dell'Albania degli anni Novanta, la parabola di un paese che dopo l'uscita dal comunismo cerca disperatamente di arricchirsi e di far parte dell'Occidente. Sorta di "antipoema" dove non ci sono eroi, tutt'al più antieroi, "La piramide degli spiriti" racconta la storia del manager americano-albanese Mark Mara, che dopo esser finito in carcere a causa di operazioni finanziarie poco pulite arriva in Albania, la terra dei suoi antenati. Quello di Mara è un viaggio dal significato anche spirituale, l'approdo in un paese che lui immagina povero e ancora immune dai vizi del consumismo. La realtà, però, è ben diversa dalla sua immagine idealizzata: in Albania brulicano le piramidi finanziarie e anche Mara decide di creare la propria, salvo poi finire travolto dal caos in cui precipita il paese quando quelle piramidi crolleranno una dopo l'altra. Per il protagonista questo sarà l'infrangersi di un sogno o l'occasione di partire per un'altra avventura non prevista?
razionale – proprio questo gli era mancato – avrebbe dovuto accorgersi che era esattamente il contrario: bastava considerare il passato non troppo lontano di questo paese che, secondo un consolidato cliché, i media occidentali e a volte, paradossalmente, anche quel-
li dell’Est definivano the poorest country in Europe. Nel migliore dei casi quel puntino poteva corrispondere a una stazione ferroviaria di provincia, ma mai e poi mai poteva essere un aeroporto (avrebbe cambiato idea solo più tardi, vedendo gli aeroporti di altri paesi
balcanici che assomigliavano a scatole di fiammiferi: gli aeroporti di quei paesi che erano diventati Stati indipendenti con la fine della Guerra fredda, quando si era dissolto il cosiddetto Blocco socialista e si era scatenata una serie di conflitti violenti e sanguinosi come l’Occidente non ne aveva mai visti né vissuti dalla fine
della Seconda guerra mondiale).Le guardie dell’aeroporto gli suscitarono un certo
disgusto: erano sudicie, la barba trasandata, addosso portavano divise unte e bisunte, che penzolavano dai loro corpi come stracci dagli spaventapasseri, con così tanto grasso che si sarebbe potuto cucinare un minestrone ripugnante. Peggio ancora: quelle guardie
erano sgarbate, senza alcun motivo si rivolgevano in modo del tutto sgradevole e volgare a chiunque capitasse loro davanti. È vero che per motivi di lavoro aveva viaggiato in diversi paesi del mondo, in quelli che nel gergo della geopolitica di solito chiamano Terzo Mondo (una definizione che non aveva mai capito), paesi poveri e paurosamente arretrati; ma da
nessun’altra parte gli era capitato di trovare gente così sfacciata, che lo fissava negli occhi e senza un minimo di vergogna gli guardava le mani, in attesa di ricevere
qualche osso come si fa con i cani randagi (come si dice, ogni paragone zoppica, e in seguito, conoscendo più da vicino il paese e la sua gente, avrebbe notato
che quello zoppicava eccome! Anzi, zoppicava con
tutte e due le gambe).Questa è solo un’impressione, e per di più la prima, disse fra sé e sé. E come tale, nella maggior parte dei casi risulta sbagliata. In realtà nemmeno lui comprese per quale motivo avesse pensato quelle parole: forse per convincersi che doveva essere così ad ogni costo e che non poteva sbagliarsi; oppure perché era spinto da
un improvviso senso di colpa per il fatto che, appena sbarcato nel paese natio dei suoi genitori, paese in cui metteva piede per la prima volta, l’impressione iniziale
era stata totalmente negativa. La verità era che il contrasto creatosi fra il ritratto idillico che gli si era piantato in testa per via dei racconti della madre (il padre stranamente, non parlava del suo paese né dei parenti rimasti lì) e la realtà con cui si confrontò nel suo breve soggiorno era alquanto sconcertante e un po’ deludente. Una sensazione simile l’aveva provata anche altre volte, addirittura in paesi più grandi e più sviluppati. Con ogni probabilità la colpa era delle aspettative che si era creato, anche questa poteva essere una spiegazione. Soprattutto, gli sembrò una spiegazione logica
e attendibile e, cosa ancor più importante, quasi lo liberò di un peso e lo fece sentire più leggero. Alla fine, poteva dire di aver fatto pace con il paese in cui aveva messo piede (la Terra promessa, come a volte sua sorella la definiva per scherzo quando lui esprimeva il
desiderio di visitarla). E siccome si sentiva uno straniero, aveva bisogno di pace per ristabilire l’equilibrio spirituale necessario a creare una relazione con quel palmo di terra sconosciuta e con la sua gente. Intanto toccava a lui: oltrepassò il nastro giallo, si
avvicinò alla cabina dove si trovava l’uomo in divisa e senza capire il perché, abbozzò un lieve sorriso porgendogli il passaporto. Il volto del poliziotto rimasimmobile. Con indifferenza afferrò il documento e solo quando lo aprì alla pagina su cui era impressa la
foto con le generalità, alzò gli occhi di malavoglia e lo squadrò dalla testa ai piedi: Come se fosse il mio sarto personale e mi stesse cucendo un vestito, avrebbe rac-
contato tempo dopo, scherzando.
– Mark Mara? – gli chiese il poliziotto.
– Sì.
– Americano?
– Sì, ma i miei genitori sono albanesi – disse calcando la voce sull’ultima parola con l’insicurezza di chi parla una lingua che non sente sua.
– Beato te – biascicò il poliziotto fra i denti, come se stesse parlando tra sé e sé
– Prego? – domandò, poiché non aveva compreso cosa gli avesse detto.
Ma il poliziotto non aprì bocca. Fece un semplice movimento della mano, come se volesse dire “lascia stare” e con tutta la sua indolenza continuò a esaminare i fogli del passaporto, uno ad uno, osservando i vari visti che vi erano impressi e fregandosene della lunga fila che si era creata. Mara girò la testa, fissò negli occhi quello che gli stava dietro e, non sapendo che cosa dirgli, alzò le spalle come per discolparsi: Che ci vuoi fare, così vanno queste cose. Anche se in casa i genitori tra di loro parlavano albanese e i figli comprendevano la maggior parte di quello che dicevano, questi ultimi parlavano sempre più raramente quella lingua: per loro, in realtà, si trattava di una lingua straniera che non serviva granché,
a eccezione delle volte in cui erano costretti a rispondere alla madre, che balbettava un po’ d’inglese e l’usava solo quando si trovava a disagio o era costretta
a farsi capire.
Mara pensava di aver finito e si aspettava che il poliziotto gli restituisse il passaporto lasciandolo libero di andarsene, ma proprio in quell’attimo l’agente sobbalzò e gli chiese:
– Il motivo della visita?
– Lavoro e vacanze. Ho sentito che ci sono posti molto belli… – gli rispose con una certa ingenuità e con una sincerità che non gli era del tutto congeniale, specie quando aveva a che fare con estranei.
Ma il poliziotto lo interruppe, sbattendo rumorosamente sul foglio del passaporto il timbro metallico con cui segnava la data e il paese d’ingresso. Dopo un po’ gli restituì il passaporto, senza sollevare la testa e senza rivolgergli nemmeno uno sguardo. Disse solo
“un altro”, con tono monotono e sbiadito dalla consuetudine.
Mara afferrò il borsone e si diresse frettolosamente verso l’uscita, ma ancora prima di raggiungere la porta automatica sentì qualcuno che lo chiamava:
– Ehi sir, qualcosa da dichiarare?
Si fermò come se gli fosse arrivato un ordine e scorse un uomo che certamente doveva essere un dipendente della dogana, anche se il suo aspetto da ubriaco-
ne appena uscito dal bar più vicino non lo convinceva molto.
– Ah, no – gli disse. – Ho solamente un borsone e uno zaino. – E si voltò a metà, come per facilitare all’altro la vista e per aiutarlo a constatare con i propri occhi che ciò che aveva detto corrispondeva al vero.
L’altro tacque per un attimo, poi aggiunse:
– E quel libro che tieni in mano?
– Quale libro? – rispose distrattamente Mark Mara e lì per lì si ricordò che nella sinistra aveva un libro, trovato casualmente in aereo, proprio nel momento in
cui i passeggeri si erano alzati per scendere. Per un attimo aveva pensato che qualcuno potesse averlo dimenticato, perché è difficile che la gente abbandoni libri su un aereo, al contrario di quanto succede con i giornali e con le riviste, perciò lo aveva preso, con
l’intenzione di fare una gentilezza restituendolo alla persona che lo aveva dimenticato e che prima o poi avrebbe potuto cercarlo. A pensarci bene era il gesto di un vero e proprio gentleman, più precisamente un’abitudine acquisita in prigione con gli oggetti smarriti, che secondo una legge non scritta ma sacra andavano restituiti al proprietario.
Come è nata l’idea di questo libro?
La piramide degli spiriti nasce con l’intento di narrare le difficoltà di un’Albania sofferente, in preda alla corruzione, dove percorrere la via del riscatto, come intende fare Mark Mara, il personaggio protagonista, può essere molto faticoso, se non impossibile. Una terra che lotta e ha sempre lottato, che non si da per vinta e tenta sempre la risalita. Il percorso del protagonista rappresenta quello del suo Paese, che vive ancora un periodo di transizione. Il viaggio del protagonista è un po’ il viaggio della Nazione.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato semplice, ma nemmeno difficile. Ho trasferito le mie sensazioni e le mie emozioni in questo libro, tutto quello che provo e ho provato per l’Albania e le sue sofferenze, usando una chiave umoristica e questo mi ha aiutato moltissimo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sofocle e Kafka, sono autori che leggo e rileggo sempre molto volentieri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono di Tirana, ho vissuto a Tirana e in altre parti del mondo. Attualmente mi divido tra Belgrado e Tirana.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Scrivere è vita per me! Attualmente ho dei progetti in cantiere che mi entusiasmano molto. Ne saprete presto qualcosa.
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