Edito da New Press nel 2019 • Pagine: 168 • Compra su Amazon
Gianni Senici, catturato nel gennaio del 1941 a Tobruk dagli inglesi, è stato prigioniero in Australia fino al 1947. Di questo lungo periodo della sua vita non ha mai parlato, né con la moglie, né con i figli. Ma questo silenzio pesa ad Alfredo, il secondogenito che decide di cercare elementi, testimonianze, documenti su questa lunga, e misteriosa fase della vita del padre. Si immerge quindi in una ricerca, prima tra i libri e poi su Internet. Infine, decide di partire per l'Australia per vedere da vicino i luoghi in cui il padre ha trascorso tanti anni di prigionia.
In un racconto di grande intensità, questo romanzo ci propone i due viaggi paralleli, quello di Gianni e quello di Alfredo, in un crescendo di emozione e tensione.
C'è qualcosa che il padre ha voluto nascondere? E questo qualcosa avrà un riflesso nella vita di Alfredo?
21 gennaio 1941
Non riesco a credere che sono ancora vivo. Mi appoggio al muro, chiudo gli occhi e cerco con la mano la mia piastrina di riconoscimento. Mi dà sicurezza quel pezzo di ferro con su il mio nome. Se dovessi morire, penso, almeno sanno chi sono. Sì, perché qui si aspetta solo di morire. Certo, se mi avessero detto che la guerra era questa, mica sarei partito fischiettando da Concesio quando mi hanno richiamato il 1° maggio.
Ho in mente questa cosa da stamattina, quando per un momento le bombe hanno smesso di fischiarmi sopra la testa. È stata dura perché sono due notti che ci bombardano. Da terra, dal mare e dal cielo. Sembra la grandinata del 1936. Una grandine così a Brescia non l’avevano mai vista. I chicchi erano grossi come uova e hanno spaccato su tutto: tetti, carri, le automobili, i vetri delle case. Ecco, le bombe degli inglesi oggi hanno fatto quella stessa roba lì, solo che i buchi sono molto più grandi.
Sono due giorni che me ne sto rintanato nella mensa ufficiali. E chi ha più avuto il coraggio di mettere fuori il naso! Sono un cameriere io, mica uno che spara. E per fortuna che non mi sono più mosso da qui, se no addio Gianni, e chissà perché rido mentre sento gli areoplani che volano bassi su Tobruk. Sarà la paura. È mattino presto, quasi l’alba. Spio fuori dai sacchi che abbiamo messo da dieci giorni fuori dalle finestre della sala mensa. I caporioni lo sapevano da un bel po’ che saremmo stati attaccati, ma si sono guardati bene dal dircelo.
E gli ufficiali allora? Ah, quelli poi sono tutti impazziti. Qui non si capisce più niente di chi comanda e di chi non comanda. Prima ti danno un ordine, poi te ne danno un altro e intanto giù bombe.
Non ho ancora finito di pensare a questa cosa che entra di corsa un alto ufficiale. Riconosco che è un colonnello dalla torretta con le tre stelle d’oro che porta sulla divisa. È tutto impolverato e perde sangue da un braccio. Sono da solo lì dentro, e non ci dovrei stare. Che faccio? Lo saluto o non lo saluto? Poi scatto sull’attenti: «Soldato semplice addetto alla mensa ufficiali Senici Giovanni, 67a divisione Sirte» dico, e resto lì aspettando un ordine di “riposo”, ma quello passa fuori che sembra non vedermi nemmeno, allora mi rilasso e gli dico: «Sta bene, signor colonnello?». Lui si gira, si tocca il braccio e sorridendo senza guardarmi mi dice: «Stavo meglio prima. Comunque non è niente, soldato. Grazie». Ostia! Mi sorprende di più quel “grazie” che non trovare un po’ di acqua qui a Tobruk, e allora gli rispondo: «Prego, signor colonnello » ma in verità avrei voluto chiedergli «Che facciamo?».
E lui fa una cosa che non dimenticherò. Mi mette il braccio sano sulla spalla e mi dice: «Pensa a portare a casa la pelle, giovanotto, che qui siamo tutti come morti che camminano» e così dicendo se ne va: apre la porta delle cucine ed esce come se niente fosse, aggiustandosi l’elmetto sulla testa.
Volevo dirgli di stare attento, ma mi rimetto dietro i sacchi e lo vedo, testa alta e petto in fuori, attraversare la piazza dove ancora resiste il monumento di Mussolini con la scritta VINCERE.
Guardo quel colonnello gentile che mi ha detto “grazie” e un momento dopo non c’è più. Una granata li ha disintegrati insieme, lui e il monumento di Mussolini.
(…)
Brescia (Italia)
4 febbraio 2017
Quella scatoletta Alfredo non l’aveva più aperta, ma era una sera speciale e si decise: la riaprì. Scelse un oggetto a caso e concentrò la sua attenzione solo su quello. Girava e rigirava tra le mani una cartolina sgualcita, ingiallita e sbiadita con gli angoli sfrangiati dal tempo e dalle tante volte in cui era stata incollata e staccata dai
fogli neri di vecchi album di fotografie. Ne annusò l’odore, ne osservò da vicino i tagli sbrecciati, cercò di immaginarla là, nel passato da cui veniva.
Raffigurava un paesaggio. Un disegno a matita e acquarello color seppia creava un primo piano di alberi alti e sottili con ciuffi di foglie alle estremità, a prima vista dei pini marittimi. Sullo sfondo, in dissolvenza, un ambiente rurale, un villaggio di case basse e quello che sembrava essere un campanile. Uno steccato delimitava il perimetro del borgo. Assomigliava a uno dei tanti paesi come ancora oggi se ne vedono nella bassa pianura lombarda. Rassicurante.
Tranquillo. Sereno.
L’immagine era riquadrata con mezzo centimetro di margine dal bordo e in basso, spostata verso sinistra, una scritta vergata a mano: “Cowra 1941”. Era l’unico indizio che riportava quel paesaggio alla storia da cui proveniva. Osservando meglio i dettagli, Alfredo capì che in quello steccato si scorgeva il reticolato di cui era composto. Le casette basse erano in realtà delle baracche in lamiera e il campanile, infine, era una torretta di guardia. Quel villaggio sfumato nei colori della lontananza gli appariva ora in tutta la sua oggettività: un campo di concentramento. Cowra nel New South Wales, il campo dove era stato prigioniero
suo padre.
(…)
Marsha Matruk (Libia)
30 gennaio 1941
Stiamo marciando da due giorni e da due giorni non mangio e non dormo. Questa è la guerra, altro che i bei discorsi del Duce.
Lo penso da quando abbiamo lasciato il campo improvvisato di Tobruk. Fa un caldo della malora e ho sete. Dài Gianni, mi dico da solo, avanti un passo dopo l’altro. Il sergente Bortolotti e Angelo Rossetti sono nella mia squadra. Siamo rimasti attaccati come l’edera.
Corre voce che ci portano ad Alessandria, ma qui non sa più niente nessuno.
Siamo tanti, madonna santa quanti siamo. C’è la fanteria, ma anche la marina, si vede che li hanno fregati anche loro. Camminiamo seguendo una pista nel deserto. Ogni tanto la strada si alza sopra una duna e si può guardare la marea umana di noi prigionieri, una marea che marcia tutta in fila e penso che siamo un esercito di disperati e di sconfitti.
Quando arriva il buio ci accampiamo come meglio possiamo anche perché di notte fa freddo e stiamo tutti vicini. Già dalla prima notte il sergente mi ha detto di non togliermi gli anfibi. Gli ho dato retta, mi sembra uno che se ne intende: «Se te li togli poi non riesci più a rimetterci dentro i piedi». L’ho detto anche ad Angelo che già aveva slacciato le stringhe. Altri prigionieri non lo sanno e si liberano i piedi da quell’inferno. E poi non si riesce a dormire anche perché le fotocellule illuminano i recinti che troviamo durante la marcia.
Poi, una notte, veniamo attaccati dai nostri stessi aerei. «Ma cosa cazzo bombardate!» provo a gridare alzandomi di colpo in piedi e guardando il cielo, ma una bastonata mi arriva sulla schiena, mi rimette steso e al naso mi arriva l’odore acre della carne bruciata.
(…)
Qantas Air Lines (Oceano Indiano)
19 maggio 2017
Così Alfredo partì. Troppa la voglia e la curiosità per non partire nonostante le sue paure. Troppe le cose da chiarire e da approfondire. Troppi i sentimenti sospesi, le parole non dette, i ricordi. In quei mesi la Rete aveva continuato a restituirgli, piccole schegge appuntite di memoria che si conficcavano profonde dentro la sua testa come un pungolo continuo.
E se da una parte la curiosità lo spingeva, dall’altra si domandava il perché senza darsi una risposta. Sapeva solo che doveva proseguire in questa migrazione istintiva verso una meta che ancora non conosceva.
Sua moglie non fu felice di questa scelta e si tranquillizzò solo quando lui le chiese di partecipare attivamente all’organizzazione che prevedeva un viaggio “stringato” di quindici giorni.
L’idea di Alfredo era di arrivare a Sydney, visitare il Tatura Museum a Murchison, incontrare Giulio Zambon direttamente al War Museum di Melbourne cercando di approfondire il più possibile le informazioni in suo possesso e tornarsene a casa, non prima di aver visitato un pezzo d’Australia.
Non che Alfredo potesse sperare di chiarire tutto, ma la sola idea di andare nei luoghi dove suo padre era stato già di per sé emozionante e tanto bastava per rassicurarlo sulla decisione presa. Perciò risolta l’organizzazione e la burocrazia Alfredo si ritrovò in volo su un aereo della Emirates che faceva scalo a Dubai per poi proseguire
con un volo Qantas per Sydney. Sembrava passata una vita da quel 16 novembre, in realtà erano trascorsi solo sei mesi.
Su quell’aereo per Sydney alla decima ora di un volo infinito tornò a ripensare a tutto quello che era successo. Si chiese anche se quel viaggio era un andare verso un qualcosa o non fosse più che altro un fuggire. Dal lavoro, dalla routine, dal matrimonio. “Ma non dire cazzate” pensò tra sé rendendosi conto di essere dentro a dei luoghi comuni e che forse tutta la sua vita era un luogo comune e che quindi, forse, qualcosa di vero c’era.
Meglio pensare ad altro, così si concentrò sull’ansia che ogni viaggio gli metteva, sul suo inglese stentato, sulle incognite, sui ragni e sui serpenti di cui dicevano l’Australia fosse piena.
All’agenzia di viaggi gli avevano raccomandato di portarsi indumenti invernali. Al momento era rimasto perplesso poi aveva messo a fuoco l’enorme distanza che lo separava dall’Australia: una terra dall’altra parte del mondo.
Guardò, oltre l’oblò dell’aereo e ancora oltre le enormi ali del 747, la distesa infinita e scura dell’oceano e una precisa domanda si compose nella sua mente: «Cosa sapeva mio padre dell’Australia?».
(…)
Wakool (Australia)
24 dicembre 1944
Non so com’è successo che oggi è Natale, Natale del 1944. Mi hanno dato un’altra cartolina che non spedirò a nessuno. È già più di un anno che sono qui nel campo di Wakool. Almeno oggi non abbiamo lavorato.
Ieri ci hanno dato il permesso e siamo andati tutta alla Messa di mezzanotte. È stato bello, sembrava per la prima volta di essere liberi. Sì, lo so che non era vero, ma eravamo tutti lì, quelli della mia squadra, ad ascoltare la Messa. C’era anche la famiglia Leclark, con la moglie e le due giovani figlie, Judith e Mary.
Sono molto carine, ma una in particolare la Judith, che ha sedici anni ed è la più giovane, è proprio bella che sembra un raggio di sole appena spuntato sopra il bush.
Il proprietario della fattoria dove lavoro, Antony Leclark, è un brav’uomo e a suo modo ci rispetta, e noi facciamo di tutto per farci volere bene. Ogni giorno siamo trasportati sul cantiere con i camion. Estate e inverno, non ci siamo mai fermati. Sotto la guida degli ingegneri australiani abbiamo scavato e tracciato trincee che poi sono diventate canali di irrigazione. Abbiamo spianato e scavato i terreni per farli diventare risaie. Abbiamo faticato, ma almeno siamo stati uomini.
(…)
Brescia (Italia)
18 giugno 2017
Alfredo prese dal portafogli quel pezzo di carta sgualcito dal tempo piegato più e più volte su se stesso. Doveva farlo. Aveva aspettato fin troppo. In quei quindici giorni, da quando era tornato, si era detto più volte lo faccio domani, e poi domani e poi domani ancora. Basta, pensò, oggi è il giorno giusto. L’avrebbe fatto.
In fin dei conti era il suo compleanno. E si sentiva molto più vecchio di quando era partito. Trovò un ampio posacenere in metallo e lo portò in terrazza. Poi, senza troppi ripensamenti, diede fuoco a quel vecchio foglio partendo da un angolo e trattenendolo con due dita fin quasi a scottarsi. Sua moglie, da sotto, gli urlò che sentiva puzza di bruciato, ma lui non le rispose. Mentre scendeva le scale, ripensò agli ultimi sette mesi e a tutto quello che aveva bruciato insieme alle parole scritte da suo padre. Poi, alzando un po’ la voce, disse a sua moglie: «Stasera usciamo a cena».
Come è nata l’idea di questo libro?
Un libro nasce sempre da un sentimento e questo libro non è da meno. L’occasione è arrivata in concomitanza con la data del 16 novembre 2016, anno in cui mio padre avrebbe compiuto 100 anni. Pensavo sarebbe stato bello fare un regalo speciale a lui che non c’era più da moltissimo tempo e a noi che siamo qui a ricordarlo. Così è uscito il tema della sua prigionia in Australia e più ci pensavo più capivo che di quel periodo sapevo quasi nulla. Esistevano ed esistono ancora oggi in casa mia dei piccoli oggetti che sono sempre rimasti nell’aria come un filo conduttore tra il presente e il passato: una nave in bottiglia, due piccoli vocabolarietti di inglese e alcune cartoline. Tutto proveniente dall’Australia. Sulla base di questi ricordi è iniziata la ricerca storica che sta alla base del romanzo, che poi nel corso della sua realizzazione ha preso un aspetto più complesso che la semplice cronologia degli avvenimenti accaduti tra il 1940 e il 1947, anno di ritorno in patria di mio padre dalla prigionia.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Avendo alla base una ricerca storica di fatti avvenuti ormai ottant’anni fa, la difficoltà è consistita nel decidere quando “smettere” di cercare. Ancora oggi del resto continuano ad emergere dettagli e particolari, ma che sono convinto, non avrebbero portato niente di più alla storia che ho raccontato. Il lavoro è durato circa due anni e mezzo, dal momento della prima idea abbozzata in una sinopsi, al momento in cui l’editore ha dato alle stampe la prima edizione.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Rigoni Stern, Pavese, Fenoglio hanno senz’altro contribuito a costruire il mio stile di scrittura, molto “visivo”. Ma anche autori più visionari come Murakami Aruki e Dino Buzzati posso dire che fanno parte delle mie letture.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in un piccolo paese nella prima cintura di Brescia, Cellatica, alle porte della Franciacorta. Ma sono giunto qui solo recentemente. In realtà la mia famiglia è sempre stata un po’ nomade da questo punto di vista. Per cui sono nato a Vestone, capoluogo della Valle Sabbia, trasferito sul lago di Garda e poi ancora a Brescia città, dove con la mia famiglia ho cambiato almeno tre appartamenti.
Dal punto di vista letterario, quali sono i vostri progetti per il futuro?
Ho detto recentemente a degli amici che essere un “esordiente” a sessant’anni è una bellissima condizione che ti consente di avere ancora negli occhi lo stupore della prima volta. Quello stupore che hai quando fai una cosa nuova ed inattesa e, per questo, bellissima. Ma questo non toglie nulla al fatto che continuerò a scrivere. Il mio è un progetto letterario composto da tre romanzi che sono uniti da un filo conduttore comune: la memoria vissuta non come pura nostalgia, ma necessaria al personaggio a capire il suo oggi. Per cui ho iniziato un secondo lavoro che intende mettere a nudo le contraddizioni politiche dei giovani degli anni Settanta.
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