
Edito da Sensoinverso nel 2018 • Pagine: 146 • Compra su Amazon
Un pericoloso criminale dotato di mostruosi poteri mentali viene catturato ai margini dello spazio colonizzato e rinchiuso in una capsula creata apposta per renderlo inoffensivo. Ma qualcosa inspiegabilmente non funziona e, per l'equipaggio della nave che lo deve condurre alla sua ultima destinazione, è l'inizio di un incubo paranoico, dove niente e nessuno è quello che sembra, fra il timore di illusioni in agguato e la concretezza di cospirazioni reali e pericolose. Così, l'uomo che lo ha fortunosamente fermato la prima volta viene chiamato a ripetere l'ardua impresa e inviato a bordo del vascello maledetto. Fra paure, follia e macchinazioni, quando è la mente a essere il bersaglio, diventa difficile capire dove finisca la realtà e dove invece cominci la manipolazione del mostro.

«D’accordo, riformulo la domanda. Lei, capitano, uccide il tenente Rya nel sogno?»
Il sogno era un tormento ricorrente che lo perseguitava oramai da settimane, resistendo caparbio da quando era rientrato dalla base Tytan-III, dove era arrivato come unico superstite della missione, e persisteva anche dopo la terapia nell’ospedale militare terrestre.
Tornò a concentrarsi sulle immagini, nitidissime, del suo incubo.
«Non lo so. Mi sveglio sempre prima.»
«Ma, mettiamo dovesse terminare lei la storia, come se il sogno fosse un film e lei lo sceneggiatore. Cosa crede farebbe il personaggio del capitano Burda? Ucciderebbe il tenente Rya?»
Burda si mosse a disagio sulla poltrona.
«Immagino di sì. Sì, quel capitano Burda lo farebbe certamente.»
«Perché? So che lo abbiamo già detto e ridetto, ma è importante che siano le sue stesse parole a chiarirlo a lei, prima ancora che a me.»
Burda lo comprendeva. Annuì. Dopo poco rispose, ponendo attenzione ad ogni sua parola, come se così il loro senso fluisse più chiaro dentro la sua testa e non solo fra le corde vocali.
«Perché è posseduta, non è più lei.»
«Ne è certo?»
«Sì, è come per Bergman.»
«Il Capitano Burda, invece, lui non è posseduto?»
«No, lui non lo è. Io non lo sono, no.»
Il dottor Pembroke sollevò un sopracciglio prendendo un appunto sul suo taccuino nero, vecchio stile. Così come la sua penna, una stilografica. Tutto di quell’uomo rimandava ad un’altra epoca, non solo il suo ufficio o la giacca di tweed con le toppe sui gomiti, eppure lavorava in una organizzazione all’avanguardia e futuristica, dove tutta la tecnologia immaginabile era già reale!
«Come fa ad esserne sicuro? L’intrusione mentale pare essere un fenomeno molto, molto sottile.»
«Ciononostante sono io, pienamente. Ne sono sicuro.»
«Sa che i condizionati, quelli che fino ad oggi abbiamo avuto modo di prendere vivi e studiare, dicono tutti la stessa cosa? Loro sono convinti di essere padroni di sé. Realmente.»
Burda annuì ancora. Era vero e lo sapeva, li aveva fronteggiati lui stesso di persona, eppure sapeva anche di aver ragione su sé stesso.
«Non è facile spiegare perché non ne ho una prova razionale, ma in qualche modo istintivo io lo so per certo. È la mia la mente di cui parliamo, quindi so che non è stata violata. Lo sento. Lo so.»
Lo psicologo fece un altro scarabocchio sul suo libretto, poi, apparentemente soddisfatto, proseguì.
«Quindi, forte di queste due convinzioni, cioè che lei ha il controllo di sé, ma il tenente Rya no, lei premerebbe il grilletto e la ucciderebbe.»
«Esatto. La uccido perché lei è posseduta e non c’è più rimedio. Il dubbio nei suoi confronti resterebbe sempre, non potrei voltarle mai le spalle e lassù sono rimasto solo, non posso permettermelo.»
Il dottor Pembroke sistemò gli occhiali sul naso e aggiornò alcune note sul blocco degli appunti. Burda cominciava a odiare quella sua calma e quel distacco professionale, così come odiava lo stramaledetto taccuino. Là dentro c’era la sua intimità analizzata in termini tecnici, il racconto asettico e scientifico del suo profilo che un funzionario o una commissione avrebbero letto, soppesato e archiviato come avrebbero fatto con una nota spese, un piano di manutenzione o un report meteorologico.
Odiava quell’ufficio che non c’entrava nulla con il complesso militare di Houston e le navi spaziali, la sua lunga degenza da un sanatorio hi-tech all’altro, gli aghi, i dottori, gli scanner neuronali.
Voleva solo tornarsene a casa.

Come è nata l’idea di questo libro?
Non è nato come un progetto preciso, con un inizio, un corpo e un finale già immaginati, intrecci studiati a tavolino e trame costruite con metodo scientifico. Invece ho cominciato a scrivere e le parole non finivano più di uscire, ogni scena seguiva l’altra e alla fine mi sono accorto che era concluso. Penso fosse stato sempre lì, in agguato da qualche parte dentro la mia testa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La scrittura è stata molto veloce e naturale, come dicevo. Poi l’ho ricorretto e raffinato più volte, anche a distanza di tempo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Un’infinità. Mi piace tantissimo leggere, e non solo fantascienza. È impossibile fare una top ten.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ad oggi abito nelle Fiandre, ma sono nato e cresciuto a Firenze e più di un lustro addietro ho vissuto un lungo decennio latinense. Sono un po’ irrequieto, probabilmente, e non solo dal punto di vista geografico.
Dal punto di vista letterario quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Scrivere per me è un passatempo che mi accompagna da sempre e spero sempre lo farà. Io, di sicuro, continuo a coltivarlo anche se con impegno incostante. Ho molte storie nel cassetto e altre in procinto di finirci. Pubblicare un libro, si sa, non è facile, farsi conoscere lo è ancora meno, ma non demordo e spero prima o poi di vedere altre copertine col mio nome in libreria.