Edito da Aporema Edizioni nel 2019 • Pagine: 362 • Compra su Amazon
Il protagonista di Profilo di ninfa è Leonida, un quasi quarantenne che evita ogni confronto diretto con l’impegno, i sentimenti e le emozioni forti. Nonostante il proprio nome, che rimanda al mito di un coraggioso eroe della storia antica, la sua vita è fatta di pavidità e sconforto: pur di non rischiare di affrontare nuove delusioni, preferisce restare immobile. Per sopravvivere, affitta a degli studenti fuorisede le stanze del suo appartamento nel centro di Milano. Non ha stimoli, non crede nell’amore e ha un pessimo rapporto col padre, il professor Filippo Fossati, che da qualche tempo ha abbandonato la città per vivere a mollo, nella sua barca a vela ormeggiata nel porto antico di Genova.
Tutto cambia con l’apparizione di una ragazza bellissima e misteriosa, dagli occhi intenti e tristi, che senza parlare riesce a smuovere Leonida dal proprio infinito languore. Per inseguirla e ritrovarla, il protagonista può affidarsi solo all’esegesi di un delirante manoscritto rinvenuto sulla panchina dove lei si era fermata. Un assurdo racconto pseudo-mitologico che narra la storia di Ekalyptein, amante apocrifa di Ulisse e figlia illegittima di Noè, e che comunica con la storia principale in un continuo gioco di specchi.
La ricerca dell’amore e di senso conduce Leonida a sfidare inaudite rivelazioni e a fronteggiare le conseguenze di un’imprevista scomparsa: suo padre Filippo non c’è più, manca da Genova e nessuno sa che fine abbia fatto. Attraverso il manoscritto, una lettura di tarocchi e un viaggio in Sicilia, fino a Lipari e all’Isola delle Correnti, Leonida proverà a rimettere ordine nella sua vita, a riconciliarsi con il suo passato e a immaginare un nuovo futuro.
Profilo di ninfa è un romanzo doppio, fatto di simboli e interpretazioni, di sentimenti, paure, illusioni, allucinazioni e ricordi; la storia di una vita e di un’ossessione, aperta a prospettive noir e suggestioni esoteriche.
La grande fontana di marmo mi distrae con un’immagine distorta dal suo zampillo. Sono macchie scure in movimento, vapori smossi dal vento che si ricompongono in una figura femminile: una ragazza dalla pelle diafana, vestita di nero, che scivola di lato e si siede sulla panchina alla mia sinistra, giusto qualche metro più in là. Pare assorta, forse arresa, messa così di sbieco, schiena curva e gambe flesse ad angolo acuto, ricorda una esse stilizzata, un graffito egizio, che effonde bellezza triste e che confonde. Mi basta un battito di palpebra per essere conquistato dal suo profilo, perdere il fiato, e un accenno della sua grazia misteriosa per farmi schiudere la bocca e ingoiare aria alla maniera di un assetato. Un suo sguardo sperduto e teso, freddo in senso neoclassico, si fa spazio tra le cento inquietudini della mente e falcia in un sol colpo tutta la malerba che infesta le messi dei miei pensieri.
Fruga nella borsa, anche questa nera, che tiene appoggiata sulle gambe vestite di jeans. Tira fuori dei fogli – tanti fogli – che poi scorre nervosa, forse senza leggere. Sembra smarrirsi nella ricostruzione di un ordine complicato; cerca, sposta, capovolge, salta, imbroglia. Ora è tornata alle prime pagine, ma con rincrescimento, perché ha uno sbuffo di sconforto e si gira dietro le orecchie i capelli che le cadevano sugli occhi.
Immagino stia affrontando parole pesanti, passivi che la esauriscono alla terra, inchiodandola al mio sguardo impudente. Mi sento peggio di un criminale, un approfittatore, a godere della cattività terrestre di un essere che sembra appena precipitato dal cielo.
La sto fissando senza riguardo e lei pare avvertirlo: alza gli occhi, corruga la fronte e subito dopo mi archivia con un sorriso breve, serio e perfettamente delineato.
Basterebbe un cenno, un movimento complice, per richiamarla a me, per agganciarmi a quel sorriso: potrei inventarmi un’occhiata viva, esatta, una frase ficcante, e tutto il resto verrebbe di conseguenza.
Basterebbe davvero così poco per aiutarla a ricondurre la gravità di quella lettura alla levità della carta. Ma quel poco, oggi, è per me troppo: non mi riesce. Tento un sorriso anch’io, tutto qui, e deve venirmi pure male; penso che non me la merito, una così: è troppo bella, quasi prossima alla meraviglia.
E so benissimo che non posso continuare a insultarla con la mia ostinata e superficiale ammirazione. Lei ha tutto, e io non ho niente. Neanche il coraggio di guardarla. Perciò abbasso gli occhi sulla vasca e scopro l’immagine del mio corpo riflessa tra pesci rossi – arancioni, forse –, che s’inseguono in circuito. Quanto sono ridicolo con quel dito ancora affondato nella piega del braccio!
Centottanta, centottantuno… ho perso il conto.
Altri secondi succhiati via nella voglia di luce, frantumati dall’ardente e vivificante presenza di una ragazza tanto splendente e tenebrosa da rasentare l’incanto. Istanti preziosi, che adesso vorrei tirare indietro per rivivere il suo arrivo, per rivelare la forza o la strafottenza per guardarla ancora. Ma che cosa sto aspettando? Forse che si smorzi questa imbarazzante vampata di eccitazione e confusione, la calma sgravante la mia indole. Mi concedo venti secondi senza badarle: un intervallo di decompressione, dal quale pescare motivi più autentici di distacco, ma non resisto, e arrivato a dieci costringo i muscoli cervicali a una nuova torsione.
Lei ha smesso di esaminare quei fogli spaiati e si è ulteriormente rabbuiata. Controlla l’orologio, un’occhiata al telefono, un’altra alle scarpe sportive nere, un’altra ancora al cielo blu di infelicità. Si mangia un’unghia, accavalla e scavalla le gambe. Incrocia di sfuggita i miei occhi e serra le labbra, percosse da un fremito nervoso, e io quasi intendo il suo respiro graffiante che spira repentino dal naso.
Il sorriso di prima, se mai c’è stato, le si è spento sul volto, offuscato da una nebbia di pensieri a me ignoti.
È già tardi, comunque. Per me, per lei, per tutto. Eccola in piedi. Avvicina il telefono all’orecchio, cammina avanti e indietro. Non sento la sua voce: se sta parlando, lo sta facendo a bassa voce; per lo più ascolta. Torna indietro, raccoglie la borsa che aveva lasciato sulla panchina e si passa una mano tra i capelli, lunghi, liscissimi e aurati, per sistemare le ciocche lontane dal volto.
Ora è immobile a due passi dalla fontana e guarda lontano, verso l’uscita. Offre il suo corpo di spalle ai miei veloci e vergognosi desideri. Poi la vedo vibrare e muoversi per andar via. Stringo gli occhi per catturare la sua sagoma sempre più minuta, in dissolvenza, come l’ultimo spicchio di sole quando scavalca l’orizzonte.
E con il suo eclissarsi, intorno a me, si spegne tutta la luce del mondo. Non c’è più nulla, a parte me, con il mio fallimento fradicio di incoscienza, con la mia voglia di non fare niente, e di fare di tutto pur di non fare niente. Con la strada che non ho mai trovato o che ho evitato con tutte le mie forze. Con i miei cento alibi, uno più stupido dell’altro.
Chino lo sguardo, battuto dalla realtà.
Una piccola macchia di sangue si è allargata sul cotone: un alone, un segno. Alzo il braccio, per fissare meglio e da più vicino il puntino di tessuto connettivo fluido, e sento tutto il peso di quella goccia cremisi: è sostanza che mi abbandona. Mi sembra di distinguere ogni sua particella elementare.
Chiudo gli occhi e immagino di esserle dietro, o accanto, anzi dentro, nel suo sangue, ecco, di vivere in lei, visto che a starle vicino non sono stato capace. Vagheggio d’essere un piccolissimo, insignificante globulo rosso, carico di ossigeno, pompato dal cuore alle arterie, che risale le sue vene e s’insinua nei suoi capillari, mentre lei starà già costeggiando il naviglio di là dal muro di cinta.
Potessi essere quel corpuscolo, partirei dal basso, dal suo piede nascosto nella scarpa scura, che già preme leggero la ghiaia del sentiero a fianco del canale. Intorno a lei – lo vedo – bottiglie di birra, buste di plastica, erbacce, cicche di sigaretta. Segni di tempi ingiusti. Mi muoverei piano, controcorrente, mentre lei sale su un tram, per arrampicarmi sottopelle attraverso le gambe e sfiorare un suo ginocchio, dall’interno però. Si accorgerebbe che c’è qualcosa che non va, ne sono sicuro, ma senza capire.
In quella carrozza, tra la gente assiepata che la soffoca, approfitterei del suo impaccio per risalire fino alle cosce, lisce, snelle, e al punto incantato dove si uniscono. Allora sì che sospetterebbe qualcosa d’inconsueto, d’indefinibile. Una carezza che le nasce dentro, un impulso che non detta alcuna reazione, non ancora, ma che la confonde.
È estraniata, sudata, d’istinto decide di scendere prima, urtando i passeggeri che la precedono. Una vecchia signora la maledice in dialetto perché, per scappare, le ha pestato un piede. Mi sembra di sentirne la voce, indebolita dall’età ma ancora squillante nella protesta e leggermente palatale.
Con un salto, lei è già fuori, spaesata: non è la sua solita fermata, quella. Milano la copre di voci, di traffico e richiami; ma io sono ancora lì, con lei, subdolo e tenace.
Si sente persa, turbata, ma riconosce un’insegna, un cartello, la vetrina di un negozio a lei familiare, e accelera in quella direzione.
E intanto io avanzo fin sotto l’ombelico, impronta indelebile dell’inizio del suo tempo; mi spingo rasente il seno, come una scossa sottile e profonda, e sorvolo il cuore, senza fermarmi: sarebbe una preda troppo esposta da aggredire, una meccanica troppo semplice da scassinare.
Lei non comprende, mi scambia con un brivido che le attraversa le membra nel petto ansate, e dopo in gola, mentre scorro lungo il suo collo, garbato e altèro, che si allunga inconsciamente per offrirmi una vena più diritta e calda, forse un ponte che conduce alla bocca.
Rimbalzo tra la lingua e le labbra. Dalle narici agli occhi. Sono un esploratore che scandaglia il suo volto, che dall’interno è ancora più bello. Lo percorro tutto per ricavarne uno stampo e rintracciarla un giorno, nel futuro, comunque e per forza. Indugio nei suoi occhi, mentre lei, che è finalmente arrivata a casa, sta girando le chiavi lunghe nella toppa. Sbando tra pupille, anima e mente, in mezzo a pensieri incompleti, concetti raccattati, ricordi in restauro e paure mai assopite. Ma rimango in disparte, non tocco nulla: entrare nei suoi pensieri vorrebbe dire sciogliermi in lei, inquinare la sua grazia. Pur volendo violare l’inviolabile, servirebbe un codice, una password, che non conosco e non posso improvvisare.
Mi rendo conto solo ora di essere nient’altro che un globulo estraneo, perso in un organismo sconosciuto.
Ho paura. Sto perdendo il senso stesso del mio viaggio.
Anche lei è smarrita. Prende tempo.
Ecco, la vedo: apre la finestra e osserva il fiume di vite che scorre lì sotto. Ma la mia vita non c’è, non si trascina per quelle vie. E lei lo intuisce, solleva la testa per guardare lontano. Da questo lato, verso il passato. Sembra serena, mentre scandisce una parola di tregua, che rimbalza sui tetti della città, tra le vecchie antenne, le parabole, i pannelli solari e le coperture in asfalto, e arriva fino a qui.
Riemergo, in debito d’ossigeno e di senso. […]
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea e la stessa trama mi ronzavano in testa da parecchio tempo. Tutte le mie storie nascono tornando indietro ai bivi che la vita ha disseminato lungo il mio percorso e immaginando di imboccare strade diverse da quelle realmente intraprese. In questo caso, cosa sarebbe avvenuto se una delle tante “Eka” che ho solo sfiorato nel mio cammino, anche per pochi istanti o un solo momento, non fosse evaporata via ma avesse lasciato una traccia da fiutare, in questo caso un manoscritto, e io avessi avuto la forza, la curiosità e il coraggio di seguire quell’impronta? Se poi aggiungiamo che un manoscritto del genere esiste veramente, il gioco è fatto…
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La scrittura è un viaggio meraviglioso e magico, ma al contempo faticoso e, per certi aspetti, logorante, specie per chi, come me, non fa lo scrittore di professione. Per più di un anno ho convissuto intimamente con i personaggi della storia, gli spunti dell’intreccio, a volte la frenesia di portarli a termine, ma di fianco a me c’era la vita reale, la famiglia, il lavoro, con le loro esigenze e priorità. La difficoltà sta nel conciliare queste due anime: fortunato chi può permettersi di far coincidere passione con il lavoro…
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Io leggo molto, anche se, da buon genovese, ricorro spesso alla biblioteca della mia città, salvo poi acquistare quei testi che ho più apprezzato. E normalmente leggo due romanzi contemporaneamente, purché siano di generi diversi (ad esempio, un thriller e una commedia). Anche da questa mia stramba abitudine è nata l’idea di scrivere un libro basato su due storie distinte, anche e soprattutto stilisticamente. Diciamo che i classici li ho abbandonati negli anni dell’Università e adesso leggo soprattutto scrittori contemporanei. In assoluto l’autore che ho amato di più è stato Milan Kundera. In Italia mi commuovo con Erri De Luca e amo scrittori come Missiroli e Veronesi.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo nell’interland di Milano, ma sono nato, come già detto, e ho abitato a Genova fino al 1995. Entrambe queste città le considero un po’ casa mia. Poi, grazie al lavoro, ho viaggiato molto, con frequenti periodi all’estero, soprattutto in Estremo Oriente, che mi hanno arricchito e mi hanno fatto vivere momenti insoliti, a volte memorabili.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho appena concluso e sto revisionando un terzo romanzo, in cui credo molto, e ho altre due o tre storie in testa che mi piacerebbe concretizzare in libri compiuti. L’idea di questo nuovo libro, o meglio… che spero diventi un giorno un libro, ha origine, in maniera ancora più esplicita, da quel processo che ho descritto prima: i bivi della vita e le strade non percorse, che diventano in questo caso la stessa trama del romanzo.
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