
Edito da Apollo Edizioni nel 2018 • Pagine: 106 • Compra su Amazon
Questo libro nasce da una storia vera e dall’incontro umano e intelligente delle due autrici.
Si narra di coloro che perdono la vita sui luoghi di lavoro, le cosiddette “morti bianche”, ma per scelta si è evitata la pedissequa ripetizione di numeri e statistiche che vengono lasciati agli esperti in materia. Brevemente, nella seconda parte del volume, si sono trascritti dei dati esclusivamente per rimarcare la rilevanza del fenomeno, non certo per pubblicare l’ennesimo trattato di denuncia sociale sull’argomento. Ne è stato dissertato e scritto abbondantemente e non è questo l’imprinting che si è voluto dare all’opera.
Si parla di coloro che perdono la vita lavorando, per negligenza e superficialità dei padroni, per mancanza delle pur minime norme di sicurezza, e di come nel nostro Paese manchi una vera cultura e, conseguentemente, una buona legge in merito alla sicurezza sul lavoro.
Si narra delle famiglie, dei figli, delle mogli, dei genitori, dei fratelli e delle sorelle che si ritrovano a dover affrontare la perdita di un loro caro e di come la vita, per tutti loro, cambi con la velocità di un battito di ali di farfalla, e del modo in cui il peso di quell’assenza diventi il tarlo con cui si sarà costretti a convivere per il resto dei loro giorni.
Storie, testimonianze e parole che da piccoli granelli di sabbia diventano macigni quando sono inchiostro impresso sulle pagine di un libro.
E dopo, per tutti, nulla sarà più come prima.

Casa “amara” casa, 1984
Il 15 ottobre 1984 il tempo si fermò e noi con lui.
Nella storia della nostra famiglia ci fu un prima, un durante e un dopo.
Il tempo prima si rispecchia a grandi linee nella storia raccontata fin qui. Ho tralasciato di fare riferimento a tante situazioni legate al rapporto con mio fratello e con mia madre. Questa è la storia di mio padre dal “mio punto di vista”. Sono le mie sensazioni, i miei momenti.
Il tempo durante è quello che ha segnato per sempre la mia vita e quella della mia famiglia. Sono stati giorni lunghi, giorni di lacrime, giorni di assenza e di presa di coscienza.
Oggi, quando in una famiglia capita un evento tragico, solitamente, almeno i membri più giovani vengono seguiti da psicologi o psichiatri. Invece, a noi, a me e a mio fratello, toccò incassare il colpo e andare avanti. Nessuno ci disse come e cosa fare.
Nessuno ci disse che da quel momento le nostre vite avrebbero camminato su binari sconosciuti e il percorso sarebbe stato sempre in salita. Nessuno, anzi, qualcuno, una zia paterna, in particolare, ci consigliò una cosa: “portate il lutto, altrimenti la gente del paese e tutti coloro che vi conoscono cosa dicono?”.
Cosa significa in un paese del Sud portare il lutto? Indossare il lutto per un parente morto significa, per la donna, vestire abiti solo neri e per l’uomo portare una cravatta nera. Il tutto per mesi, per anni. Durante il periodo del lutto non bisogna partecipare ad alcuna festa e neanche accendere la tv in casa. Mia madre per non inimicarsi i parenti di mio padre, fece indossare abiti neri a me, che allora avevo sedici anni, e la cravatta nera a mio fratello, che di anni ne aveva solo quattordici.
Mio padre non tornò ugualmente e la gente per strada ci chiedeva il perché indossassimo quei vestiti neri. Così bisognava stringere i denti e spiegare: “il lutto è per mio padre che è deceduto per un incidente sul lavoro.” A volte, non so per quale strana ragione, la risposta non arrivava subito e mi perdevo in una serie di parole che rendevano tutto più difficile.
Allora mi chiedevo il perché fossi costretta a dover dare anche spiegazioni. Non bastava aver perso mio padre, non bastava il dolore che mi lacerava il cuore e l’anima?
Dopo un anno e mezzo di messinscena, io e mio fratello decidemmo di togliere quella maschera nera. Qualche giorno dopo la zia paterna arrivò a casa e ci disse: “lo avete tolto perché vostro padre, forse, non vi voleva bene?”.
Avrei voluto urlare, tirando fuori tutta la rabbia che avevo dentro, a lei e al mondo intero che non è l’abito a legarci a una persona per sempre, ma l’amore costruito insieme durante la vita.
Mi hanno sempre fatto schifo i comportamenti di apparenza, gesti fatti solo per la gente, per non far parlare il popolo. Ma la gente, quella che secondo mia zia avrebbe parlato, dov’era quando mio padre è morto? Quando per anni ho aspettato il suo ritorno sull’uscio di casa? Quando avevo bisogno di un abbraccio o di una parola giusta e lui non c’era più? Ma finiamola una volta per tutte con queste commediole da quattro lire!
A mio padre ho voluto bene e ancora oggi, dopo trentacinque anni, non passa giorno in cui, anche solo per un attimo, il mio pensiero non voli a lui.
Cosa accadde quella sera del 15 ottobre 1984?
Un compare, mio nonno materno e un caro amico di mio padre bussarono alla porta di casa. Mia madre si affacciò e le dissero, senza troppi peli sulla lingua, che mio padre aveva avuto un incidente sul lavoro e che in quel momento si trovava ricoverato in ospedale. Il tempo di prendere la borsa e mia madre andò via con loro. Io e mio fratello restammo a casa da soli.
Un silenzio cupo e tetro si impadronì delle stanze della nostra casa. Aspettavamo. I minuti presto divennero ore.
Nel frattempo arrivarono due carabinieri e ci chiesero di nostra madre, naturalmente rispondemmo quello che era successo e che ora si trovava in ospedale per mio padre. Andarono via.
Iniziai a capire che fosse accaduto qualcosa di grave.
Erano da poco passate le 20:00 e il Tg regionale aveva appena dato la notizia di un tragico incidente sul lavoro mostrando la foto di mio padre, quella che si trovava sulla patente. In quel momento la Tv a casa nostra era spenta.
Nell’arco di pochi minuti la casa si riempì di vicini e parenti. Mia madre non era ancora ritornata, ma nessuna delle persone arrivate ci disse cosa fosse veramente successo. Ognuno inventava una scusa, dopo averci chiesto di nostra mamma, per spiegare il motivo per il quale fossero venuti da noi. Forse erano le 21:00 o poco più tardi quando ritornò mia madre.
Avanzò verso noi figli e con gli occhi rossi e gonfi di lacrime ci disse: «Vostro padre è morto, non tornerà più a casa. Ha preso la corrente».
Cosa? Come? Dove? Perché? In un istante domande su domande riempirono la mia mente. Mi trovai sospesa in una realtà di cui non compresi subito il senso e la portata.
Il tempo si fermò con le parole di mia madre.
Lacrime si sommavano alle lacrime.
Mio padre aveva da poco festeggiato i suoi quarantuno anni e solo la domenica prima aveva raccolto, nel nostro terreno, l’uva per fare il vino.
Passai la notte a girarmi e rigirami un fazzoletto bianco tra le mani che ridussi in piccoli brandelli. La mattina successiva, il 16 ottobre, prestissimo, nella macchina di mio zio raggiungemmo l’obitorio dell’ospedale.
Mio padre era già nella sua bara, ultimo posto dove lo ricordo. Non aveva più gli abiti da lavoro, ma un vestito nuovo ed elegante, giacca, camicia, cravatta e pantaloni. Scarpe nuove.
Era immobile, con gli occhi chiusi e quasi un leggero sorriso sulle labbra.
I suoi capelli erano ancora impolverati da lavoro: polvere di calcestruzzo. Su di lui c’era ancora traccia di quel lavoro che me lo aveva portato via.
Accarezzando lentamente i suoi capelli, iniziai a odiare il mondo e a chiedermi quando avrei potuto parlare di nuovo con mio padre e quando avrei rivisto il colore dei suoi occhi.
Mentre scrivo, ancora oggi, le lacrime mi fanno compagnia.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea del libro è nata perchè avevo una storia da raccontare. Una storia simile ad altre storie che segnano ogni anno la vita di tante persone in Italia e l’ho fatto con la speranza che quello che racconto non accada più, non ci siano più persone che abbiamo a soffrire per le stesse vicende di cui io scrivo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non ho avuto grandi difficoltà sia nella stesura che nella chiusura del libro perchè ho riportato i fatti nella stessa sequenza in cui sono accaduti. Non ho rimescolato nulla. Certo, ci sono stati momenti in cui mi sono dovuta fermare e riprendere il giorno dopo perchè la storia, specialmente, quando è vissuta in prima persona ed è una storia “forte” sono necessarie, sono richieste delle pause. Il libro è scritto a due mani. La prima parte è appunto la mia storia. La seconda parte è stata scritta da Marianna Costa, una brava autrice, che ho conosciuto e che ho molto apprezzato nel suo modo di scrivere e alla quale ho affidato la raccolta di altre storie simili alla mia.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Non ho autori di riferimento. Leggo da sempre e scrivo da sempre. Sono “nata” come giornalista e oggi lavoro nel campo dell’editoria.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Oggi, vivo nel mio paese in provincia di Cosenza, ma in passato ho vissuto per oltre 20 anni a Roma. Nel libro parlo di entrambe le realtà. Il paese di provincia mi ha formato, la grande città, la capitale mi è servita per poter poi ripartire da dove avevo lasciato.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho già in cantiere altre opere. Diciamo che le devo solo chiudere. Trattano sempre storie di vita, di famiglia, della mia infanzia e dei miei amori.
I dolori del anima…sono come una ferita che facciamo e fa male il primo giorno. Dopo un anno, la stessa ferita e gia guarita.
Quando siamo capace di scrivere e aprire il cuore…escono tutti i pensieri che una volta hanno fatto molto male.
Complimenti. Come un specchio…nella mia vita.