
Edito da Gabriele Falco nel 2020 • Pagine: 169 • Compra su Amazon
In seguito al casuale ritrovamento del diario di quando era fanciullo, il maturo protagonista del romanzo torna a rivivere, con compiaciuto stupore e qualche vena di amarezza, quei giorni sereni e spensierati trascorsi all’interno di un contesto socio-culturale indimenticabile, in quell’arco temporale compreso tra l’infanzia e la preadolescenza. Luoghi, personaggi e situazioni che per anni erano rimasti sepolti nella sua mente, gli si riaffacciano, così, a tutto tondo, consentendogli di recuperare una parte importante di sé e del suo vissuto. E nel ripensare a quella bella, pulita e fresca stagione della sua vita gli sembra di avvertire ancora, nell’aria, il profumo di quei giorni.

La prima rete la mise a segno Alberto, con una splendida rovesciata sotto porta. Noi pareggiammo un minuto dopo: lancio dalla sinistra di Franco e colpo di testa di Tonino. Il primo tempo, per farla breve, terminò 4 a 2 per loro. Al trentesimo del secondo tempo eravamo fermi sul 5 a 5 e la partita era più infuocata che mai. Domenico, che siccome tifava per una squadra diversa dalle nostre era stato scelto come arbitro, aveva il suo bel da fare, per non far degenerare la partita in un incontro di rugby. Praticamente non ce n’era uno che non avesse ricevuto un’ammonizione e quando Lucio, che ne aveva già beccate due, fu ammonito una terza volta, si scatenò il pandemonio. Infatti era stato stabilito che alla terza ammonizione ci sarebbe stata l’espulsione. Attorno all’arbitro si accalcavano non solo quelli dell’altra squadra, che volevano farlo tornare sulle proprie decisioni, ma anche i nostri, i quali gridavano che l’espulsione andava eseguita senza tante storie. Nessuno si preoccupava più nemmeno di andare a recuperare il pallone finito giù, nei campi posti a lato della strada provinciale, tanta era la foga con cui ognuno urlava le proprie ragioni a Domenico, dicendogli di tutto.
Ma proprio nel bel mezzo di questo parapiglia, all’improvviso Raffaele, che era uscito un momento dal campetto per togliersi dalla scarpa un fastidioso sassolino, scattò in piedi come una molla e prese a correre come un forsennato verso la rete di recinzione da noi modificata per le fughe (quella che dava sull’orto di Alessandro). E passando come un fulmine in mezzo a noi, sorpresi e smarriti da questo suo comportamento insolito, ci gridò:
<<Ehi, scappiamo! Andiamo via! Scappiamo!… stanno arrivando Nasopizzuto ed Enneù! Presto!… presto!>>
Non aveva ancora finito di avvertirci che, inaspettati come fantasmi, apparvero ai due ingressi posti ai lati dell’asilo i nostri eterni persecutori. Entrambi, per toglierci ogni possibilità di fuga, si piazzarono davanti al corridoio di propria competenza, leggermente chinati in avanti e con braccia e gambe allargate, come maldestri portieri che si accingessero a parare un calcio di rigore.
<<Ah!… ci siete capitati alla fine!>>, esclamò con voce beffarda Nasopizzuto, che nella divisa nera da guardia con ricami dorati incuteva in noi ragazzi un sacro terrore. Sotto la visiera del berretto, un po’ in ombra, si scorgevano due occhi dallo sguardo cattivo e un naso aquilino che conferivano al suo aspetto un non so che di grifagno e inquietante allo stesso tempo.
Il suo “collega”, invece (e dico collega perché tale Enneù si considerava e voleva essere considerato), nonostante si ingegnasse in tutte le maniere di apparire torvo e minaccioso, risultava esilarante; anche se in frangenti come quello a nessuno sarebbe saltato in mente di mettersi a ridere neppure per un istante. Si era troppo impegnati, infatti, a schivare le dolorose cinghiate che i due riuscivano ad affibbiare con rara abilità.
L’aspetto divertente di Enneù veniva preso in considerazione solo dopo che tra lui e noi era stato messo un buon centinaio di metri di distanza. Era allora che noi, fatti arditi dalla lontananza, davamo vita a sfrenati caroselli conditi di boccacce e pernacchie all’indirizzo di quel povero cristiano, il quale, impotente, minacciava sfracelli di ogni genere, se ci avesse messo le mani addosso.
Questi suoi sfoghi si concludevano, invariabilmente, con la seguente frase, rivolta, di circostanza in circostanza, a qualcuno di noi in particolare; quello che, forse per vendicarsi di qualche cinghiata ricevuta in occasione del “raid”, era apparso il più irriverente sia nel motteggiarlo che nel fargli qualche brutto gesto:
<<Non te ne incaricare, che ti riacchiappo. Dove vuoi andare: per le macchie?[1] Prima o poi mi ricapiterai e allora ti farò passare il sonno! Ti annerirò le gambe, ti annerirò; quant’è vero Dio!>>
Ciò che faceva di Enneù un personaggio comico era legato non solo al suo aspetto fisico, ma anche al carattere. Egli era un uomo sulla sessantina, alto, magro, con le guance leggermente incavate e due occhi tondi grigio-verdi ficcati sotto delle sopracciglia piuttosto folte, ispide e biancastre. Lo stesso colore e una consistenza quasi stopposa avevano i pochi capelli rimastigli intorno alla testa, lucida e simile a una di quelle pere allungate e macchiettate. Ma l’elemento decisamente caratterizzante del suo volto era un enorme e pronunciato naso carnoso simile a un grosso peperone che, quando egli si alterava (il che accadeva spesso) diveniva paonazzo, specialmente sulla punta, e finiva per assomigliare a una melanzana.
Di carattere era fondamentalmente buono e generoso, ma piuttosto permaloso e facilmente suscettibile. L’aspetto in lui predominante era una grande vanità che lo spingeva ad assumere atteggiamenti ridicoli. Ricordo, ad esempio, come appariva goffo quando, con un piccolo block notes in una mano e un lapis nell’altra, si piazzava ritto e impettito davanti a noi e cominciava a scrivere, diceva lui, i nostri nomi, per farci quella che chiamava “contravvenzione”.
Però, siccome noi sapevamo che non era in grado né di scrivere né leggere, gli chiedevamo di farci vedere i nostri nomi scritti su quei foglietti, dove invece erano stati fatti dei segnacci senza capo né coda. Egli allora diveniva furibondo e con il viso infuocato dalla rabbia rimetteva il blocchetto nel taschino della camicia di fustagno e minacciava di portarlo ai carabinieri, così avremmo imparato l’educazione. E quando qualcuno, più sfacciato, gli diceva che i carabinieri non avrebbero saputo interpretare i suoi scarabocchi, egli, alzando con un fiero scatto la testa come un gallo e lanciando attorno uno sguardo minaccioso, si riaggiustava il suo berretto con il fregio dorato, a indicare che chi avevamo di fronte era un’autorità alla quale i carabinieri dovevano rispetto e considerazione, e riprendeva in mano il blocchetto poco prima riposto, sfogliandolo e facendo a uno a uno i nostri nomi. Poi, ripresa pure la matita, si metteva a fare altri misteriosi segni, con un impegno e un’attenzione tali da lasciar credere, per un momento, che stesse scrivendo sul serio chissà qual sorta di verbale. In quelle occasioni di così grande concentrazione metteva fuori la lingua, la cui punta andava a toccare un lato del labbro superiore, e di tanto in tanto vi inumidiva la punta del lapis, per farlo scrivere meglio.
<<Ecco fatto!>>, diceva poi, chiudendo il temutissimo block notes. <<Ora vado in Comune, faccio chiamare i carabinieri e vedrete come vi faranno un bel papìpero e vi accomoderanno per le feste>>.
Il “papìpero”, nel suo approssimativo e colorito italiano, era il papiro, ovvero la denuncia.
Qualcuno rispondeva che lui non era la guardia, ma la maggior parte di noi non si sentiva più tanto sicura e i meno grandi si mettevano perfino a piangere, perché non volevano finire in prigione. Gli altri, invece, avevano paura che quanto era avvenuto potesse essere scoperto dai rispettivi genitori; e in quel caso apriti cielo! Un bel paio di ceffoni non glieli levava nessuno, senza contare che sarebbero stati puniti con il divieto assoluto di uscire per diversi giorni.
Povero Enneù, quante corse gli abbiamo fatto fare dietro a noi, con quella sua cinghia marrone scuro che fischiava sinistramente nell’aria! E quante volte lo abbiamo fatto arrabbiare, con il nostro comportamento non sempre giustificabile.
Ora anch’egli riposa da tempo nel piccolo cimitero del paese, in compagnia di tante altre persone che ho conosciuto e che si sono portate dietro un piccolo pezzo di storia del paese e della mia vita, insieme a una parte di cuore. Riposa in pace, caro Enneù! E riposino in pace tutti coloro che dormono insieme a te.
[1] Per le macchie = per i boschi.

Come è nata l’idea di questo libro?
Eravamo negli anni ’90 del secolo scorso e mi ero da poco trasferito in un’altra regione. Lavoravo in una cittadina diversa da quella in cui abitavo e compivo il viaggio di andata e ritorno su un autobus di linea. Avevo così occasione di immergermi per circa un’oretta nei miei pensieri, che quasi sempre erano occupati da ricordi. Ricordi che, partendo da una particolare situazione, da un particolare dialogo involontariamente ascoltato, da un particolare aspetto del paesaggio che mi vedevo scorrere dietro il finestrino, mi davano occasione di vagare nel tempo e nello spazio, alla ricerca di quei giorni sereni e spensierati vissuti in un altro contesto socio-culturale in quell’arco temporale compreso tra l’infanzia e la preadolescenza. Venivo preso, allora, da un sentimento misto di struggente nostalgia e di fierezza. Nostalgia per un mondo che purtroppo era inesorabilmente scomparso, fierezza perché ero orgoglioso delle mie radici. E ciò, pur lasciandomi dentro un certo senso di smarrimento, non mancava però di farmi sentire un privilegiato, poiché percepivo con soddisfazione che quanto da me vissuto e provato in quei lontani tempi era unico e straordinario. Poi, magari, mi veniva da pensare che ognuno, quando ripensa al passato, ha qualcosa da rimpiangere o di cui essere soddisfatto; e che ogni generazione vede come irripetibile e meraviglioso il periodo legato alla propria infanzia e adolescenza. Tuttavia finivo con il concludere che, per quanto concerneva la mia personale esperienza, non avevo nulla da invidiare a chicchessia, giacché tutte le volte in cui ripensavo a quella bella e fresca stagione della mia vita potevo ancora sentire, nell’aria, il profumo di quei giorni. E siccome la frase “il profumo di quei giorni” mi colpì fin dal primo momento in cui mi si formò nella mente, decisi che qualora un giorno avessi scritto una storia incentrata sui ricordi della mia prima giovinezza, l’avrei intitolata: “Il profumo di quei giorni”.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Quanto è stato difficile portarlo a termine? Molto. Non riuscivo, infatti, a trovare un incipit degno di questo nome né a disporre il materiale narrativo in maniera tale che la sua esposizione avesse un filo conduttore. In attesa di trovare la via giusta, cominciai a scrivere ciò che il cuore, sull’onda della memoria e dell’inventiva, mi dettava. Tuttavia passarono diversi anni, prima che potessi dare vita a una narrazione organica e più convincente. L’unico elemento sicuro e chiaro di quel mio progetto letterario, per il momento, era solo il titolo dell’eventuale libro che avrei pubblicato. Più volte ho lasciato e ripreso la scrittura del romanzo, fino a quando non ho preso in considerazione l’idea di partire dalle pagine di un diario casualmente ritrovato dal protagonista.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Quali sono i tuoi autori di riferimento? A tal proposito è necessario fare una premessa, poiché se dessi una risposta secca potrei dare un’idea sbagliata di me e del mio modo di scrivere. Quindi, detto che gli scrittori a cui maggiormente mi ispiro sono Giovanni Verga, Émile Zola, Ignazio Silone e in generale tutti gli autori del Naturalismo, del Verismo e del Neorealismo (come testimoniano altri miei romanzi e soprattutto le mie raccolte di racconti), devo precisare che nel caso del romanzo “Il profumo di quei giorni” mi sono allontanato sicuramente da tali modelli. Così come ho fatto, in buona parte, nello scrivere altri due romanzi di genere horror. Se dovessi dare una definizione del mio stile, in ogni caso, lo definirei eclettico. Con “Il profumo di quei giorni” è innegabile che io abbia tentato di suscitare l’interesse delle nuove generazioni, facendo ricorso a una tecnica e a modi espressivi più consoni al loro vissuto.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Dove vivi e dove hai vissuto in passato? Vivo a Pordenone, ma ho trascorso l’infanzia e gran parte della giovinezza a Montebello di Bertona, un paesino in provincia di Pescara. Durante gli studi universitari, invece, ho vissuto a Napoli.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro? Continuare a scrivere e, se possibile, a pubblicare i miei lavori. Ma in questo secondo caso temo che dovrò fare ricorso all’autopubblicazione, poiché il mondo dell’editoria in generale, oggi come oggi, a parte qualche rarissima eccezione, non sembra interessato a pubblicare opere di autori “sconosciuti”. Non intendo qui dar luogo alle solite geremiadi da autore frustrato (anche perché non mi sento tale), ma una cosa mi pare certa, e cioè che sempre più, attualmente, gli editori, più che valorizzare l’aspetto culturale sono più interessati al mero profitto, dando così luogo a un’attività commerciale che sarebbe forse più esatto definire “industria culturale” (fermo restando che l’aggettivo “culturale” dovrebbe essere inteso in senso molto lato).
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