
Edito da Ettore Ezio Pantaleone • Pagine: 175 • Compra su Amazon
Un divertente, a tratti amaro, resoconto della vita nella Pubblica Amministrazione: dall'interazione, a volte traumatica e altre farsesca, con colleghi, superiori e utenti, allo scontro con la burocrazia, con norme bizantine, antichi retaggi novecenteschi, dalle resistenze al cambiamento all'onnipresente e opprimente sensazione di far parte di una macchina in avaria, se pure ancora marciante.
La vicenda inizia con il protagonista che entra a far parte di un mondo nuovo e ancora sconosciuto, la PA, con a disposizione, come unica bussola, la guida dell'anziano collega Marco. Attraverso una serie di esperienze, il protagonista è costretto a distaccarsi dalle proprie aspettative, tradite, ad accettare il proprio ruolo marginale e, con il tempo, rallegrarsi di essere solo una rotella insignificante del grande ingranaggio della PA.

In informatica, quando hai un problema col computer, la prima cosa da fare è spegnere e riaccendere la macchina. Funziona la maggior parte delle volte ed è, allo stesso tempo, all’origine di un sacco di guai e la soluzione di molti problemi.
Non va la tastiera? Alza il pacco di pratiche che sta premendo la barra spaziatrice.
Poi prova a spegnere e riaccendere il PC.
Il monitor non si accende? Spegni e riaccendi il PC.
La stampante non funziona? Spegni e riaccendi il PC. E se il problema non si risolve, spegni e riaccendi la stampante. E se continua a non andare, spegni e riaccendi entrambi.
Secondo recenti statistiche, il 97,31% dei problemi si risolve spontaneamente, quale che sia l’origine. Secondo gli stessi dati, poco meno di un utente su quattro, il 23,11%, nonostante i successi precedenti, si dimentica di ripetere la procedura e deve essere invitato cortesemente ad attuarla, prima di iniziare a disperarsi, maledire i colleghi, prendere il telefono e chiedere aiuto, trovare occupato, o libero, e quindi iniziare ad attivare l’ippocampo nel tentativo di reperire Gianna e Pinotto perché il suo problema sia risolto.
Oppure chiamare me.
Da quando ho di nuovo il cacciaviti, capita sempre più spesso, ma comunque meno di prima, quando avevo quello che mi era stato prestato, che qualcuno, dopo aver chiamato tutti i colleghi del piano di Gianna e Pinotto, si ricordi che anche io sono in grado di risolvere alcuni problemi.
“Pronto, Ufficio 4 dell’Ente”, rispondo professionalmente, ma a malincuore.
“Ciao. Sono nei guai. IlmioPCdàinumerienonfunzionanulla!”
“Hai provato a spegnere e riaccendere?”
“Ora ci provo, grazie.”
Potrebbe stupire il fatto che ci sia qualcuno che si dimentica di questa banale e pure efficace strategia, ma succede. Personalmente credo che non sia una reale dimenticanza; credo piuttosto che molti colleghi sappiano esattamente cosa fare, ma che non si sentano in grado di provarci senza che gli sia stato suggerito. Spegnere e riaccendere il computer è una potente panacea e, come tale, viene considerata un atto che può essere fatto solo all’interno di un rito elaborato che prevede, appunto, la ricerca di persone “che conoscono la materia”, la loro consultazione, l’ottenimento della magica soluzione e la sua applicazione (della quale, alla fine, sono esclusivamente gli esecutori materiali).
Spegnere e riaccendere il dispositivo elettronico ha una percentuale di successo assai elevata, eppure non è una procedura priva di controindicazioni.
Una delle conseguenze secondarie, non desiderate, è che può creare dipendenza.
Non sono un neurologo, quindi non voglio spacciare la mia teoria per scientificamente provata, eppure penso che, attivando continuamente le stesse aree del cervello, nello stesso ordine, per compiere le stesse azioni, si creino delle connessioni neurali e che, col tempo, questi percorsi diventino come le piste più praticate in montagna: facilmente percorribili, comode e accessibili, ben segnalate con rassicuranti e invitanti colori dipinti su pietre in bella vista.
Col tempo, quindi, diventa una sorta di abito mentale, quello di spegnere e riaccendere; un buon rito informatico che però finisce per scappare dall’alveo in cui dovrebbe risiedere, e sconfina in territori vergini, mai praticati prima, in cui la sua affidabilità specifica non solo non è dimostrata, ma, in verità, non è nemmeno probabile.
Per una lunga serie di associazioni e abitudini, si finisce per applicare la stessa soluzione a qualsiasi problema. Il cruscotto dell’automobile si accende come un albero di natale, con tante spie colorate, ambrate, rosse e gialle, ma, ovviamente, nessuna verde, alcune lampeggianti, altre serenamente fisse? Prova a girare la chiave e spegnere e riaccendere. La radio non si sintonizza su nessun canale senza che si senta la sovrapposizione di diverse tracce sonore, come se fosse al lavoro il più creativo e imprevedibile DJ? La prima cosa da fare è spegnere e riaccendere. Il forno non si accende? Bisogna capire come spegnerlo. Per poi riaccenderlo.
Dall’informatica agli elettrodomestici, dalle vetture agli utensili, il costume di spegnere e riaccendere dilaga ovunque, inarrestabile. Non è solo un automatismo. È basato su qualche cosa di più profondo e insito nell’animo umano: la convinzione che i problemi abbiano una loro naturale inclinazione a palesarsi senza motivo, con il solo scopo di irritarti, farti perdere tempo, farsi beffe di te, per poi scomparire autonomamente senza che nulla sia stato fatto per risolverli.
Una volta ci lamentammo del numerosissimo pubblico che arrivava ogni giorno nei nostri uffici. Nonostante l’erogazione dei biglietti si arrestasse ad un certo orario, quelli di noi che erano stati adibiti a ricevere finivano per trattenersi molto più a lungo e a saltare la pausa pranzo per smaltire la fila.
Si trattava di un problema annoso, che riemergeva all’avvicendarsi di ogni Dirigente e si rinnovava ad ogni pensionamento. D’estate e durante certi particolari periodi dell’anno, il pubblico diminuiva e per qualche settimana tutti, noi, gli Utenti, i Responsabili, i Dirigenti e persino il Direttore, tiravamo un respiro di sollievo.
“Forse il peggio è passato”, ci dicevamo.
Illusi.
Come le piogge in autunno, il dissesto idrogeologico ad ogni perturbazione di media entità, il particolato e l’inquinamento dell’aria ad ogni inverno, il problema del pubblico era caparbio e burlone. Faceva solo finta di andarsene, di sparire per qualche settimana, ma come calavi la guardia e iniziavi a pensare che, forse, qualche cosa era cambiato, da solo, senza che nessuno facesse nulla – che poi è il sogno di ogni persona di fronte ai problemi che non può risolvere, ossia vederli sparire da soli, senza un vero motivo, dall’oggi al domani – ecco che tornava, più grandi di prima, sotto forma di orde di Utenti famelici di biglietti e informazioni, sgomitanti all’apertura degli sportelli; come gli zombie dei film horror, massa informe di esseri che erano stati persone, ma non lo erano più, si presentavano all’ora indicata con i loro fogli sotto il braccio e in una mano il ticket, disposti in coda, come assopiti, in attesa del proprio turno, dimentichi della fame e della sede, del caldo e del freddo, dei bisogno fisiologici, del sonno e dell’agio di casa propria.
Ogni volta gli impiegati reagivano con assemblee, lettere e rimostranze orali, al che i Direttori prendevano carta e penna e scrivevano al Direttore Superiore, il quale, a volte, accoglieva delegazioni di lavoratori, li rassicurava che ogni iniziativa era stata presa, che erano allo studio misure importanti. Certo, prima di poter fare qualche cosa – fare davvero, non scrivere e basta – bisognava interpellare le più alte sfere dell’Ente, chiedere autorizzazioni, deroghe alla spesa, presentare progetti, ottenere fondi. Ma quanto era fattibile, era stato fatto. La volontà non mancava. Le possibilità, quelle forse sì. Ma non la voglia di fare.
Si trattava di attendere, fiduciosi.
Spegnere e riaccendere.
Non sempre funziona; a volte sì e altre no.
Se non funziona, nulla vieta di riprovarci.
Spegnere e riaccendere.
Spegnere e riaccendere.
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