
Edito da Scatole Parlanti nel 2021 • Pagine: 128 • Compra su Amazon
Catania. Nell'ecosistema della Sivutech, società nel ramo prodotti informatici, Emilio Di Bella è un esemplare che sopravvive sopra la soglia della scure del licenziamento. A scombussolare il fragile equilibrio e imbarbarire gli uffici arriva un nuovo capo, il ripugnante dottor Trombetta: l'impatto è destinato ad avere risvolti anche nella vita privata di Emilio, poiché di mezzo c'è Moira, una vicina di casa con cui ha scoperto di avere più affinità rispetto all'ormai logoro ménage familiare che lo vede legato da anni a Violetta. Quando Moira “rischia” di essere assunta alla Sivutech, Emilio comprende che dovrà uscire dal suo impasse per impedire che avvenga l'irreparabile. Scoprendo, in realtà, che c'è da mettere in discussione molto più di un semplice matrimonio.

La zia adorava i gladioli, così andai a comprarne un bel po’, rossi e rosa, non solo per lei, ma anche per dare un po’ di colore alla camera mortuaria dell’ospedale, che era di uno squallore che non si può dire.
Un’ora dopo, quando tornai, le infermiere avevano finito di vestirla e davanti alla porta aperta della camera c’erano due signore anziane, puntellate ai loro bastoni, amiche della zia, che sembravano darle volutamente le spalle. Nel farmi le loro condoglianze, mi guardarono in una maniera che, più che contrita, pareva schifata. Lì per lì non capii, ma volevo liberarmi le mani dai fiori, così entrai subito a sistemarli e a quel punto tutto fu chiaro: cose da pazzi, le infermiere avevano sì seguito le mie indicazioni, ma avevano tralasciato la più importante e cioè che, dopo averla vestita, avrebbero dovuto coprirla con il telo di raso che era nello zaino insieme al resto, lasciando scoperta solo la testa. Io penso però che non se lo fossero scordate, perché ricordo che, quando avevano visto ciò che avrebbero dovuto metterle, m’avevano guardato come per dire voi Di Bella siete un pugno di pervertiti. L’aveva- no fatto apposta, le cornute.
E come fu e come non fu, le due amiche della zia, entrando nella camera, oltre all’immagine di Padre Pio e un crocifisso sulla parete, se la ritrovarono davanti agli occhi, sdraiata dentro la bara, con indosso solo mutande e reggiseno di pizzo bianco, calze autoreggenti e scarpe rosse coi tacchi a spillo. Aveva ottantaquattro anni.
2. Fuori
Lavoravo da alcuni anni alla Sivutech, una società che produceva e distribuiva prodotti informatici, con sede a due passi dalla tangenziale di Catania. Chiamavo il mio ufficio alveare, non solo perché si lavorava seduti a gruppi di sei su scrivanie esagonali ottenute accostando dei sacrificati tavolini triangolari, ma anche e soprattutto perché, quando entravi, ti ritrovavi in mezzo a gente che andava e veniva e sentivi un continuo, fastidioso ronzio di stampanti.
Ogni mattina, entrando, passavo davanti alla scrivania della signorina Costa, la segretaria, e non riuscivo a darle del tu, anche se avrei voluto farlo, giuro. A vederla con quelle camicie beige o rosa con il colletto di pizzo da zitella da parrocchia e i tacchi a spillo che facevano a cazzotti con le rughe, niente, proprio non ce la facevo; magari sparavo anche una battuta, una fesseria, però finivo col dirle sempre buon dì, signorina, lei replicava con un buon dì, dottor Di Bella e io me ne andavo al mio posto.
Aveva quella maniera garbata di camminare e di gesticolare un po’
démodé che hanno alcune persone e la grazia di una libellula; guardava in modo distaccato, ma senza superbia, piuttosto con compassione, le tante cose che la circondavano:
– le facce ammaccate di alcuni contabili, che sotto il peso del mutuo e dei figli si abbassavano a fare gran porcate che un capo gli ordinava, come emettere fatture false o, usciti dall’ufficio, andare a fargli la spesa al vicino centro commerciale;
– quelle spocchiose e paraculo di certi dirigenti;
– il modo cretino con cui alcuni di questi, per di più uomini, passa- vano nell’alveare con la boria del re che cala dai piani alti e si concede ai sudditi;
– il loro sguardo, impegnato e compiaciuto, quello di chi pensa grazie al mio potere vi aiuterò, mentre fa una telefonata per sbloccare una situazione;
– la leadership, questa parolona inglese masticata di continuo, di cui pochi di loro conoscevano il reale significato e che i più di loro
usavano per chiamare la propria rozzezza.
Prima di lavorare in quell’ufficio, la libellula era stata segretaria personale di alcuni capi. Poi gli anni erano passati e, dato che lei non parlava né inglese né francese e l’età avanzava, le cose erano cambia- te. I capi avevano trovato, con l’aiuto di agenzie di lavoro temporaneo, giovani donne che parlavano un perfetto inglese e che accettavano stipendi da fame per stare lì fino a diciotto ore al giorno; che probabilmente si erano trasferite a Catania per amore di certi sicilianazzi, capelli unti, anello al mignolo e camicia spalancata, calati come avvoltoi su discoteche di Praga o di Riga.
Così, la Costa, una volta sì e una volta sempre, si era ritrovata con ’sta camurria che la sostituivano e ogni volta l’attendeva un colloquio
con quelli delle Risorse Umane. La spostavano come una fotocopiatrice e lei si fece persuasa che la parola Umane non c’entrasse proprio niente. Con quella loro viscida maniera di parlare col cuore in mano – il suo – l’avevano piazzata come segretaria in uffici sempre più grandi e, spostamento dopo spostamento, finì per essere la schiava del nostro team, guidato da Lorella Pennisi, l’ape regina.
Manco a lei riuscivo a dare del tu, eppure ero suo vice e lavoravamo gomito a gomito. No, proprio non ce la facevo. Lei me lo diceva sempre di evitare le formalità, di essere più sciolto, ma non potevo; sarà che aveva ’sta cosa di sentirsi chissà chi o per il macello che faceva organizzando e cancellando riunioni nel giro di un paio d’ore, o, ancora, per quel vizio di parlare di cento cose contemporaneamente, o anche per i suoi se uno ti fa una cazzata, devi cacciarlo senza se e senza ma, oppure i disoccupati? Gente che non vuole lavorare.

Come è nata l’idea di questo libro?
Volevo scrivere di coraggio, non eroico, ma sufficiente ad affrancarsi da certi vizi della società in cui viviamo oggi, come il conformismo, il consumismo, ma anche da certe schiavitù, soprattutto nel mondo lavorativo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ha richiesto parecchio lavoro di rielaborazione di sintesi successive, poiché quando si parla di certe tematiche è molto facile lasciarsi prendere la mano e sfociare in sermoni capaci di far morire di noia pure il più motivato dei lettori.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Direi Stefano Benni e Sandro Veronesi in primis, perché nel mio romanzo sono presenti sia una certa dose di surrealismo e una di intimismo, di riflessione. L’idea è mettere insieme riflessioni e leggerezza.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Siracusa, dove ho vissuto fino a trent’anni fa. Adesso vivo in un bosco vicino a Torino e per una parte dell’anno in un borgo alle pendici dell’Etna.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Continuare a scrivere, imparando sempre più, condividendo storie e cercando di divertire, cosa, quest’ultima, che, a detta di chi ha letto Punto zero, pare mi riesca.
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