Quel lungo velo di seta: presentazione e intervista ad Angela Freschi

Quel giorno, quando mi svegliai, non sapevo il mio nome. Improvvisamente mi drizzai sulla schiena e mi ritrovai seduto. Sentii un dolore lancinante trafiggermi la testa: era come una scossa elettrica che mi trapassava il cervello e mi faceva bruciare le tempie. Cercai di portarmi una mano alla fronte, ma l’ago della flebo mi si conficcò ancora più a fondo nel braccio, provocandomi una fitta che mi fece desistere, così lasciai ricadere la mia mano sulla stuoia dove giacevo. Tentai di capire dove mi trovassi. Feci in tempo solo ad accorgermi che ero seduto su un pavimento in mezzo a due lettini di ospedale, poi qualcosa di violento e potente s’impadronì nuovamente di me. Non ricordo quanto tempo trascorsi in preda a quell’attacco di tosse che, come se mi avessero fatto una lavanda gastrica, mi fece vomitare a lungo acqua sporca di terra. Ricordo solo quel dolore fortissimo che, ad ogni spasmo di vomito, mi sconquassava la testa. Ogni tanto rivivo con nitidezza quella sensazione di paura che le mie funzioni celebrali evidentemente ferite cedessero di nuovo: mi ero appena risvegliato e non volevo sprofondare un’altra volta nel grigiore piatto di quella dimensione arida di immagini, sogni, visioni. Quando riuscii a respirare ad un ritmo abbastanza normale, sollevai lo sguardo e vidi un flusso di gambe in movimento che andavano avanti e indietro. Credo di essere rimasto a fissare lo scalpiccio di quei piedi per un tempo indefinito: passi concitati di medici, di infermieri. Passi disperati di gente che vagava calpestando quel pavimento acquoso, sporco di terra e pozze di sangue. Un caldo intenso aumentava il fetore dei nostri corpi ammassati in quella stanza, del 2 tanfo di sangue, di ferite infette. Fossi stato più vigile e più cosciente, credo che il frastuono indicibile di quel luogo mi avrebbe sopraffatto. Invece, nella mia condizione, mi limitai ad osservarlo come si osserva qualcosa che puoi solo restare a guardare con la bocca spalancata. Cercai di formulare un pensiero. Fu allora che mi resi conto per la prima volta di non ricordare il mio nome. Non sapevo chi ero, né da dove venivo, né quanti anni avevo. Non sapevo niente, neanche che cosa fosse successo. Per quanto sconcertante ed impossibile possa sembrare, non mi feci prendere dal panico. «Resta calmo», mi dissi. «Tra qualche istante ricorderai il tuo nome: ti arriverà da dentro … Ricorderai chi sei, ricorderai tutto». Non fu assolutamente così. Nel mio stato confusionale non avevo una normale percezione del tempo, perciò non so dire quanto rimasi seduto, nella stessa posizione, in attesa. Chiusi gli occhi e feci una serie lunghissima di tentativi: «Al mio tre verrà fuori tutto!», mi dicevo. «Uno, due, tre …», «Uno, due, tre …». Cazzate del genere. I miei pensieri si esprimevano in inglese: sembrava che non avessi difficoltà a comporre mentalmente frasi fluide e corrette. Notai che se mi rivolgevo a me stesso, lo facevo in inglese. Ebbi tuttavia la sensazione che quella non fosse la mia lingua madre, bensì la mia seconda lingua, forse acquisita studiando in una buona scuola, chi lo sa. Percepivo dentro il mio cervello l’esistenza di un substrato linguistico che rappresentava la mia vera lingua, ma che per il momento non riuscivo a raggiungere. Mi tappai le orecchie per allontanarmi da quel fragore pazzesco di pianti, di lamenti, di grida di aiuto pronunciate contemporaneamente in lingue diverse. Come un pesce tirato fuori dall’acqua che cerca disperatamente di respirare, boccheggiavo furiosamente cercando qualche dettaglio che riguardasse la mia identità. Scavai ripetutamente dentro me stesso, ma la mia mente sembrava totalmente sorda ai miei richiami. All’ennesimo tentativo andato a vuoto, che mi lasciava orfano persino del mio nome, il vaso andò in frantumi, si ruppe in mille pezzi e scoppiai in singhiozzi. E ad ogni sussulto il mio mal di testa mi dilaniava. La nausea ed i conati di vomito mi piegavano. 3 E’ difficile spiegare cosa si provi quando si diventa consapevoli di aver perso la propria identità. Non c’è paura. C’è un nulla incommensurabile che atterrisce, c’è un senso di vuoto senza confini. Il lenzuolo che mi copriva le gambe era bagnato e puzzava di piscio. Con una mano, molto lentamente, lo appallottolai e lo spinsi via sotto il lettino alla mia destra. Poi, immobile, presi a fissarmi le gambe. Riscoprii il grosso tatuaggio Maori Kirituhi che mi copre tutta la mezza gamba sinistra, compreso il dorso del piede. Sono legato a questo tatuaggio che mi parla di un popolo così lontano. I Maori si fanno questi disegni propiziatori sul corpo per ricevere la forza necessaria a combattere le ire del mare. Oggi è quasi buffo pensare che in un certo senso esso abbia svolto il proprio compito e mi abbia trasmesso un influsso positivo per uscire vivo dall’acqua. La parte esterna del muscolo era trafitta da un piccolo stecco che si era conficcato nella carne e che nessuno si era preoccupato di togliere. Notai che intorno al buco della ferita si era già formata un’asola di pelle bianco-giallastra, tuttavia il dolore che avvolgeva il mio polpaccio era niente in confronto a quello della testa. Provai a muovere i piedi. Ci riuscii. Il mio cervello e la mia spina dorsale non erano compromessi: potevo muovere tutti gli arti. Pensai che fosse una cosa molto positiva. L’altra gamba era intatta. Un paio di pantaloncini grigi da mare era tutto quello che avevo addosso. Tra il mio piede e la ruota terminale di una gamba del lettino al mio fianco, giaceva un oggetto poggiato sul pavimento. Pinzato ad un supporto di plastica scura, si trattava di un foglio sul quale intravidi delle scritte stampate ed altre redatte a mano. Intuendo si trattasse della mia cartella clinica, attaccai a quell’oggetto tutte le mie speranze e con sforzo estremo, mi allungai per prenderla. Per qualche istante fui veramente convinto che avrei trovato almeno una risposta alla mia tragedia e ricordo di aver persino imprecato contro me stesso per non averla vista prima. «Fucked idiot!», mi dissi. «Hai visto? Forse tutto è già risolto!». 4 Invece ci volle un attimo perché le mie aspettative disperate fossero stroncate. Bastò un colpo d’occhio a quelle parole: “Identità sconosciuta”, che aveva scritto un medico accanto alla voce “dati personali”. Fu un altro colpo crudele. Barcollavo nel nulla più assoluto. I miei occhi scesero sul rigo sottostante che recitava: “Diagnosi: trauma cranico – incoscienza”. In alto, sull’intestazione del foglio, lessi il nome del luogo dove mi trovavo: Bangkok Hospital – Phuket. Seguivano l’indirizzo completo ed i numeri di telefono. Nella nebbia così spessa del mio cervello pulsante di dolore, non riuscii a dare una collocazione geografica a quell’informazione. La mia condizione era disperata: avevo perso tutto, non sapevo in quale paese della Terra mi trovassi, né che cosa fosse accaduto. Fisicamente, oltre alle fitte alla testa, sentivo quelle di probabili costole fratturate. Ogni volta che cercavo di mettere a fuoco un pensiero od un ragionamento, ciò che ricevevo indietro era l’impulso di vomitare. Ero sfinito dalla debolezza. Credo che in quei giorni ed in quelli a seguire, le mie capacità intellettive fossero state come quelle di chi è colpito da un handicap, un serio ritardo mentale.”>http://1. Quel giorno, quando mi svegliai, non sapevo il mio nome. Improvvisamente mi drizzai sulla schiena e mi ritrovai seduto. Sentii un dolore lancinante trafiggermi la testa: era come una scossa elettrica che mi trapassava il cervello e mi faceva bruciare le tempie. Cercai di portarmi una mano alla fronte, ma l’ago della flebo mi si conficcò ancora più a fondo nel braccio, provocandomi una fitta che mi fece desistere, così lasciai ricadere la mia mano sulla stuoia dove giacevo. Tentai di capire dove mi trovassi. Feci in tempo solo ad accorgermi che ero seduto su un pavimento in mezzo a due lettini di ospedale, poi qualcosa di violento e potente s’impadronì nuovamente di me. Non ricordo quanto tempo trascorsi in preda a quell’attacco di tosse che, come se mi avessero fatto una lavanda gastrica, mi fece vomitare a lungo acqua sporca di terra. Ricordo solo quel dolore fortissimo che, ad ogni spasmo di vomito, mi sconquassava la testa. Ogni tanto rivivo con nitidezza quella sensazione di paura che le mie funzioni celebrali evidentemente ferite cedessero di nuovo: mi ero appena risvegliato e non volevo sprofondare un’altra volta nel grigiore piatto di quella dimensione arida di immagini, sogni, visioni. Quando riuscii a respirare ad un ritmo abbastanza normale, sollevai lo sguardo e vidi un flusso di gambe in movimento che andavano avanti e indietro. Credo di essere rimasto a fissare lo scalpiccio di quei piedi per un tempo indefinito: passi concitati di medici, di infermieri. Passi disperati di gente che vagava calpestando quel pavimento acquoso, sporco di terra e pozze di sangue. Un caldo intenso aumentava il fetore dei nostri corpi ammassati in quella stanza, del 2 tanfo di sangue, di ferite infette. Fossi stato più vigile e più cosciente, credo che il frastuono indicibile di quel luogo mi avrebbe sopraffatto. Invece, nella mia condizione, mi limitai ad osservarlo come si osserva qualcosa che puoi solo restare a guardare con la bocca spalancata. Cercai di formulare un pensiero. Fu allora che mi resi conto per la prima volta di non ricordare il mio nome. Non sapevo chi ero, né da dove venivo, né quanti anni avevo. Non sapevo niente, neanche che cosa fosse successo. Per quanto sconcertante ed impossibile possa sembrare, non mi feci prendere dal panico. «Resta calmo», mi dissi. «Tra qualche istante ricorderai il tuo nome: ti arriverà da dentro … Ricorderai chi sei, ricorderai tutto». Non fu assolutamente così. Nel mio stato confusionale non avevo una normale percezione del tempo, perciò non so dire quanto rimasi seduto, nella stessa posizione, in attesa. Chiusi gli occhi e feci una serie lunghissima di tentativi: «Al mio tre verrà fuori tutto!», mi dicevo. «Uno, due, tre …», «Uno, due, tre …». Cazzate del genere. I miei pensieri si esprimevano in inglese: sembrava che non avessi difficoltà a comporre mentalmente frasi fluide e corrette. Notai che se mi rivolgevo a me stesso, lo facevo in inglese. Ebbi tuttavia la sensazione che quella non fosse la mia lingua madre, bensì la mia seconda lingua, forse acquisita studiando in una buona scuola, chi lo sa. Percepivo dentro il mio cervello l’esistenza di un substrato linguistico che rappresentava la mia vera lingua, ma che per il momento non riuscivo a raggiungere. Mi tappai le orecchie per allontanarmi da quel fragore pazzesco di pianti, di lamenti, di grida di aiuto pronunciate contemporaneamente in lingue diverse. Come un pesce tirato fuori dall’acqua che cerca disperatamente di respirare, boccheggiavo furiosamente cercando qualche dettaglio che riguardasse la mia identità. Scavai ripetutamente dentro me stesso, ma la mia mente sembrava totalmente sorda ai miei richiami. All’ennesimo tentativo andato a vuoto, che mi lasciava orfano persino del mio nome, il vaso andò in frantumi, si ruppe in mille pezzi e scoppiai in singhiozzi. E ad ogni sussulto il mio mal di testa mi dilaniava. La nausea ed i conati di vomito mi piegavano. 3 E’ difficile spiegare cosa si provi quando si diventa consapevoli di aver perso la propria identità. Non c’è paura. C’è un nulla incommensurabile che atterrisce, c’è un senso di vuoto senza confini. Il lenzuolo che mi copriva le gambe era bagnato e puzzava di piscio. Con una mano, molto lentamente, lo appallottolai e lo spinsi via sotto il lettino alla mia destra. Poi, immobile, presi a fissarmi le gambe. Riscoprii il grosso tatuaggio Maori Kirituhi che mi copre tutta la mezza gamba sinistra, compreso il dorso del piede. Sono legato a questo tatuaggio che mi parla di un popolo così lontano. I Maori si fanno questi disegni propiziatori sul corpo per ricevere la forza necessaria a combattere le ire del mare. Oggi è quasi buffo pensare che in un certo senso esso abbia svolto il proprio compito e mi abbia trasmesso un influsso positivo per uscire vivo dall’acqua. La parte esterna del muscolo era trafitta da un piccolo stecco che si era conficcato nella carne e che nessuno si era preoccupato di togliere. Notai che intorno al buco della ferita si era già formata un’asola di pelle bianco-giallastra, tuttavia il dolore che avvolgeva il mio polpaccio era niente in confronto a quello della testa. Provai a muovere i piedi. Ci riuscii. Il mio cervello e la mia spina dorsale non erano compromessi: potevo muovere tutti gli arti. Pensai che fosse una cosa molto positiva. L’altra gamba era intatta. Un paio di pantaloncini grigi da mare era tutto quello che avevo addosso. Tra il mio piede e la ruota terminale di una gamba del lettino al mio fianco, giaceva un oggetto poggiato sul pavimento. Pinzato ad un supporto di plastica scura, si trattava di un foglio sul quale intravidi delle scritte stampate ed altre redatte a mano. Intuendo si trattasse della mia cartella clinica, attaccai a quell’oggetto tutte le mie speranze e con sforzo estremo, mi allungai per prenderla. Per qualche istante fui veramente convinto che avrei trovato almeno una risposta alla mia tragedia e ricordo di aver persino imprecato contro me stesso per non averla vista prima. «Fucked idiot!», mi dissi. «Hai visto? Forse tutto è già risolto!». 4 Invece ci volle un attimo perché le mie aspettative disperate fossero stroncate. Bastò un colpo d’occhio a quelle parole: “Identità sconosciuta”, che aveva scritto un medico accanto alla voce “dati personali”. Fu un altro colpo crudele. Barcollavo nel nulla più assoluto. I miei occhi scesero sul rigo sottostante che recitava: “Diagnosi: trauma cranico – incoscienza”. In alto, sull’intestazione del foglio, lessi il nome del luogo dove mi trovavo: Bangkok Hospital – Phuket. Seguivano l’indirizzo completo ed i numeri di telefono. Nella nebbia così spessa del mio cervello pulsante di dolore, non riuscii a dare una collocazione geografica a quell’informazione. La mia condizione era disperata: avevo perso tutto, non sapevo in quale paese della Terra mi trovassi, né che cosa fosse accaduto. Fisicamente, oltre alle fitte alla testa, sentivo quelle di probabili costole fratturate. Ogni volta che cercavo di mettere a fuoco un pensiero od un ragionamento, ciò che ricevevo indietro era l’impulso di vomitare. Ero sfinito dalla debolezza. Credo che in quei giorni ed in quelli a seguire, le mie capacità intellettive fossero state come quelle di chi è colpito da un handicap, un serio ritardo mentale.