
Edito da Edizione Sensibili alle foglie nel 2019
Questo libro si interroga sul processo che ha condotto l'Italia a diventare un Paese che, a fronte delle migrazioni di uomini e donne in fuga da carestie e guerre, sembra aver smarrito i valori fondanti lo Stato di diritto e la Costituzione. Un processo di disumanizzazione dell'Altro (per il colore della pelle, perché ritenuto in competizione con i poveri fra gli autoctoni), di crescente radicalizzazione e progressivo imbarbarimento sia dei comportamenti quotidiani sia del linguaggio sui social, che ha permesso alle forze e ai movimenti di destra di legiferare sulla chiusura dei porti e sull'incriminazione dei migranti, per il solo fatto di essere tali, senza che le aree antirazziste sapessero contrapporre un'altra cultura, altrettanto forte. In un contesto in cui il sistema produttivo da un lato va a depredare risorse nei Paesi di provenienza e dall'altro rende irregolari i migranti, per poterli sfruttare nel mercato illegale e nel lavoro nero. Si propone di ridisegnare i nostri confini mentali, di cui quelli fisici sono soltanto una conseguenza, per costruire quella società plurale, aperta e solidale che è nella natura stessa del nostro essere umani.

Le continue ricerche su un tema quasi immutabile nel tempo e nello spazio come quello riferibile alle migrazioni svelano posizioni politiche, accademiche e comportamenti privati o del privato sociale spesso altalenanti che dovrebbero essere al contrario stabili, per nulla oscillanti su una questione che richiede, anzi chiede, posizioni fisse, come lo sono i diritti in ogni tempo e in ogni luogo dei migranti, dunque di ognuno di noi. Ma così non è. In questo schizofrenico modo di agire attorno alle ragioni che muovono milioni di uomini e donne a lasciare le proprie terre, a migrare ed emigrare, si strutturano posizioni e dichiarazioni che oscillano tra forme di razzismo biologico da una parte e di presunta accoglienza dall’altra.
In mezzo un mare di luoghi comuni e muri di idiozie che strutturano un sentire comune che non riscontra la realtà, ma che al contrario ne crea una parallela e distorta.
Con fare schizofrenico si passa – in poco tempo, con i webeti da una parte e la pancia della piazza nutrita di odio e luoghi comuni dall’altra – a costruire un sentire comune che deborda in forme crescenti di razzismo a prescindere, prive di riscontro, ovvero peggio, sostenute dall’ignoranza delle variabili che strutturano un fenomeno antico, e per questo noto soprattutto agli italiani. Ma la possibilità di raccattare consensi elettorali suggerisce, impone anzi, che si debba ricorrere addirittura a rispolverare frasi e canzoni della Prima guerra mondiale (“Non passa lo straniero, il Piave mormorava”, ecc.) per giustificare comportamenti a sfondo razzista contro il pericolo invasione, terrorismo, agìto in danno delle nostre chances di vita o di affermazione quotidiana. Ma è così?
A tentare di arginare l’oscillazione delle posizioni sulla questione migranti sono le diverse esperienze di accoglienza possibili che vengono addirittura in alcuni casi proposte come buone pratiche, ovvero vengono imposte, perché tale è il rischio, come gli unici modelli possibili di accoglienza.
Qui iniziano però le prime contraddizioni evidenti al punto tale da essere corresponsabili di alimentare modelli che sono sorretti esclusivamente, ancora dopo molti anni, da un’economia esterna che in maniera eterodiretta decide cosa fare – dove il migrante in questi luoghi narrati diventa quasi un’appendice di un sistema che di sicuro non è il suo progetto migratorio iniziale – mentre si trascurano, ovvero non si riconoscono, tutte quelle comunità meticce oramai strutturate nel nostro Paese, nelle quali siamo immersi e con le quali interagiamo quotidianamente, fatte di vecchi e nuovi residenti. Peggio, si parte dall’assunto di contrastare lo spopolamento in atto in molti luoghi del nostro Paese – dunque dall’intuizione di azionare politiche di ripopolamento – attraverso i migranti quali beneficiari indiretti delle provvidenze economiche erogate dal sistema nazionale di accoglienza – dunque dallo Stato – e non si tiene in alcun conto la valorizzazione dell’interazione possibile che supera ogni ipotetico processo di integrazione.
Così stanti le cose, però, si parte da un’esigenza autoctona e non dal modello migliore possibile. È evidente che, se gli italiani hanno lasciato questi luoghi, un motivo ci sarà stato. C’è da chiedersi se questo sia stato rimosso prima di provvedere al ripopolamento con gli stranieri – così come si fa con il ripopolamento faunistico, perché tale mi sembra – oppure se li mettiamo qui a prescindere perché modelli inventati in competizione tra loro dagli stilisti dell’accoglienza hanno disegnato e tagliato questi tessuti urbani per rispondere anche alle loro esigenze economiche, demografiche e politiche, che poco o nulla implicano a volte di contro con l’accogliere, offrire, donare a prescindere e non in cambio di un ritorno economico che a volte alimenta soprattutto i locali e non già i migranti come si racconta. Inoltre, questi modelli sono capaci di autosostenersi – ovvero quando finiranno le somme destinate alla prima come alla seconda accoglienza – sapranno questi luoghi reggere e sostenere i sistemi di cui si fanno portatori?
In realtà è proprio il paradigma sui luoghi ritenuti dell’accoglienza a risultare sbagliato, inappropriato, scientificamente non corretto, concorrendo ad alimentare un razzismo crescente che identifica come uno spreco di risorse quelle forme di business sui migranti, trasformate poi, nell’incapacità di reazione immediata dell’antirazzismo nel business dei migranti da parte di movimenti xenofobi – e la differenza non è di poco conto. Anzi tutt’altro.
Siamo così passati dal manipolare presunte differenze tra gli uomini per il solo colore della pelle al cambiare colore dei governi di molti Paesi, travisando milioni di uomini e donne private di spiegazioni istantanee come il nostro tempo attuale ci chiede.
La capacità di persuasione, come il suo contrario, è infatti determinante nella lotta per la conquista dei giudizi e delle opinioni degli altri che ha strutturato in maniera intollerante un pensiero nazionale, diventato una forma di razzismo a prescindere, che si esalta e sublima nel rinfacciare: “la pacchia è finita”, dimenticando di chiederci però, se, e quando è iniziata.
Ma soprattutto a favore di chi?

Come è nata l’idea di questo libro?
Nasce dalla rinnovata consapevolezza che per evitare un sempre più probabile corto circuito sociale, con uomini e donne, pezzi delle medesima umanità contrapporsi in nome di presunte differenze biologiche, o di appartenenza ad una parte di confine piuttosto che dall’altra necessario è fornire ogni utile strumento chela conoscenza ci offre per decodificare il mare agitato dei luoghi comuni e delle conoscenze di seconda mano.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà di terminare questa mio libro, è stata purtroppo dettata dalle continue involuzioni giuridiche in danno delle popolazioni migranti, che mi riportavano ogni volta a dovere tristemente aggiornare talune considerazioni e in conseguenza di ciò dell’aumento delle diverse forme di razzismo manifesto e non più malcelato.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento sono Zygmunt Bauman e Pierre Andrè Tguieff.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in Calabria, ma per il lavoro fatto fino a qualche mese fa mi ha portato a viaggiare molto in Italia, ed anche in alcuni Paesi in via di sviluppo, così come vengono ancora definiti.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Portare avanti le mie ricerche nel campo della geografia delle migrazioni e delle rotte migratorie, e perché no, addirittura portare in scena qualcuna delle mie opere letterarie.
Lascia un commento