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Italia, febbraio 1959.
A Portoalto, un piccolo borgo incastrato tra le vette delle Alpi Venoste, i morti del cimitero risorgono alle prime luci dell’alba, spazzando via come un uragano la placida routine degli abitanti. L’evento sembra in qualche modo collegato a un fatto di sangue avvenuto a inizio secolo, narrato tra le pagine del diario di un vecchio prete accusato di omicidio.
Inizia da qui l’odissea di un gruppo di uomini e donne destinato ad affrontare un orrore che va al di là di ogni immaginazione, un orrore che raggiungerà il suo culmine con l’arrivo di una figura inquietante e misteriosa, un essere mostruoso che si aggira indisturbato tra le case e sembra non temere i vivi né i morti.

Andrea aprì gli occhi. Il cuore martellava veloce nel petto, ma non sapeva spiegarsi il perché. Girò lo sguardo verso la finestra. Un filo luminoso correva tutto intorno al telaio e rischiarava debolmente la stanza. Era giorno, ma non avrebbe saputo dire che ora fosse. Tese l’orecchio. Nessun rumore giungeva dall’esterno, tranne che qualche colpo sordo in lontananza, il suono di mani nude che percuotevano il legno. Sdraiato sulla coperta ascoltava il ticchettio della stufa, le braci quasi spente, lo scricchiolio delle travi del soffitto e il gocciolio della neve sul tetto che si scioglieva. Lo scricchiolio aveva un ritmo costante, ripetitivo, come un orologio.
Teresa dormiva ancora al suo fianco, il viso rivolto al bancone, la coperta fin sopra il naso e schiacciata contro le orecchie. Alzò una mano per accarezzarla, ma ci ripensò. Decise di non interrompere quel sonno tranquillo. Una volta Davide Fermi gli aveva spiegato che dormire bene rafforzava la memoria e ricablava le sinapsi del cervello. Dio solo sapeva se ne avevano bisogno.
Si alzò cercando di non far rumore e si diresse alla finestra. Sollevò un angolo della tenda e sbirciò all’esterno. Una fitta nebbia avvolgeva ogni cosa. Il sole era un cerchio smorto sopra le case. Doveva essere all’incirca mezzogiorno. Si rimproverò per aver sprecato così tante ore di luce. Decise di svegliare gli altri.
Tornò da Teresa e la scosse piano. Lei mormorò qualcosa di incomprensibile e scomparve del tutto sotto la coperta.
– Ehi – sussurrò Andrea.
La coperta scese un pochino e due occhi rovistati dal sonno sbirciarono fuori.
– Ciao – disse Teresa.
– È tardi.
Lei si alzò a sedere di scatto. La coperta finì in fondo ai piedi.
– Quanto abbiamo dormito?
– Credo sia mezzogiorno.
– Dovevi svegliarmi prima.
– Anch’io sono in piedi solo da qualche minuto. – Indicò con un cenno della testa la porta che dava alla stalla. – Anche di là sono ancora nel mondo dei sogni.
Teresa si alzò in piedi, frastornata. Si stiracchiò allungando le braccia verso il soffitto. I piccoli seni premevano spavaldi contro la lana del maglione.
Lo guardò.
– Ho una sete pazzesca.
Andrea versò un bicchiere d’acqua e glielo porse. La osservò mentre beveva. Le labbra erano visibilmente gonfie, più carnose, forse a causa del vino bevuto la scorsa notte. Si rivide nell’atto di abbracciare quella figura longilinea e avvertì distintamente qualcosa risvegliarsi in mezzo alle gambe. Sentì che arrossiva. Si versò a sua volta dell’acqua.
– Vado a svegliare gli altri – disse Teresa.
Attraversò il negozio e scomparve nel ripostiglio.
Andrea posò il bicchiere sul bancone e tornò alla finestra.
Una vacca binda gli sfilò davanti sbucando dalla nebbia alla sua sinistra come un’enorme creatura degli inferi. L’incedere era lento, dinoccolato, piegava le zampe con difficoltà. Le mammelle erano un groviglio di carne e sangue. Si lasciava dietro una striscia rossa sulla neve. Lo sguardo ottuso dell’animale guizzava ripetutamente verso l’alto e poi in basso, sulla strada, un movimento meccanico, come se l’animale soffrisse di un disturbo del sistema nervoso. La vacca superò lo spiazzo di fronte al negozio, sostò in prossimità dell’ingresso della casa della signora Treforti e poi svanì di nuovo nella nebbia.
Udì singhiozzare alle sue spalle.
Si girò e vide Teresa che lo fissava sconvolta. Nella penombra della stanza i suoi occhi erano due cerchi neri infossati. Pallida come la neve, si premeva una mano sullo stomaco e l’altra sulla bocca per soffocare i gemiti. La guardò, lì in piedi, le ginocchia piegate, la schiena curva, i capelli scarmigliati. Ad un tratto Teresa pareva una bambina di dieci anni, in preda al terrore allo stato puro.
Andrea tratteneva il respiro. Il cuore riprese a martellare nel petto a gran velocità.
Qualcosa non andava per il verso giusto.
– Ehi – disse. Allargò le braccia, per accoglierla. – Che ti succede?
Teresa non si mosse, il corpo snello scosso dai singhiozzi, la mano sempre a coprire le labbra.
Andrea le girò attorno ed entrò nel retrobottega.
La porta della stalla era socchiusa. Ora lo scricchiolio del legno delle travi era perfettamente distinguibile. Ritmico. Ripetitivo.
Spalancò la porta. I cardini arrugginiti cigolarono.
Il cavallo era sdraiato sull’alcova di paglia.
Un piede sospeso nell’aria sfiorava l’orecchio dell’animale, avanti e indietro, e questi agitava il muso come per scacciare delle mosche fastidiose. Eva ed Egisto si erano impiccati alla trave centrale, quella su cui faceva perno il solaio, la più grossa e dall’aspetto più solido. L’avevano fatto durante la notte, nel più assoluto silenzio. Erano morti ed erano tornati. Ad una distanza di un metro l’uno dall’altro, si divincolavano sospesi a cinquanta centimetri da terra. Le facce erano bluastre, le occhiaie due cerchietti di fuliggine, i globi oculari due perle umide sporgenti, la lingue vermiglie come grossi e lucidi vermi. La frizione delle spesse corde annodate al trave era la fonte dello scricchiolio.
Notò due ceppi di pino ribaltati sotto i corpi sospesi. Sembravano due cani morti.
I cadaveri non emettevano alcun suono. Eva lo guardava dall’alto della sua postazione. Le gambe saettavano smuovendo l’aria che odorava di sterco, la lingua gonfia roteava nella bocca, spingeva in avanti, nella sua direzione. Ogni più piccola porzione del corpo morto si protraeva nell’atto di raggiungerlo. Egisto mirava al cavallo con altrettanto slancio. Le mani grattavano l’aria nel tentativo di ghermirlo, senza riuscirci. Il cavallo palesava il più totale disinteresse.
Andrea arretrò di qualche passo, finendo per sbattere contro Teresa, alle sue spalle.
Lei lo fissava con occhi supplichevoli.
– Dobbiamo tirarli giù? – chiese.
Andrea ci pensò su.
– Sì – rispose.
Tornò nel negozio, seguito dalla ragazza. Aggirò il bancone e afferrò dalla carriola un picchetto con il manico di legno.
– Rimani qui, per favore – le disse. – Faccio da solo.
Teresa obbedì. Andò alla finestra e si sedette sul pavimento, la schiena contro il muro, le braccia a circondare le gambe raccolte.
Chiuse gli occhi.

Come è nata l’idea di questo libro?
Ho visto Zombie di Romero all’età di otto anni e da allora i morti viventi sono diventati la mia ossessione. “Risorgemia” nasce venticinque anni fa, dopo una vacanza in Alto Adige. È rimasto nel cassetto ad ammuffire fino all’anno scorso, quando, durante il lockdown l’ho ripreso in mano.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La difficoltà più grande è stata riadattare il linguaggio a distanza di tutti quegli anni dalla prima stesura.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento sono i maestri dell’horror contemporaneo: Stephen King, Clive Barker, Joe Lansdale, Ray Bradbury. Ho scoperto negli ultimi anni tanti bravi scrittori horror come Paolo Di Orazio, Luigi Musolino, Prevedoni, Manzetti.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in provincia di Vicenza, in un paesetto montano.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto ultimando un nuovo romanzo e nei prossimi mesi uscirà un racconto lungo.
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