
Edito da Nulla Die Edizioni nel 2021 • Pagine: 145 • Compra su Amazon
Fronte Russo, gennaio – settembre 1943.
Un treno armato della Regia Marina riceve l'ordine di spostarsi dalla base navale di Jalta al fronte del Don, ma prima che giunga a destinazione, l'armata italiana ivi schierata è già stata annientata e il treno resta fermo in una sperduta stazioncina.
L’ordine è di aspettare nuovi ordini ed essere sempre pronti a partire: l’immobilità totale in attesa del nulla, un treno con cento marinai a bordo dispersi come naufraghi sulla terraferma.
In un giorno di gennaio, il comandante del treno – il tenente di vascello Ettore Piola – s'imbatte in una ragazza russa: gli ricorda che un ufficiale di marina ha il dovere di salvare un naufrago e lo prega di salvarla, perché è in pericolo di vita allo stesso modo di un naufrago in mare.
La ragazza dice di chiamarsi Svetlana e di essere una studentessa di conservatorio; in seguito si dimostrerà una violinista di talento. Nei mesi che seguono l'ufficiale le chiede molte volte chi sia e perché sia in pericolo e se sia ebrea; ma ottiene solo risposte evasive.
Il potere grande o piccolo che sia, la manipolazione e la fascinazione, l'inganno e la reticenza, dominano i rapporti fra il comandante e Svetlana, i rapporti fra il comandante e gli altri ufficiali presenti sul treno e gli ufficiali tedeschi acquartierati nella stessa città, i rapporti fra il comandante e l’abile servo che fornisce cibo e vestiti alla ragazza. Per di più, i rapporti fra il comandante e Svetlana sono resi evanescenti dalle difficoltà della lingua, si parlano solo in francese, una lingua straniera per entrambi, che l’ufficiale conosce in modo approssimativo.
In quei mesi, la guerra divampa in una carneficina immane, gli orrori si susseguono, sommandosi l'un l'altro, senza che alcuno ne esca assolto. L’equipaggio del treno non partecipa ad alcun fatto d’arme, gli orrori della guerra sono ben presenti, ma sono visti da lontano, sono evocati e narrati. In un contesto del genere, la salvezza non deriva da un gesto di pietà: è solo espressione del potere e figlia di una casualità eccezionalmente fortunata.

Un salottino dalle pareti di un tenue verde acqua; al centro un tavolo di noce e quattro sedie foderate di velluto; un divanetto appoggiato a un lato della stanza. Su una parete un dipinto, una natura morta che raffigura un mazzo di fiori.
La finestra ha le persiane chiuse e i vetri aperti, il salottino è in penombra. Dalle lamelle filtrano strisce dorate, una calda e scintillante luce d’estate. E filtra lo sciabordare delle onde, che s’infrangono placide contro la scogliera su cui sorge la casa.
Nel salottino c’è una ragazza: è seduta sul divano, indossa un abito bianco, sorride dolcemente, legge un libro. È una studentessa di liceo e la sua bellezza affolla i sogni di tutti i suoi compagni di scuola.
Un qualunque giorno d’estate, in un qualunque borgo marinaro della Liguria o della Toscana o della Campania o della Sicilia. Il salotto di una casa arroccata su un promontorio proteso nel Mediterraneo, come la prora di una nave.
È tutto un sogno: l’intimità, il calore, la tenerezza, l’estate, il Mediterraneo.
La plancia di comando è un piccolo vano quadrato, non c’è nulla che evochi l’estate e il Mediterraneo. Le pareti sono di metallo, verniciate con uno smalto di un tenue verde acqua, al centro è sistemato un tavolo di metallo con quattro sedie anch’esse di metallo. Su una parete è appesa una carta geografica delle regioni sovietiche affacciate sul Mar Nero, su un’altra si apre un oblò serrato da un portello, che non lascia vedere nulla di quanto avviene all’esterno. L’unica luce proviene da una plafoniera déco di vetro smerigliato. Il riscaldamento è acceso a tutta forza ma non riesce ad aver ragione del freddo gelido e umido.
Il termine “plancia di comando” è un vezzo di quattro ufficiali di marina: il termine esatto è “sala comando”, visto che non si tratta di una nave ma di un treno blindato della Regia Marina destinato alla difesa costiera.
Al tavolo sono seduti tre ufficiali: il sottotenente di vascello Luigi Fontana, il guardiamarina Francesco Santulli, il guardiamarina Giovanbattista Zorzi. Sono tutti cerei per il freddo. Ognuno di loro ha qualche foglio e una penna sul tavolo, anche se non ci sarà nulla da scrivere. Solo il guardiamarina Santulli giocherella con la penna e disegna su un foglio una sorta di frontespizio, fatto di ancore, spade incrociate, elmi romani, corone di quercia e di alloro. Le chiacchiere cadono nel vuoto di un’attesa che sembra infinita.
A metà mattina arriva finalmente il comandante del treno blindato, il tenente di vascello Ettore Piola, esausto dopo tre giorni di viaggio fra treni, camion, carrette trainate da macilenti cavalli.
Scambi di saluti, più amichevoli che militari. Il consiglio di guerra – o meglio, la riunione – può iniziare. La delusione s’impone, con passo lento, sicuro, inarrestabile.
«Hai parlato con il comandante Mimbelli? Quali sono gli ordini? Hanno confermato che dobbiamo riunirci all’8^ Armata sul fronte del Don?».
«No, non ho parlato con lui, non l’ho nemmeno incontrato. Anzi, non sono neanche arrivato a Jalta, mi hanno fermato prima, a Sebastopoli. Ho parlato con un ufficiale del comando italiano, un certo Costantino Calvi, non lo conoscevo. L’8^ Armata forse rientra in Italia, l’ordine di unirsi è revocato».
«Ma cosa è successo? Torniamo in Italia? Abbiamo vinto la guerra e nessuno ce l’ha detto?».
No, il comandante Piola spiega con voce assente che l’8^ Armata si sta ritirando per riorganizzare il contrattacco contro i russi, almeno questa è la versione ufficiale. Ma Calvi, che sembra abbia delle buone conoscenze nel servizio informazioni, ha detto che in realtà l’Armata Rossa è riuscita a compiere uno sfondamento spaventoso sul fronte del Don annientando quattro armate dell’Asse; subito dopo la vittoria sul Don ha fatto convergere tutte le forze disponibili su Stalingrado e lì ha accerchiato l’armata tedesca del feldmaresciallo von Paulus. Almeno così sembra, ammesso che Calvi sia davvero ben informato.
«Insomma, stiamo perdendo la guerra, è così?».
«Se è vero quello che ha detto Calvi, per noi la guerra è persa, ma è meglio non dire nulla all’equipaggio».
Fontana, in qualità di comandante in seconda, prende la parola e fa alcune domande sensate, altre sono di una tale ovvietà che le farebbe anche una recluta.
«Riassumiamo: non andiamo sul Don, ma quali sono gli ordini? Torniamo a Jalta dove eravamo prima? Lì continuiamo a pattugliare la costa contro eventuali sbarchi russi? Siamo sul Mar Nero da maggio del ‘42 e non abbiamo mai visto uno sbarco dei russi. Ci spostiamo verso est, alla base avanzata di Feodosia? Torniamo indietro verso ovest, a Sebastopoli? Più indietro ancora, a Odessa? Torniamo in Italia? Andiamo da qualche altra parte? A fare cosa?
Oppure restiamo ancora qui a Ekateringrad?».
Il tenente di vascello spiega che l’ordine è di aspettare altri ordini. Il treno deve essere sul binario numero 1, pronto a partire, come da un mese a questa parte.

Come è nata l’idea di questo libro?
Per tutta la mia vita da adulto – dalla laurea ad oggi – ho sempre scritto per lavoro e continuerò a farlo per molti anni ancora, ma tutti quegli scritti sono contratti e pareri legali, che nel migliore dei casi possono essere un esercizio di scrittura in un corretto italiano, ma non hanno nulla a che fare con la narrativa. Ho scritto il mio primo romanzo fra il 2015 e il 2016, ma dopo averlo terminato non mi convinceva, mi sembrava che lo scavo psicologico dei personaggi fosse andato troppo oltre e avesse condotto a una trama eccessivamente intricata. Ho deciso di lasciarlo decantare e mi sono dedicato a un secondo romanzo, Salvare i naufraghi. L’idea era quella di riprendere alcuni temi già affrontati nel precedente manoscritto, ma d’inquadrarli in una cornice storica che speravo potesse rendere più agevole la lettura. Mi rendo conto che può sembrare un paradosso, ma ho cercato di mettere la storia al servizio della psicologia. Probabilmente sono riuscito a raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. L’ho presentato ad alcuni concorsi letterari ed è risultato 2° classificato al concorso Subiaco Città del Libro 2020. Quindi, l’ho inviato a diversi editori e alla fine le Edizioni Nulla Die l’hanno pubblicato.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho scritto Salvare i naufraghi molto rapidamente nel 2017, in dieci mesi: scrivere è una delle pochissime cose che mi riesce spontanea. Inoltre, ho scelto di ambientare il romanzo durante la seconda guerra mondiale: la storia militare è una disciplina che mi appassiona da molti anni, ho letto molti saggi e riviste specialistiche e ciò mi ha ovviamente agevolato nella scrittura. Ma ammetto di essere molto critico nei confronti di quello che scrivo e una volta terminata la prima stesura, ho continuato a leggere e a correggere il manoscritto infinite volte. Il tempo speso per le modifiche è stato molto più lungo di quello che avevo dedicato alla prima stesura.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
In Salvare i naufraghi ho voluto creare un’atmosfera sospesa, raggelata: i modelli sono Il deserto dei Tartari di Buzzati e Cuore di Tenebra di Conrad. Credo che su questa scelta abbia pesato la mia passione per i grandi romanzi fra ‘800 e ‘900, che è stata una delle eredità degli studi al liceo. Ma rispetto a questi due modelli – entrambi molto stilizzati, soprattutto Il deserto dei Tartari ha un’ambientazione che è davvero senza tempo – ho voluto creare una cornice storica che fosse la più verosimile e realistica possibile. Ho citato due romanzi del secolo scorso e aggiungo un romanzo di questo secolo. Personalmente sono convinto che Le Benevole – scritto nel 2006 da Jonathan Littell – abbia segnato un punto di svolta nel romanzo storico di ambientazione militare: alla base c’è una cornice storica assolutamente rigorosa e verosimile, chiunque può incappare in un errore o anche solo in un refuso, ma dopo un’opera del genere uno scrittore che si cimenti nella narrativa storica non dovrebbe più permettersi ingenuità. Oltre a ciò, Littell ha creato un realismo talmente estremo da creare un effetto allucinatorio: è una prova di eccezionale bravura narrativa e non ho assolutamente tentato di emularlo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho diviso la mia vita fra Genova e Torino, due città che amo. Però voglio essere sincero: come accade a molti, la vita in una città piuttosto che di un’altra deriva qualche volta da una scelta ma più spesso da una mera casualità.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dopo la pubblicazione di Salvare i naufraghi ho ripreso in mano il primo romanzo che è rimasto nel cassetto per cinque anni, un romanzo che mi piace ma non mi convince e che per adesso ha il titolo di Reticenza. È un romanzo psicologico in senso stretto, giocato sull’incapacità dei personaggi di spiegarsi e capirsi, di provare alcuna empatia – laica o cristiana che sia – nei confronti degli altri, dei ruoli borghesi che sono una difesa e al tempo stesso un carcere. E poi ho sulla scrivania altri due romanzi che mancano del finale e soprattutto delle successive infinite correzioni: sarà un lungo lavoro.
Lascia un commento