Edito da Luca Uria Mulloni nel 2018 • Pagine: 108 • Compra su Amazon
Assaporare la vita attraverso i ricordi legati ai piaceri della tavola.
In una sorta di diario dalle pagine aromatiche, il lettore vive e rivive i passaggi fondamentali del vissuto dello scrittore, rispecchiandocisi, momenti scanditi dalle ricette dei piatti di un tempo ormai passato.
L’odore del caffè che risveglia la casa come la più delicata melodia, la colazione ruspante della nonna, la dolce merenda della mamma, i pasti veloci imposti dagli studi e dal lavoro. Chi non ha un ricordo legato a un profumo o a un sapore? Un excursus tra i sapori e le sensazioni dei luoghi dell’infanzia e delle successive fasi più sdrucciolevoli della vita, che si abbracciano in una primordiale armonia di sensi.
Penna vivace e gustosa quella di Uria Mulloni, a tratti poetica, grazie all’ispirazione che deriva dalle sue madeleine. Un esperimento culinario e letterario dove la cifra stilistica dell’autore trova la sua controparte negli ingredienti dei piatti della sua memoria.
Introduzione
Scrivendo questo breve libro ho voluto ripercorrere a ritroso la mia vita partendo dalla mia infanzia fino ad oggi per celebrare, attraverso alcuni momenti che ritengo più significativi, le tappe fondamentali della mia crescita.
Poiché la memoria gioca brutti scherzi quando si tratta di ricordare momenti lontani e soprattutto quando si tenta di ricostruire lo scenario del proprio passato con il senno di poi, con una visione del mondo e delle persone ogni volta sempre più diversa e distorta a causa dell’evoluzione che ci porta a crescere e a vedere il mondo secondo differenti prospettive, ho voluto fotografare il mio passato per fissare ed inquadrare alcuni episodi che raccontano il mio vissuto, cercando di cogliere i dettagli che maggiormente hanno segnato la mia evoluzione.
Ogni capitolo si conclude con la trascrizione di una ricetta, che in qualche modo riassume in pochi ingredienti ed in semplici passaggi le emozioni legate a quel periodo. In fondo, ogni momento vissuto con i suoi ingredienti, passaggi, tempi, costituisce una piccola ricetta di vita.
Ogni aneddoto raccontato ha un sapore, ogni ricordo contiene degli ingredienti che ne tramandano le sensazioni. Trascriverlo, così come si trascrive una ricetta in cucina per poter tramandare di generazione in generazione i sapori dimenticati nel tempo, serve per non dimenticare come ero, e come sono grazie al mio passato.
Bastano delle semplici ricette a rendere un piatto unico ed inconfondibile. Stravolgerle a volte rende un piatto originale, ma non sempre il risultato è garantito.
Come in cucina, così nella vita, può essere sufficiente fare i conti con il proprio passato, rispolverando le proprie origini e tradizioni, per scoprire che senza andare troppo lontano la felicità può essere già dentro noi stessi.
E ognuno ha il suo ingrediente segreto.
Capitolo 1
Se Dio avesse voluto che seguissimo le ricette non ci avrebbero dato le nonne
(Linda Henley)
∞ Infinito. Come l’universo di emozioni evocate dai ricordi, dalle esperienze vissute, dai rumori della tua città che sembra così grande quando sei ancora così piccolo.
Infinito come l’amore dei nonni, come il desiderio di crescere e di rincorrersi (questo faceva l’Ouroborus , che finiva per mangiarsi la coda in un percorso senza fine – ma potete semplicemente comprenderlo anche quando vedete il vostro gatto che si rincorre la sua di coda). Questo avvertivo, ancora bambino, ancora avvolto nelle coperte di flanella.
Se prendete il numero otto e lo sdraiate, ecco il simbolo corrispondente: un simbolo che rappresenta le cose senza limiti. L’infinito è un otto rovesciato. Se prendete invece un bambino dormiente con l’occhio semiaperto, ancora indeciso se proseguire il sogno dal quale si è temporaneamente allontanato facendo capolino nel mondo reale, che legge l’ora sulla sveglia digitale appoggiata sul comodino, vedrà un infinito rovesciato: il numero otto. Le otto di mattina. Ora di alzarsi.
Ecco che appena sveglio cominciano ad attivarsi i sensi: quelli che percepiscono le voci dei vicini che affacciati alla finestra parlano con i passanti, i rumori del vasellame dalla cucina che comincia a prendere posto tra i fornelli, sulla tavola, dentro la dispensa. Sono le otto e la cucina è già aperta. La finestra e le tende ricamate che filtrano le luci del giorno, il sole intenso illumina la città di Gorizia, le vie del mercato ed il fruscio dei giornali aperti dai pensionati sulle panchine del parco, i bar già pieni di saggi anziani che sembrano essere lì da secoli, santi bevitori.
Il morbido cuscino che al tatto avvolge come l’abbraccio di una nonna affettuosa, e poi l’odore delle lenzuola che evoca i rituali del bucato nei tempi antichi, il sapone di Marsiglia, le ceste dei panni accatastati, soffici e profumati.
Nella camera da letto si insinua l’odore del caffè. Ho cinque anni, sono ancora troppo piccolo per poterne apprezzare l’aroma, ma sufficientemente grande per associare quella forte fragranza al risveglio dei sensi, e al mondo che mi circonda già in fermento forse da qualche ora.
Fin qui tutto poetico. Ma siamo in alta Italia, vivo nella casa dei nonni, la tradizione gastronomica vuole sulla nostre tavole sapori forti e decisi. Anche questo è a suo modo poetico. Se non fosse che l’aria oltre che a trasportare fino alla mia cameretta l’essenza del caffè trasporta anche quello della brovada , della selvaggina o del cotechino infornati già alle prime luci dell’alba. E forse anche del caffelatte che mi aspetta in mezzo a questo tripudio di sfide olfattive.
A questo punto sono indeciso se affondare le narici nel cuscino ed aspettare che una tromba d’aria spazzi definitivamente da dentro la casa quelle robuste essenze, o se farmi coraggio ed entrare in cucina. Propendo per la seconda.
Grattandomi la testa, ed atteggiandomi ad intenditore buongustaio con il mento un po’ alto e le narici protese quasi a catturare le particelle odorose, scendo dal letto, percorro i corridoi del gusto (direbbe così qualche virtuoso), mi affaccio alla cucina e con gli occhi ancora un po’ chiusi e con la voce rauca mi annuncio.
-Buongiorno nonna, cos’hai preparato di buono oggi? -.
Falso. In realtà sto trattenendo il respiro nell’attesa di individuare il pacco dei biscotti che sulla tavola si mimetizza tra i vari sacchetti della spesa, ed infilarci naso e bocca come si fa con i sacchetti di carta, quando si è in iperventilazione ed occorre abbassare il livello di ansia riducendo i respiri e normalizzando l’ossigeno nell’organismo. Praticato dagli ansiosi. E da chi come me vorrebbe fare colazione con latte e biscotti e non con verza e patate.
Mia nonna Teresa (o Ita, come la chiamiamo tutti affettuosamente) è un gendarme che al canto del gallo non si fa trovare impreparata: si adopera per assettare casa, fare la spesa al mercato, acquistare l’ultimo numero della sua rivista preferita (settimanale dedicato alla cucina, ma anche alle telenovele, i programmi tv, le cronache scandalistiche, insomma tutti quegli argomenti di cui le nonne si cibano nelle loro sieste pomeridiane e preferibilmente in assenza di nipoti), e tutto questo nel tempo di una stropicciata d’occhi da quando la sveglia suona a quando coraggiosamente mi siedo al tavolo della cucina per onorare la mia tazza di latte fresco – anche questo raccolto dal contadino qualche minuto prima.
Quando mio nonno era ancora vivo, il loro programma mattutino veniva condiviso la sera prima, come solo due persone che hanno superato gli anni grigi della guerra possono ancora permettersi di fare, e la mattina si dividevano i compiti con precisione e regolarità da manuale (frutta e verdura, compito del nonno, con rapida sosta al tabacchino per il rifornimento di tabacco da pipa. Carne e pesce al mercato, compito della nonna. Poi si ritrovavano per sbrigare le ultime commissioni, ed eccoli in casa entrambi, con il grembiule da cucina lei, con la sua amata pipa e le parole crociate lui. La presenza del nonno si avvertiva, attraverso la balsamica scia lasciata dal rituale della rasatura appena sveglio (e questa era più forte ancora del caffè e di tutti gli aromi che provenivano dalla cucina) ed attraverso un impalpabile e costante presenza di un uomo tuttofare che si adoperava per essere presente sempre e comunque, mai invadente, sempre attento ed affettuoso, con la soluzione pronta tra le mani.
Sono ancora indelebili nei miei ricordi le passeggiate ai giardini pubblici: io che dovevo tendere il braccio in alto per dargli la mano, e lui che mi guidava attraverso i filari degli alberi secolari sopravvissuti a due guerre, lungo le rive del fiume Isonzo teatro di numerose battaglie e palco della conquista della città da parte degli Italiani; io che ammiravo i monumenti ai caduti, inconsapevole del patriottismo che emanano e raccontano ancora oggi a vecchi e giovani, ma conquistato da quel fascino che solo un soldato ed una bandiera tricolore al vento riescono a regalare agli occhi meravigliati di un bambino.
Ogni tanto mia nonna lo ricordava, mentre era affaccendata nell’affettare una cipolla o nel farcire il polpettone che da lì a qualche ora sarebbe stato pronto e servito su un piatto da portata. Mi guardava mentre facevo colazione e mi accarezzava la guancia, chiedendomi se avevo dormito bene. Io nel frattempo pensavo che sì, il nonno ci manca tanto, sì ho dormito molto bene avvolto da quelle morbide lenzuola di flanella, e sì ancora devo inzuppare il mio primo biscotto nella ciotola del latte che il mio cuore è già così colmo di ricordi ed il mio naso così saturo dai forti profumi delle pietanze in cottura.
Prima che le domandassi quale esercito beneficerà di tutto quel cibo che sta circondando la mia tazza, mi anticipava:
-Oggi ci sono gli zii a pranzo. Gli ho preparato cotechino e repa! Anche se vanno matti per le sarde in saor , però ancora non è il momento; devono ancora finire di macerare per bene, sono al fresco in cantina nelle latte di alluminio con l’aceto! -.
“Fortuna”, penso io. Altrimenti anche le sarde avrebbero contribuito al connubio di aromi che nel frattempo si sono sposati con le mie narici.
La repa non è per tutti. Più che una pietanza, è un’esperienza, soprattutto appena svegli. Brovada in friulano, rapa se vogliamo generalizzare, anche se di un tipo particolare (bianche, con le estremità viola). Nelle montagne del Friuli Venezia Giulia, soprattutto in Carnia, queste rape vengono scottate per qualche minuto per poi essere conservate in delle grosse casse di legno all’aperto. La preparazione comune prevede la fermentazione nella vinaccia (trapa in friulano), infatti si dice che abbia un legame stretto con il vino: quando finiscono i tempi della vinificazione, cominciano i tempi della macerazione della brovada, preferibilmente in vinaccia di uva nera. Quando è finalmente pronta, dopo circa un paio di mesi, può essere affettata a julienne e pronta per essere cucinata. L’odore è pungente e acido da cruda, è sufficiente cuocerla con olio e alloro e tipicamente accompagna carni di maiale. Per chi se lo sta chiedendo, l’odore è pungente e acido anche da cotta.
Io nel frattempo finivo la mia colazione inodore. Anni dopo scoprirò che stavo godendo di un momento speciale e che non sarebbe più tornato. Se oggi torno a far visita a quella città di confine, così piena di storia, di ricordi, di momenti trascorsi durante la mia infanzia tra sapori e sensazioni, non riesco ad associarla a quel periodo, seppure immutata: piccola ma grande nella sua storia, raccontata dai nonni che per mano ti accompagnavano attraverso tradizioni e pazienti abitudini.
Posso cercare di ricostruire il ricordo come fosse un puzzle, passando da una cantina o in mezzo alle vigne del Collio, e guardando scorrere le acque dell’Isonzo rivivere quei momenti in cui tutti i sensi erano avvolti da un’atmosfera magica. La cucina, i luoghi, i nonni, i monumenti, la propria infanzia, la storia, sono tutti pezzi del puzzle.
Un salto nei luoghi della memoria, che posso solo provare a fare mentre a fuoco lento, con olio e alloro, cucino seguendo la ricetta della nonna. Un odore pungente e acido pervade nuovamente l’aria. Riaffiorano i ricordi, e si rincorrono. All’infinito.
Ricetta musetto e brovada (Musèt e brovade)
Servono due musetti. Il musetto è un tipo di insaccato della tradizione friulana, che a differenza del cotechino contiene tagli di carne provenienti dal muso del maiale insaporiti con sale, pepe, vino, noce moscata, cannella, coriandolo, peperoncino. Il tutto viene amalgamato ed insaccato in un budello naturale, asciugato e stagionato per circa due mesi.
I musetti vanno lessati per circa un’ora e mezza. Si consiglia di cambiare l’acqua di bollitura per un paio di volte durante la cottura. Parte di quest’acqua potrà essere utilizzata per il brodo di cottura della brovada.
Far soffriggere nel frattempo una cipolla a fette sottili, assieme ad un filo di olio di oliva. Aggiungere mezzo chilo di brovada, e due o tre foglie di alloro. Bagnare con il brodo di cottura del musetto e cuocere a fuoco lento con il coperchio per un’ora e mezza. Versare di tanto in tanto un po’ di brodo per non far asciugare troppo le rape durante la cottura. Unire successivamente i musetti, e cuocere per altri trenta minuti.
Servire il musetto tagliato a fette insieme alla brovada.
Buon appetito!
Come è nata l’idea di questo libro?
Inizialmente il progetto doveva nascere come costola del blog di cucina senza glutine che curo con mia moglie (nostra figlia è celiaca ed entrambi ci dedichiamo con amore nella preparazione di piatti e prelibatezze di ogni tipo), a favore dei soggetti intolleranti che abbiano necessità di scoprire ricette e suggerimenti utili per una corretta alimentazione priva di glutine. Durante la stesura, nel recuperare le ricette della tradizione, ho avuto l’occasione di riscoprire e rispolverare il mio passato, annotando non solo ingredienti ma anche ricordi. È così che ho deciso di rivisitare alcuni episodi della mia vita in chiave gastronomica, abbandonando temporaneamente il progetto del ricettario pur mantenendo il legame con la cucina, constatando come i sapori e le sensazioni possano intersecarsi naturalmente con i ricordi lasciando tracce indelebili dentro la nostra memoria.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
L’ho scritto in due mesi, il difficile è stato filtrare tutti i ricordi e gli aneddoti di vita vissuta che avrei voluto raccontare, scegliendone solo alcuni.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento sono diversi e spaziano dalla filosofia alla narrativa, dalla saggistica alla poesia. Prediligo le letture cosiddette illuminanti, quelle che ti lasciano un senso di vuoto da colmare ogni volta che le porti a termine.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Progetti ne ho tanti, alcuni legati alla cucina, altri più vicini a quello che è il mio lavoro. L’ispirazione porta risultati inaspettati, che siano pagine di un libro o ingredienti di una ricetta. Con questo libro è stato bello fondere insieme le due cose, chissà che non accada ancora.
Conosco personalmente Luca, avendo condiviso assieme i banchi di scuola, nei lontani anni ’80.
Quindi è stata una piacevole sorpresa, ritrovarlo, dopo tanto tempo, sotto la duplice veste di narratore e chef. Che dire di questo suo primo libro (e speriamo non ultimo, vogliamo ancora leggerlo!)? Lettura molto, molto piacevole, piena di ricette e aneddoti, che hanno a che fare col palato, col cuore e con la memoria. Memoria di un ragazzo, nato coi profumi della cucina casalinga del nordest italiano nelle narici, che si sono andati a mischiare con altri scodellamenti, in virtù anche di una giovinezza trascorsa nella Toscana, sua terra d’adozione, e ancora suo attuale rifugio.
Consiglio caldamente la lettura di questo suo libro a tutti!, fra le sue pagine vi troveranno quel calore di un’Italia casalinga, pulita e allegra. Che è l’Italia che rivorremmo indietro tutti!
grazie Simone!