Edito da Edizioni Ensemble nel 2019 • Pagine: 116 • Compra su Amazon
Sara e Lucia si conoscono da oltre trent’anni; sono donne apparentemente forti e indipendenti, “in carriera”. Gli impegni di lavoro, un matrimonio fallito alle spalle per Sara e una figlia avuta a diciassette anni per Lucia, non impediscono alle due amiche di incontrarsi ancora ogni tanto per fare shopping, e soprattutto per parlare di uomini. Sara ha conosciuto Gilberto, Lucia ha appena incontrato Giorgio: tra confessioni e autoinganni, le due donne provano a tracciare i contorni dei rispettivi incontri amorosi. Raccontano un amore dei nostri tempi, nato per caso, portato avanti per passione, per gioco, forse anche per solitudine; un amore che si lascia narrare soltanto in prima persona, come una pagina di diario o una lettera senza risposta. Nella speranza che la somma di tutti i punti vista in una relazione, la somma di tutti gli egoismi in causa, di tutte le confidenze, possano infine rivelare alle due amiche ormai mature la vera natura dell’amore: non l’amore per quello che sarebbe potuto essere, ma l’amore per quello che è stato, se questo è amore.
Quella sensazione indefinibile di mancanza; sì, mi mancava qualcosa ma non avrei saputo dare un nome al qualcosa. Ero stata abbandonata da mio marito solo poco tempo prima ed era ovvio pensare che quello che mi mancava era un uomo. Ma non ero convinta che fosse così; forse senza marito e anche senza figli ero arrivata al fatidico momento della resa dei conti con se stessi, quando uno tira la riga e prova a sommare e scopre che la colonna dell’avere risulta più scarsa della colonna del dare. Insomma, non lo so cosa mi sentivo, ma ora so per certo che ero nel momento in cui è più facile fare sciocchezze, in cui si è disposti a credere a tutto, a credere di tutto. È stato allora che l’ho conosciuto.
Gloria mi aveva trascinato a quella cena e io non ci volevo andare. Ero stanca quella sera, avevo avuto una giornata pesante, in ufficio tirava un’aria di crisi, di ristrutturazione.
Gloria mi aveva pregato perché andassi anch’io; anzi, aveva insistito proprio perché avevo bisogno, diceva lei, di distrarmi un po’ da quelle beghe.
Gloria vive fuori dal mondo reale. Per forza, il marito è carico di quattrini e per lei lavoro significa qualche hobby divertente da fare ogni tanto quando proprio non se ne può più di cene, manicure, partite di bridge e simili fatiche. La sua ultima trovata per rilassarsi dai quotidiani impegni gravosi era la scuola di ceramica; tra lezioni, mostre, sue e di altri, era già tanto se riusciva a trovare il tempo per frequentare i vecchi amici. Parole sue. Per cui dovendo andare a cena da suoi conoscenti preferiva che io l’accompagnassi.
L’accompagnai e mi pentii subito. Conoscevo poca gente e quella era la classica cena in piedi, con un mucchio di persone che giravano senza sosta con le mani occupate da piatti e bicchieri e posate e la bocca occupata da cibi e chiacchiere. Una vera bolgia, dove non sai mai dove metterti, con chi attaccare discorso; ti senti perennemente fuori posto. Vagavo letteralmente tra le stoviglie, inciampavo ovunque alla disperata ricerca di un cantuccio in cui trovare pace e un sedile qualsiasi su cui posare la mia persona, possibilmente accompagnato da un tavolino in cui appoggiare momentaneamente qualcuna delle stoviglie di cui avevo piene le mani.
Il cantuccio lo trovai infine in cucina, dopo aver verificato che il salotto era occupato, il soggiorno era occupato, lo studio del padrone di casa era occupato, l’ingresso e il disimpegno anche, e sospettavo persino le camere da letto. La casa era grande ma il mucchio di amici lo era altrettanto. La cucina, invece, era libera. Era una grande cucina, con due pareti completamente arredate e un angolo con una panca e un graziosissimo tavolino. Era grande, confortevole, silenziosa e vuota. Beh, quasi vuota, perché al tavolo, comodamente seduto sulla panca, c’era un tizio che mangiava allegramente una cena imbandita con tutti i crismi, tovaglietta, piatti, posate, vino e acqua. Aveva davanti, in piccolo, tutto il ricco buffet preparato dai padroni di casa e si serviva abbondantemente dai tre a quattro piatti in cui aveva concentrato tutto il possibile. Mangiava beato e tranquillo, con lo sguardo fisso sul piatto e un’espressione concentrata.
“Questo non mangia da un secolo”, pensai; “non si è nemmeno accorto di non essere più da solo”.
Mi sbagliavo su entrambe le cose.
«Si accomodi pure. Tanto non posso mangiare tutto questo ben di Dio da solo. Anche lei è in cerca di tranquillità?».
Sono sobbalzata. Sebbene avesse pronunciato quelle parole con lo sguardo sempre fisso sul piatto era evidente che si rivolgeva a me. Doveva essere per forza così, visto che c’ero solo io, a meno che fosse matto e parlasse da solo. “Forse parla nel cellulare”, questo pensiero mi folgorò la mente. Avevo scoperto da tempo che un sacco di gente parla in qualsiasi luogo con lo sguardo perso nel nulla, preferibilmente misurando gli spazi a larghi passi; i primi tempi li avevo scambiati per matti usciti dal manicomio ma poi avevo potuto constatare che si trattava di esseri cosiddetti normali che semplicemente parlano nel cellulare con un microfono e un auricolare praticamente invisibili. Ero ancora incerta se classificarlo come un matto canonico che parla da solo ma crede di parlare con qualcuno o come un matto mediatico che parla da solo sicuro di parlare con qualcuno, quando alzò finalmente lo sguardo su di me e mi convinsi che non faceva parte di nessuna delle due categorie.
«Sto parlando proprio con lei. È inutile che continui a sbirciare dietro di sé per assicurarsi che non ci sia nessun altro. È proprio a lei che ho rivolto l’invito a dividere con me questo ricco buffet. Purtroppo» aggiunse senza darmi il tempo di ringraziare o replicare o sedermi, «tutta quella confusione di là mi dava ai nervi e ho cominciato a vagare di stanza in stanza in cerca di un po’ di pace finché ho trovato questo angolino confortevole e soprattutto silenzioso».
«Non vorrei turbare la sua tranquillità…» dissi apprestandomi a sedere di fronte allo sconosciuto.
«Vedo che, al di là delle belle parole, in realtà non ha tanta preoccupazione di turbare la tranquillità altrui: si è già seduta…».
«Mi scusi tanto» dissi inviperita, rialzandomi appena avevo pregustato un momento di riposo per le mie gambe indolenzite, senza poter contenere il sospiro che mi era sfuggito.
«Ma via, sto scherzando. Si sieda. Si sieda, alla buonora» disse alzando il tono di voce fino ad allora sommesso e assumendo d’un tratto un atteggiamento autoritario. E poiché rimanevo a mezz’aria mi prese per un braccio obbligandomi a sedere. «Si serva di quegli antipasti di verdure gratinate, sono eccellenti». E poiché continuavo a non reagire mi piazzò davanti un piatto vuoto e lo riempì di zucchine, melanzane, patate, cipolle e pomodori senza che riuscissi a dire né ai né bai.
Quella sera, quando tornai a casa dalla cena con Gloria mi sorpresi a pensare che una serata iniziata sotto i peggiori auspici si era risolta in un passatempo piacevole. Dopo l’iniziale sconcerto avevo trovato simpatico il mio occasionale compagno di un banchetto solitario in cucina; avevamo mangiato tranquillamente, avevamo chiacchierato tranquillamente. Da molto tempo non avevo trovato una compagnia maschile rilassante. Gli ultimi uomini che avevo frequentato dopo che mio marito mi aveva dato il benservito erano stati ossessionanti. Dovevo vestirmi in un certo modo, comportarmi in un certo modo, misurare le parole, gli atteggiamenti, insomma di tutto tranne che un relax. C’entrava certamente la maledetta fissazione delle mie amiche di trovarmi a tutti i costi un partner, un compagno, e se io mi lasciavo coinvolgere in tutti quegli armeggi evidentemente sentivo il bisogno, o il dovere, di assecondarle. E così a forza di doveri sociali non mi sentivo mai a mio agio, perennemente sotto osservazione. Quella sera, invece, mi sembrava che al mio occasionale compagno non interessasse un bel niente di me, voleva solo scacciare la noia di quella serata e farsi due chiacchiere in libertà. Avevo avuto la fuggevole impressione che anche lui cercasse una compagnia priva di doveri, esclusivamente per scambiare due parole senza impegni. Improvvisamente mi resi conto che anche gli uomini, e non solo le donne come avevo pensato fino ad allora, sono costretti a certi comportamenti. Ci si aspetta che in compagnia di una donna reagiscano secondo determinati cliché – il timido, l’aggressivo, il dongiovanni – e mai che possano rilassarsi un po’. Avevamo parlato del più e del meno, di chiacchiere senza importanza, e soprattutto senza darvi importanza, e ci eravamo lasciati come vecchi amici. Non ci eravamo nemmeno presentati e se alla fine la sua offerta di accompagnarmi a casa mi aveva messo sul chi va là – ecco, mi ero detta, era iniziato in modo inconsueto e va a finire che termina nel solito modo – il suo atteggiamento nei miei riguardi, piacevolmente indifferente, mi aveva rassicurato. Così mi aveva lasciato sotto casa e la nostra conoscenza si era risolta in una franca stretta di mano e prima che potessi arrivare ad aprire il portone avevo sentito che con una sgassata si era allontanato di corsa. Lì per lì ci ero rimasta male; va bene una ragionevole noncuranza ma un po’ di educazione non guasterebbe: tra il cascare ai miei piedi e scappare da una compagnia noiosa ci sarebbe la terza via, allontanarsi con sollievo ma con garbo, magari attendendo che io avessi varcato il portone di casa. Poi mi misi a ridere tra me e me: ero proprio un’inguaribile formalista; se a un tizio non importa niente di te, che differenza fa se te lo fa notare o finge il contrario? È solo una questione di forma e non di sostanza. E vabbè, però io alla forma ci tengo egualmente.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata dalla scelta stilistica di far raccontare la propria versione della storia dai vari protagonisti dalla vicenda. La scelta del tema mi è stata suggerita dal romanzo “Il minotauro” di Beniamin Tammuz che racconta una storia d’amore a distanza raccontata dai due protagonisti. Portare a termine il romanzo è stato facile e veloce, una volta che l’idea è maturata nella mia testa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Portare a termine il romanzo è stato facile e veloce, una volta che l’idea è maturata nella mia testa.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento sono tanti, soprattutto i classici. Ne cito solo tre: Giovanni Verga, Elsa Morante, Fedor Dostojevskij.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Roma da quando sono nata.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei progetti letterari sono, ovviamente, di continuare a scrivere storie che riflettano soprattutto la nostra contemporaneità e ci facciano riflettere sui nostri costumi.
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