
Edito da NonLetture nel 2018 • Pagine: 141 • Compra su Amazon
Stai cercando un tascabile profondo, euforico e sovrabbondante? “SE QUESTO E’ UN LIBRO” lo deciderai tu e nessun altro, perché qui, solo i “videogiochi di viscere” sono importanti. Quello che l’autore realizza in questo primo e scintillante esperimento di letteratura surrealista: è il beneficio tangibile, che alcune parole segrete unite ad altre poetiche, possono sprigionare in strumento di dolcezza e riflessione per affrontare i momenti più amari che la vita ci pone. Il libro infatti, (scritto in Ambienti piuttosto che Capitoli) è un atmosfera di stanze incantate, un flusso di coscienza, un mosaico di emozioni oniriche dove il lettore, partendo da una conversazione qualsiasi, si scoprirà unico viaggiatore tra le suggestioni che il suo sentire lo avvicinerà a scegliere. Un opera forse, senza genere ma popolare. Imprevedibile, pirotecnica, a tratti magnetica, che con le sue giungle di giochi linguistici rivoluziona e affeziona, anche chi non è abituato a perdersi leggendo.

INGRESSO
(DAL MANTRA DEL TUMULTO)
Parto dai roghi. Parto dalle conclusioni semmai queste esistano: <<Canta senza sapere le parole. Canta senza parole, se solo il suono conta!>> Mi dicevano, e così le dimenticai a memoria. Non lettori, questa penisola di sonni al suolo è per voi che non avete università nei vostri universi. Per voi che spesso cerchiate uno scopo universale nella vita che ogni giorno avviene virale, per voi che non badate alle trame di intimo beat che sormontate in meteoriti di vero, per voi che insorgete alla logica fake, alla coerenza di gara, allo sbadiglio, allo svolgimento, all’intreccio e vi donate all’infinitesimale connessione di specchi che avviene santa e violenta: le parole sono qui culle senza famiglie morte. Per voi che leggete e non arrivate alla fine. Per voi esploratori episcopali, piloti di sogni di navi a divano, per la vostra testa zeppa di input che stilla sogni che divulga zig zag: sappiate con gioia che non siamo necessari tra i volumi di queste dighe. Le nostre vite sono fuori, salpano tra i cambi di stagione come circuiti di carne in colpi d’occhio senza gesta. Le nostre vite non sono importanti tra queste carte fuoriuscite in cartucce, alleggeritevi un attimo dalla gravità di chi siete: smantellate l’orario e il coincidere, non otterrete qui asettica lettura cercando un copione da leggere, non potrete tessere poiché non avrete filo né ago, perché non c’è distacco in questi Ottoni (vedi Ambiente 14) che colano astrazioni da intuire ciechi, tutto è qui reale quanto la bufera di virgole in cui siete ad entrare, l’intuizione è finalmente libera dalle esperienze di vanità brutale, di ego impazzito. Estirpato il quotidiano e l’attuale: tutto è qui scucito, tutto è un “Oniente” in un presepe senza mitologia né palme ad accogliervi. Affilate il machete, nessuno vi guiderà alla scoperta di quest’autostrada dalle direzioni lampeggianti. Rompete il finestrino. Siate dissacranti. Affacciatevi. Siate colore e calcinaccio di nebbia quando un opinione si farà chiara in (dolce) compagnia. Abbandonate i muri oltre gli occhi, rotolate, ossidatevi ad altre grammatiche, cercate di non capire ma di vedere forte e frontale, qui-sempre, qui nel jazz che s’infila senza hit. Caparbi oltre il senso, correte leggeri tra le righe inciampando curiosi. Disarcionatevi alle pagine dalla comoda sella dei capitoli chiusi: qui non ci sono. Frustate la pigrizia. Cliccate con gli occhi ma non ragionate orizzontale, precipitate nella coltura di un esperimento, siate verticali. Siate lontani. Tenete fuori il perché, il granché, la vostra vita, le vostre paranoie, gettate i modi di reagire avvinghiandovi ad altri sconosciuti, e senza pregiudizi, non cercate le già conosciute immedesimazioni allo specchio di un eroe, cercate una nuova prospettiva per sfondare una porta tagliafuoco. Se rimanete, amici, mettici un anno, non leggete, spedite un motto, sotterrate un’orma, piantate un ascia, inventate dalle impalcature di questi bonifici ambienti, perché qui, le disfatte di non capire saranno solo benefiche. Affamatevi senza affermarvi, fallite: fatevi nudi. Sperimentate. Slanciatevi. E cos’è il motivo che cercate oltre il senso che non pare oggettivo? Morale. Usate qui i sintomi suoni, causando arie di nuove gole. Trovate il vostro Alieno. Sbandate. Inventate. Trainate. Fatevi titolari di tutto ciò che vi trasforma in dipendenti. Tossite ambra di resine antiche nei gioielli che trovate fuori dai negozi. Fatevi stravolgere dall’incuranza di una lettura senza conflitto, la superficie è fratturata di occhi socchiusi di gesso e cuore tossico di unità nel mistero. Sperimentate un altro ossigeno e osservate, osservate leggendo nell’eco. Vedete! Vedete imperscrutabili, oppure non vedete nulla per molte righe, lasciate che siano le parole ad appiccicarsi all’immagine fluida che il vostro procedere crea. Usate l’incredibile forza Braille. Brillate le retine che colmano un vuoto da affrontare in battute. Ispezionatevi. Guidate l’articolazione di un sentimento, sbandate, lasciatevi pisciar fuori dai presupposti che annacquano stupori, siate onesti e convalescenti quando dite bugie gettando un piede nel prato delle mezze. Montate su un 4×4 carico di gabbie per polli sull’Isola di Natale sequestrandone i regali. Fatevi granata sulla certezza convinta. Sbaragliatevi. Siate presenti, siate persistenti anche mentre in ogni secondo avvenite avanzando in concime. Tutta qui la storia? Qua che c’è melma di anni-luce senza barriere. Sbandieratevi all’esistenza scrollando membra vivide, c’è una chioma di eterno che tira e sotterra la vita. Abbattetela. Rischiate ricchezze di acque salate dal basso di un’idea che la renda potabile a tutti: la siccità è nel coraggio di tramutare la disperazione in efficienza. Feritevi tra i coralli per sentire il sangue che sacrificate alla bellezza fragile. Siate l’asse scricchiolante di un pavimento in un mosaico di storie, siate il punto di vista dell’usura di uno spirito asceso, la sua bellezza senza orma. Salpate le fondamenta, create una tradizione che abbia taglie per tutti i condomini con cui andrete per mano. Andiamo in miniera: qui nel cielo è racchiusa una stella di cioè, di per niente e per dove; c’è una giungla grezza di detriti e microscopici umori scritti, e non è fuori, non ha nazione ne tempo, ma montagne, organi di ogni uomo al di fuori di organismo: trivellate la sua provenienza dentro il go di una svolta e lasciate il mantello dei pixel ubriachi cuciti tra carta e cristalli liquidi quando iniziate, usate lingotti nei sorrisi con chi si aspetta da voi riassunti azzeccati. Quando passate per qui, non leggete ancora, divorate con pregiudizio, riprendete la bicicletta di contare sulle vostre sgommate, sfiorate i sassi senza vaso, e contenti, tramandatene i fenomeni: il bulbo argilloso di una Tropea che nasce, sentite il profumo della fibra sintetica che isola un freddo, il perfetto suono dell’asfalto caldo sulla ruota che scivola accanto a tulipani che sfrecciano di onde senz’urto, e periferici, allenatevi al suono sfuocato del bello: vivete nella tragedia spiritosa la sincerità di un sacro movimento di viscere, e schivate, staccate il pregiudizio di ciò che non sapete comprendere ma che qui, secondo qualche strana eccezione, combacia e trasuda senza il favore dell’ottimo meteo di mode. Siate post-it. Siate Post-it per qualcuno, mettete in congelatore l’impegno di morire a ogni disfatta dell’umore meditabondo. Fallite con perseveranza, scrivete testamento ogni giorno. Contate ciò che conta. Trascurate l’insolvenza immediata della rilettura coincisa e senza intenzione: spannatevi di violato. Siate senzatetto quando leggete, create le zampe, la coda di ciò che vi anima, che vi alza, riciclate la fatica in motoslitte di sole privato. Siate Generali nel generale. Innamoratevi. L’indipendenza è la nervatura di un casco slacciato. Siate lenti e persuasi. Non sforzatevi nell’afferrare, c’è un oltre che vive in ogni parola che vi tira e si allaccia: planate a rimorchio, qui non importano i redditi, i nomi, i dettagli, la memoria, la cronologia dei taxi persi: usate la sensibilità dalle slavine armoniche dei dubbi, morite in un colpo di bene che vi socchiude la testa spalancandone il petto. Siate emotivi. Alimentate ogni presentimento che bussa vicino al vostro occhio incubatrice, sapendo di essere sconnessi, russate d’incontaminata pace quando non deciderete di restare a letto un mese, usate la malattia senza esserne usati, masticate fieri dal patrimonio di un follia sperperata in panorami. Cibatevi con il digiuno. Scopritevi unici osservando maioliche di fumo dall”abitavolo” di fantasia. Sperimentate profondi le burrasche dell’inquietudine attenta, scostate il senso come il sari trasparente d’un divieto d’eccesso d’un cuore non vostro. Riconoscete una notizia e i suoi broker, fatelo spensierati e senza branchi boreali di quotidiani osceni. Lasciate il manubrio andare a se stesso solo se siete voi a cambiar marcia. Siate tattili con ogni cosa che pensate, che toccate, che inspirate senza guanti di lattice. Spalancate la finestra, mischiate il futuro di brezze nuove per godervi appieno le antiche planate. Prendetevi la libertà di osservare, pretendetela senza bancomat. Usate un libro diario di se: è vostra la regia ellenica e involontaria di esperire l’innato. Esprimete! Spingete! Buttate giù senza il palato del giudizio, fatevi scegliere da un profumo di lettera non letta, inghiottite senza discendenza sentendovi parte di un’atmosfera senza fini né antenati, fatevi fanale per chi vi crede lampeggiare guasto, siate quattro frecce. Scoccate! E’ vostro l’ascensore di questa formula al primo piano che sale, è un tasto, un fermento, un fatto. Raccoglietevi dentro queste lettere senza soggetto, lisce, usate una notte incantata e shakerate regia, scrivete leggendo agghiacciati, intessete il vero che esce. Tracciate una funivia, l’alfabeto è la corda che vi fa sentir piccolo al cospetto di quello che localizzate esprimendo. Siate inutili come capire la musica che vi piace, tuffatevi verso l’alto, fate da trampolino: il libro è una fiaccola d’acciaio in tensione sopra un crepaccio d’appigli, usate la carrucola dei pensieri che non vi riguardano, mettete corrente, siate ellittici, siate elettricità tra i tralicci di un filo idilliaco. Tumultate i toni che non conoscete. Riascoltatevi. Usate le cuffie. Disegnate ellissi di nuovi angoli aperti e socchiudete nei mondi che scovate: non vi capiranno mentre spiegherete un sogno. Esercitate la pace di perdere tutto. Qui non troverete una storia da subire dai braccioli di una poltrona, sarete voi ad accendere e spegnere i riflettori d’una frase fuorilegge, sarete voi a furoreggiare e far sorgere i mestieri di un copione senza tempo: vostre le scenografie, i Kristian, le luci, gli odori. Avverate il piccolo io che non sapeva contare ma che oggi, qui e ora, conta molto. Mi auguro non sia questo il luogo dove cercherete certezze, cognizione, sicurezze, risposte o conforto ma che al contrario, questo sia apertamente per me e per voi un planisfero di orfano-visioni da sfogliare, mondi evasi, leali, autentici, folti e schietti, come un arcipelago di scrigni, senza lezione. E non cercatevi fuori se cominciate cruciverba dentro, lasciate che l’incompiutezza concreta di un pensiero co’ i buchi si combaci agli schemi impermeabili di ciò che escluderete. Siate storti quando passate da qui. Leggete obliqui. Abbandonatevi a un cerchio senza centro. Questo vivaio non è un fast food d’intrecci e fraseggi: è il fruscio d’un mare e i suoi riverberi in succu-lenta ovazione. Saltate pure intere pagine d’inadempienza, saltatele obbligatori, metteteci la siepe, il giardinaggio, cancellate, strappate, censurate, rimontate, non abbiate paura di questa libertà ovvia e plausibile, qui c’è solo questo: il barlume di un gregge di titoli che una notte accecò un lettore. Nessuna parola prenderà vita se non sarete voi a illuminarla della vostra intenzione. Licenziate. Siate scoliotici. Fatevi ingessare quando rompendo una trama troverete dell’oro, non avrete bisogno dei segugi di svaghi quando saranno con voi taccuini senza storie ubbidienti. Tenete una penna a fianco, siate consolati. Siate subconsci. Usate i simboli della concentrazione off-calligrafica: un solo punto di luce varrà un intero consolato di buio in questa nazionalità straniera. Prendete la vostra posizione. Inspirate in altri. Suggerite morbistenza di flirt e subconscio, stimolate sottovoce dal rampollo nel cuore. Siate occhio di bue. Siate fuorvianti, radunatevi intorno alle vostre indicazioni d’intuito e perdetevi, accettate il mistero della mancanza, accettate un regalo senza motivo, fatene uno con la stessa intenzione e affidate tutto alla pupilla dell’immaginazione in saldo. “Il River” non è che il “Flusso-film-libro-della-Mente” diceva Jack: intatto e preciso scorre via sincero nell’orientamento di ogni vuoto a piacere. La coerenza non è mai dritta in fondo al bivio delle spiegazioni fuorvianti. Esplodete in curve ortopediche di giusto consiglio. Sventolate introduzioni scrivendo in valvole lente, lo svolgimento personale della vostra sinossi. Fanculo le copie se non si piange in libreria: non c’è verosimiglianza né recinto per i caleidoscopici ambienti di questa colonia spaziale. E lasciate fuori tutto, siate pronti a cambiare le marionette del cosmo quotidiano: in ognuno di noi c’è la grandezza di poter abbracciare la roulette dell’immaginazione a balzelli di picchi. Ballate e scrivete orme, siate gente, siate momento, questa è la musica dove una volta capitò il motorino di ola dell’esserci nullo. Siate indivisibili ma tornate divisi totalmente, siate ogni folklore che traccia un confine al di fuori di un outlet, siate martello e mirtillo quando pensate sottovoce di fronte un castello. Indicate con un dito una lontananza per vederla tornare, osservate e solcate le parole arricciandole di grazie quando fisserete qualcuno che chiamerete orizzonte, fatelo con cura, con senso, con scelta, il pensiero farà la differenza tra dove siete e dove vi sentirete. Scegliete le vostre onde sonore, la vostra energia quotidiana. Scegliete dalla piena cognizione della vostra fantasia razionale che esonda, consapevoli di ogni sacerdozio della diseguaglianza, fatevi globali di località atipiche e senza guide. La gioventù è una cometa che resta negli occhi di chi esce a sognare. Rischiate di essere idioti quando l’amore uscirà in commenti intelligenti. Celebrate le bestemmie prive di religione onorando il Dio mistero nei drammi. Ululate dall’anima illimitata di schemi e buchi neri, (i progetti abbandonateli a fianco per osservare se li state vivendo senza etilometro.) Siate spogli come le false diramazioni di spigoli in un quartiere a Dublino, siate senza onde mentre i primi lampioni si spengono uniti. Siate lineari e antichi come un guscio che attorciglia in calcare. E usate metafore e pugni, sbrano di occhi, tuono, osservatevi animali su aerei vegetali, non date pulsioni a nulla quando siete immobili, liberatevi dai freni del giudizio che ondeggiano nel vento e accelerate: una vita è più importante se sai di possederne altre, la pace non é ancora scoppiata perché i cuori battono in silenzio lo stesso destino, facendo finta di non sentire. Ci siamo assuefatti alla magia che ci cammina senza il frastuono di un dubbio. Qui giace la sacra giacca della terza persona in vacanza dal tempo. Una fotografia di trasparenze sbellicate nella genealogia di un invero Dolores. Buona fortuna lettori, eroi scienziati che frugate tra le caverne di un infinito rimasto infuocato, il vostro mondo vi morderà dei costumi di donna, uomo, figlio, cugino, cuoco, speleologo, zio, nonno, cadavere. Attenti. Niente storie, niente personaggi inutili al cospetto delle mode che state attraversando in scale mobili, solo il boccone di un ossigeno tramutato in parola universale, l’anima d’un libro, che di astri, riempie la sua inaspettata ribalta. Ho infiniti congelatori per noi che dissacriamo i dialoghi, le scalette, i titoli, le parole agganciate di voce e agghiacciate al contesto. Nessuno sceglie di scrivere, la scrittura ti prende e tu sei un ostaggio che cammina senza uno straccio di fine in tasca. Il miglior libro da leggere, per me, è sempre stato quello che non si faceva finire, che non volevi mai concludere per paura di estinguerlo di novità e amicizia. Il Mantra del Tumulto è l’incantesimo della lettura che sfocia in parole, esportandole senza porta. In fondo sono sempre le scoperte che placano un bisogno di abissi a rivelarci le meraviglie più intense di noi, ed è in quell’attimo d’infiltrazione tra frasi, che la polpa indispensabile schiude e la corteccia cade, come un fradicio campanello d’allarme su di un profondo incendio di fragole, dal sapore ormai stinto.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’Idea è nata a 19 anni, dopo che è morto il mio migliore amico in un incidente stradale, in quel momento ho deciso che avrei vissuto per due: ho cominciato a viaggiare a piedi, senza sosta e quindici anni dopo, quando mi sono fermato più a lungo, ho preso il delirio dei conflitti misto alla meraviglia dei ricordi e dei paesaggi che avevo impresso e ne ho fatto un libro dedicandolo a lui.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Difficiilissimo, amavo leggere e scrivere ma non ero certo uno scrittore, non avevo riferimenti ne strumenti per raggiungere il mio obbiettivo, quindi me li sono creati, ho cercato di leggere, scrivere e imparare più che potessi cercando di rimanere fedele all’idea precisa che avevo in mente, non volevo compromessi: avevo una promessa da portare a termine e questo mi ha aiutato e mi aiuta a superare tutti gli ostacoli.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Cortazar, Tabucchi, Calvino, Terzani, Kerouac, Fante, Huxley, Bergerac, Marquez…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo in campagna, a circa 25 km da firenze circa 8 mesi l’anno, il resto del tempo lo vivo spostandomi via terra, a godere, scrivere, creare e interrogare le bellezze naturali (e gratuite) che il mondo ci offre.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Questo libro è il primo della trilogia “Il Nido di Nodi”, ho in preparazione quindi altre due opere in stili completamente diversi dal suddetto, e poi voglio buttarmi sul romanzo, ho un cassetto pieno di appunti e di storie che non vedono l’ora di uscire!
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