Edito da Cristiana Casciani nel 2019 • Pagine: 116 • Compra su Amazon
Sati è una donna poliziotto che sta per festeggiare il suo trentesimo compleanno. Per riuscire ad arrivare a fine mese con più tranquillità, dopo la crisi economica, da qualche anno subaffitta il suo appartamento ad altre ragazze. L'ultima donna con cui divide le spese per la rata del mutuo è Ophelia, molto diversa e lontana da lei sotto tutti i punti di vista. Ma col tempo Sati, con un susseguirsi di colpi di scena, scoprirà che i loro destini in realtà sono molto più vicini e intrecciati di quanto avrebbe mai immaginato.
Era sempre stata un’appassionata di archeologia. A differenza dei colleghi che erano appassionati di serie tv, reality show e talent show, lei preferiva documentari che narravano le storie e le vicende personali di uomini che avevano creduto e avevano visto, non avevano voluto vedere per credere. Per esempio, a differenza degli altri turisti che erano in tuor insieme a lei, conosceva la storia dell’uomo che aveva scoperto Machu Picchu. Non era interessata alle spiegazioni della loro guida perchè in realtà ne sapeva più di lei. Adriana, la loro guida, era molto preparata, ma discutendo con lei, e vedendo che conosceva storie e leggende di cui neanche lei era a conoscenza pur essendo una studiosa, una ricercatrice e vivendo in quei luoghi, una volta, con aria perplessa, le aveva domandato:
“Ma tu che lavoro fai. Come fai a sapere tutte queste cose!” Sati aveva sorriso, schernendosi, e aveva risposto.
“Io? Che lavoro faccio? Agente di polizia” aveva risposto lasciando Adriana ancora più basita.
Forse anche lei pensava che essere un poliziotto e avere nozioni di storia, archeologia, biografie di grandi esploratori e quant’altro era una contraddizione o inspiegabile. In realtà, per lei, gli archeologi e i poliziotti avevano molte in comune: la ricerca delle prove, il seguire gli indizi, il fiuto, l’intuito, la ricerca delle origini e della verità. Le origini dell’uomo e della storia dell’uomo. Conosceva bene la storia di Hiram Binngam. Contraddicendo il detto che l’unione fa la forza e a sostegno della sua ipotesi che tutto ciò che ha portato a un reale miglioramento è dovuto a dei singoli uomini che credevano fortemente e dunque hanno potuto vedere, Hiram Binngam scoprì o riscoprì questo sito archeologico divenuto patrimonio dell’umanità. Forse fu dovuto a un caso fortuito che incontrò, durante il suo viaggio, un bambino, un indigeno e che, parlando con lui, trovasse la strada che lo condusse a Machu Picchu. Ma certamente non era un caso che lui si trovasse là e soprattutto che credette a quel bambino, sporco e analfabeta. Seguì le sue indicazioni e, all’improvviso, vide quello che aveva voluto e desiderato vedere: la meta delle sue ricerche. Così come Frederick Catherwood che, insieme a John Lloyd Stephens, diede un impulso e un contributo determinante per la ri-scoperta di alcuni siti archeologici della civiltà Maya. Forse, al pari dei poliziotti, anche gli esploratori non facevano domande, non raccoglievano prove, non seguivano indizi, non formulavano ipotesi, non si recavano sui luoghi del delitto come dei poliziotti? Il caso degli esploratori, diversamente da quello dei poliziotti, magari era sempre lo stesso. I poliziotti cioè a volte dovevano occuparsi di furti, di omicidi, di rapimenti, di truffe, di violenze, invece gli esporatori si occupavano sempre di casi di scomparse: di civiltà scomparse. Ecco, forse, era l’unica differenza che lei trovava tra un poliziotto e un archeologo, ma, a suo giudizio, il lavoro di ricerca e di scoperta o ri-scoperta, era esattamente lo stesso. Per essere un buon poliziotto, come un buon esploratore, non bisoganava avere dei pregiudizi, ma essere aperti ad ogni eventualità, non scartare niente a priori nulla per non correre il rischio di diventare di parte. Formulare tutte le possibili ipotesi iniziali e poi eliminarle dalla lista dopo accertamenti reali, dopo il rinvenimento di prove inconfutabili. Se, in qualche modo, si crede che il responsabile di un reato sia una determinata persona, anzichè un determinato numero di persone diverse, si finirà per indagare solo su quella e in qualche modo tutti gli indizi che portano in altre direzioni saranno tralasciati. Ma in questo modo la ricerca può essere falsata. Quindi era importante non trascurare nulla e non lasciare niente al caso. In secondo luogo sia l’esploratore che il poliziotto doveva essere determinato, avere fede che la sua ricerca porterà a un risultato per avere la forza e la determinazione per andare avanti nonostante tutte le difficoltà, gli ostacoli e i rovesci di fortuna. Gli inconvenienti del mestiere erano all’ordine del giorno. Se pensava alle difficoltà che esploratori di secoli prima potevano aver incontrato senza navigatori, mappe aeree o satellitari, senza cellulari eccetera, cosa avrebbe dovuto dire di lei quando aveva a che fare con qualcuno che depistava le indagini e quando qualche pista seguita tenacemente si rivelava un vicolo cieco e bisognava ricominciare tutto daccapo? Bisognava credere, credere fortemente, avere fede, avere fiducia per vedere concretizzarsi il risultato delle loro indagini e ricerche: l’arresto di un colpevole o i resti di un’antica civiltà scomparsa. Forse Adriana non aveva fatto tutte queste associazioni, per questo era rimasta stupita quando le aveva detto di essere un semplice poliziotto. Un’appassionata di cartoni animati e telefilm polizieschi e di biografie di grandi esploratori.
Quando si ritrovò davanti a una testa colossale olmeca, per esempio, mentalmente si rivolse a colui che l’aveva scolpita.
“In cosa credevi per aver visto questa cosa che poi hai scolpito. Era forse il tuo dio?” perchè sorvolando le linee di Nazca, aveva capito una cosa. Tralasciando le varie teorie sugli alieni, gli extraterrestri e via dicendo che per lei lasciavano il tempo che trovavano, l’unica cosa certa era che tutte quelle civiltà di popoli antichissimi, la cui datazione, secondo lei, doveva essere spostata indietro nel tempo di migliaia, forse di milioni di anni, era una sola a prescindere da tutto: loro guardavano in alto e credevano di essere guardati dall’alto, cioè da dio. Quei barbari incivili avevano il senso del trascendentale, del divino, della dimensione spirituale che il mondo contemporaneo aveva quasi del tutto smarrito, perduto. Forse si era estinta con la scomparsa di quei popoli che pur essendo analfabeti, preistorici e barbari, avevano tuttavia costruito, immaginato, progettato e realizzato monumenti, opere architettoniche, fognarie e acquedotti per uso igienico e agricolo invidiabili perfino per un cittadino di una grande metropoli. Tutto era di una bellezza e di una grandezza e robustezza che si ispirava al perdurare del tempo, all’infinito e che si innalzava tra le montagne verso l’alto, quasi come a richiamare o simulare l’ascesi di un mistico o l’elevazione dell’uomo a una dimensione superiore che trascende lo spazio, il tempo e la mortalità di un uomo che appare insignificante e transitorio rispetto a quelle opere costruite per durare, per rimanere, per sopravvivere al tempo. Il desiderio di immortalità era stato trasferito nella loro opera, con le loro mani mortali avevano innalzato inni di pietra imperitura all’infinito, all’imperituro.
L’uomo contemporaneo guarda invece solo al qui e ora, al godere il momento, a coltivare il proprio orticello, al basso, alla terra. Non alza più gli occhi al cielo per vedere le stelle anche perchè le luci della città le rendono invisibili e tutti sono troppo impegnati con i propri piccoli drammi personali e insignificanti, da avere il tempo per pensare ad altro, che ci sia un dio, una vita dopo la morte, che l’infinito sia un concetto da approfondire. No: oggi la gente è depressa perchè soffre nei sentimenti, perchè si sente sola, perchè non riesce a trovare un compagno di vita, si guarda attorno e inizia a fare paragoni e ad essere triste perchè gli manca una famiglia, un figlio, una macchina nuova, un’auto elettrica, una casa più grande, abiti lussuosi, un corpo perfetto e via dicendo. Cosa importa all’uomo evoluto, progredito e civilizzato contemporaneo di dio, del trascendentale, dello spazio e del tempo infinito? Della possibilità della vita dopo la morte? Lui vuole vedere per credere, quindi siccome non vede la vita dopo la morte, essa non esiste; siccome non vede dio, questo non esiste. I soldi, la casa, il partner, l’auto, i vestiti: questo vede, a questo crede e questo e nient’altro desidera. E questo è anche, in definitiva, ciò che ottiene. Anche se resta comunque deluso o disilluso o infelice riuscendo a ottenere una cosa, l’altra, oppure tutto.
Si ricordò di quel brano di un greco antico, forse Senofane, che diceva: ‘ma se i buoi e i cavalli e i leoni avessero la mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, i cavalli raffigurerebbero gli dei come i cavalli e i buoi come i buoi’. Davanti alle rappresentazioni degli dei così sconosciute, un dio dai mille volti e dai mille nomi che sempre solo uno è, come l’eroe del libro L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, si disse che in fondo quel concetto era valido anche per lei. Lei, infatti, dio l’aveva trovato lavorando, col suo lavoro. Come un bue che avrebbe dipinto il suo dio simile a un bue, per lei dio era un impareggiabile scrittore di polizieschi capace di scrivere infinite trame e intrecci che coinvolgono milioni, miliardi di esseri collegati tra loro, con una insuperabile commistione di fato e libero arbitrio, di destino già segnato e libertà di scelta dell’uomo. Era stata un’intuizione, un’idea, che le aveva fatto desiderare di inginocchiarsi e rendergli grazie e onori per la sua grandiosità e immensità. Il seminario sulle biografie dei quattro natural born killer non aveva fatto altro che alimentare quell’intuizione. Finora niente l’aveva ancora smentita. Tutto nella vita di quegli uomini sembrava essere stato predisposto affinchè compissero il loro destino. Scelte, eventi, cultura, famiglie… Tutto, allo stesso modo, sembrava essere stato scritto e pensato per fare in modo che lei dicesse, facesse, scegliesse in modo da ritrovarsi sospesa dopo essere stata accusata di essere la responsabile di qualcosa che non era stata lei a causare. Così come chi aveva realizzato quelle opere milioni di anni fa era collegato con chi le aveva scoperte, con quelli che le visitavano, quelli che le studiavano, le visitavano, anche con lei, che era là insieme agli altri membri del tour. Li osservò a lungo: Adriana, la loro guida, era molto dura, ma anche preparata. Teneva alla puntualità e a rispettare la tabella di marcia. Ripeteva in continuazione la parola ‘karma’. La trovava simpatica. Poi c’era una coppia di trentenni con un bambino di sei anni. Nonostante il tour richiedesse anche un tour di force, tipo sveglia all’alba e tabelle di marcia massacranti, la famiglia era sempre puntuale, il bambino non faceva capricci, dormiva durante il viaggio ed era curioso e avido di conoscenze. A tavola si sedeva sempre con loro tre. Erano gentili, educati e anche molto ferrati sulle località e la storia dei popoli che avevano costruito le civiltà di cui stavano visitando le testimonianze. Poi c’era un’altra coppia che le era molto simpatica: erano entrambi anziani ed erano dei ‘cacciatori di fantasmi’. La donna aveva anche un rilevatore o un detector di fantasmi e quando si recavano a visitare qualche monumento, lei lo azionava e se la luce rossa si illuminava urlava:
“C’è un fantasma, qui c’è un fantasma!” e tutti, chi seriamente, chi per scherzo, facevano ipotesi sull’identità di quel fantasma. Sarà stato il fantasma di Montezuma? Oppure quello di El Dorado? Sì, perchè forse El Dorado non era un luogo, una città fatta d’oro, ma una persona, un re o un sacerdote o entrambe le cose che veniva ricoperto d’oro per celebrare le cerimonie sacre. Tutto molto divertente. Poi c’erano altre due coppie, formate da marito e moglie, ma molto meno simpatici. Loro, più che appassionati delle civiltà precolombiane, di storia, di architettura e archeologia, erano dei patiti dei viaggi organizzati. A loro la meta non interessava poi molto, l’importante era il viaggio e, in particola modo, i tour. Come c’erano del resto i patiti delle crociere. Il loro unico imbarazzo era scegliere tra le mete rimaste dopo aver depennato quelle che avevano già visitato.
Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di questo libro è nata riflettendo sulla casa e su tutti i pericoli che si nascondono all’interno delle case, anche a partire dalle notizie di cronaca che riguardano le violenze familiari. Poi il discorso sul pericolo all’interno delle mura domestiche si è allargato a quello degli ambienti di lavoro, ai luoghi pubblici e via discorrendo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Scrivere questo libro in realtà non è stato molto difficile. Quando mi arriva un’idea, è come se mi sedessi davanti alla sala di proiezione cinematografica all’interno della mia testa, mi guardo il film che proietta e poi lo metto su carta. La difficoltà sta più che altro nel rendere la mano veloce quanto lo sono le immagini che scorrono nella mia mente.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I due autori di riferimento per questo libro in particolare sono Paul Auster e Philp Dick. Trilogia di New York è stato a lungo uno dei miei libri preferiti, mentre per quanto riguarda Dick a ispirarmi è stata soprattutto la sua biografia dal titolo Io sono vivo, voi siete morti.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Attualmente vivo tra Roma e Viterbo. In passato, per motivi di studio, ho trascorso molti anni a Siena, dove spesso e volentieri torno per villeggiatura.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Come tutti gli artisti, per il futuro intendo continuare a scrivere fin quando riterrò di avere scritto il mio libro ‘perfetto’, per poi dedicarmi ad altro. Tutto dipende da cosa ha ancora in serbo per me la mia musa ispiratrice.
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