
Edito da Gustavo Vitali nel 2020 • Pagine: 518 • Compra su Amazon
Il titolo richiama esplicitamente ai “Signori di Notte”, una delle numerose magistrature dell’antica Repubblica di Venezia, alla quale era stato demandato la tutela dell'ordine pubblico. In pratica giudici e insieme capi di polizia.
Personaggi veri in una storia inventata
Alcuni dei personaggi, il protagonista in primis, sono realmente esistiti al tempo della vicenda che è invece di pura fantasia, come lo sono i loro tratti caratteriali e le loro azioni descritte nel racconto. Di conseguenza la trama, che si dipana lungo un imprecisato numero di giorni nel corso del 1605, si è adeguata ai rispettivi ruoli e tempi nella vita reale. Senza paura di esagerare, si potrebbe dire che il libro è costato in ore di ricerca e documentazione più di quante dedicate alla stesura.
Notizie e curiosità sulla Venezia di allora
Una caratteristica del giallo sono le aggiunte di notizie che descrivono la società veneziana all’alba del XVII secolo, che raccontano episodi storici, aneddoti, curiosità, leggende, perfino fiabe. Lo fanno talvolta in modo dissacratorio, spassoso, sempre con un linguaggio crudo. Tuttavia sono divagazioni durante le quali i protagonisti restano sempre presenti con i rispettivi pregi e difetti, certezze e titubanze. Sono divagazioni che non intendono affatto interrompere la narrazione, tanto meno fungere da pretesto per “salire in cattedra” nel senso più pedante del termine. Al contrario, lo scopo è quello di incuriosire il lettore su come vivevano e cosa pensavano i veneziani del tempo, contestualizzare il romanzo nel periodo e arricchire il racconto.

Un braccio piegato sopra il capo, con il palmo della mano rivolto in basso, era rimasto appoggiato malamente al seggiolone in legno scuro, rovesciato con tutta probabilità in seguito alla caduta dopo il colpo letale che aveva spedito l’uomo a miglior vita. Altri due seggioloni identici, uno dirimpetto a quello rovesciato, l’altro sul lato opposto del tavolo, quasi nel cantone della stanza, erano rimasti al loro posto. La luce del giorno penetrava dalla finestra in parte oscurata da un vecchio panno, poco più di uno straccio, messo a sostituire un vetro rotto.
Il colpo mortale era stato sferrato alla testa. Questa posava di lato nella vasta chiazza di sangue sul pavimento, sangue fuoriuscito dal cranio, colato giù lungo il collo e la faccia e andato a coprire le doghe consunte del parchetto. Altro sangue sulla gorgiera e sul farsetto blu scolorito che mal si intonava con le braghe color ocra; ancora sangue a impiastrare i capelli grigi e la guancia appoggiata a terra. Qualche carta dal tavolo era stata trascinata dal rovinare del corpo ed era finita sul pavimento.
Non era difficile individuare l’arma che aveva ammazzato il Duodo: un pesante candelabro a due bracci giaceva riverso poco lontano dal cadavere. Schizzi di sangue andavano scemando sul parquet via via che si allontanavano dal corpo. Due mozziconi di candele si erano sbriciolati nell’urto e le schegge stavano sparse a terra insieme a grumi di cera.
Un altro candelabro, copia esatta del primo, era rimasto al suo posto appoggiato sull’angolo opposto del tavolo, trattenendo infimi moccoli di candela. La cera squagliata era colata nei piattini sotto i sostegni prima di rassodarsi. Altre gocce di cera mai rimosse incrostavano il piano del mobile e formavano un cerchio attorno al basamento, simile a quello che indicava la posizione del candelabro rovesciato. Sul tavolo c’erano qualche soldo d’argento, un medaglione con uno stemma araldico, penne d’oca, un calamaio e tutto il necessario per la scrittura: molti fogli di carta, lettere, manoscritti, codici, stampe di leggi e decreti con alcuni libri. Una scodella con un cucchiaio era appoggiata tra le carte e le mosche ronzavano attorno facendo festa ai rimasugli di chissà quale brodaglia.
Il Signore di Notte al Criminal, braghesse scarlatte a coscia di pollo, giubbone e berretto alto di tono più scuro, tabarro sulle spalle, se ne stava a testa alta, mento in fuori, mani dietro la schiena, ritto al centro della stanza disadorna che pretendeva di conservare una qualche dignità con un paio di quadri scadenti in cornici pompose. Si vedevano poi una spada schiavona, arma con elsa a cesto prediletta dalle truppe degli schiavoni, mercenari dalmati al servizio della Serenissima, senza particolari fregi appesa al muro accanto a una libreria che doveva aver conosciuto fasti migliori. Un sofà trasandato e qualche suppellettile non rimediavano affatto allo squallore dell’ambiente.
Dalle maniche e dal bavero della giubba di Francesco Barbarigo, il Signore di Notte, fuoriuscivano in bella mostra “lattughe” pieghettate con cura a guarnire polsi e collo di una camicia bianca, quasi immacolata se non fosse stato per una piccola ma fastidiosa e imbarazzante macchia di chissà cosa caduta su un polso a deturparne il candore. Se ne era accorto dopo essere uscito di casa, troppo tardi per rientrare a porvi rimedio.
Qualche oggetto ornamentale di vago prestigio posava sull’architrave del camino, insieme a un’ampolla di vetro opaco, a un mortaio di bronzo con il pestello accanto, a un candeliere di porcellana e poco altro. Parte dell’intonaco era cadente, soffitto basso, niente stucchi o affreschi, chiazze di umidità qua e là lungo le pareti annerite dal tempo, dalla fuliggine e dal fumo del camino che non veniva pulito da chissà quanto tempo.
Francesco non avrebbe potuto definire miseria quanto stava osservando, ma di sicuro grande decadenza. Lo stato precario dell’alloggio gli dava un disagio amplificato da un fievole lezzo di marciume e di aria viziata. Provò fastidio nel guardarsi intorno, ancor più quando osservò carte e stampati ammucchiati alla rinfusa sui ripiani bassi della libreria e sul tavolo, manoscritti con note scarabocchiate, cancellazioni e qualche macchia d’inchiostro su libri contabili che segnavano solo zecchini da pagare. Provò altro fastidio di fronte ai volumi impilati alla bell’e meglio, con i dorsi strappati e i titoli ormai illeggibili, residui di opere che in precedenza avevano sfoggiato la loro eleganza. Altri libri si mescolavano alla rinfusa tra le scartoffie, aperti tra le carte, e lasciavano intravedere pagine sgualcite. Non mancava la polvere e tanto, tanto disordine.
Inutilmente l’Officiale di Notte difendeva narici e olfatto dal fetore con un grazioso fazzoletto. La presenza di insetti era del tutto normale, anche se qui più numerosi che altrove, ed egli non prestò alcuna attenzione a questi animaletti compagni degli umani anche in dimore più agiate.
Lungo una parete giaceva un divano parecchio malconcio, coperto alla rinfusa da un nutrito campionario di cuscini di foggia, colori e dimensioni disparate, segnati da macchie e macchioni, con i ricami sgualciti: non incoraggiava certo a sedersi. Francesco si convinse definitivamente che, se quella non era miseria, ben poco ci mancava.
Due calici, residui spaiati di cristallerie ormai disperse, poggiavano su un tavolino accanto al divano: un “servo muto”, sorridente e immobile, rappresentava un piccolo moro nel gesto di porgere un vassoio al padrone. I bicchieri erano incredibilmente lindi come pure l’ampolla posta accanto, finemente decorata, mezza piena di una qualche mistura alcolica. Il Barbarigo levò delicatamente il tappo di vetro per annusarne il contenuto, ma il forte odore gli risultò sconosciuto e richiuse l’ampolla. Osservò meglio i calici, tendendo il braccio verso la luce che penetrava dalla finestra, senza notare tracce di bevande o impronte di labbra. Constatò pure come nessuna goccia fosse caduta a macchiare il tavolino. Nessuno aveva bevuto da quei bicchieri.
All’ingresso dell’abitazione che dava su Corte Loredan, e questa a sua volta sulla stretta calle omonima in contrada di San Marcilian nel sestiere di Cannaregio, le teste di alcuni sbirri facevano a turno brevi capolini ritraendosi di botto, avanti e indietro, prima uno poi l’altro, senza osare varcare la soglia perché il Barbarigo aveva vietato loro di entrare. L’intenzione avrebbe voluto garantire che testimoni, tanto poco affidabili quanto loquaci, divulgassero poi voci disparate e incontrollabili sul morto d’alto lignaggio a dispetto dell’alloggio scadente e della miseria.
Non sarebbe stato così, perché un omicidio in questa Venezia del 1605, sotto la signoria del doge Marino Grimani, si sarebbe ben prestato al pettegolezzo e alla morbosità del popolino, tanto più che la vittima era un patrizio, sebbene con disponibilità economiche non all’altezza del rango, un membro del ceto nobiliare che nella Serenissima Repubblica deteneva le chiavi del potere. Tuttavia l’ordine aveva impedito agli sgherri di cedere al vizio di rubacchiare frugando tra le cose del defunto, una consuetudine ben risaputa. Cosicché, tolta la possibilità di allungare le mani su qualche misero bottino, ai tutori dell’ordine era rimasta solo la povera soddisfazione di intrufolarsi con occhiate furtive tra le miserie della casupola in cui un nobile aveva condotto una dura esistenza scivolando lungo la china della povertà.
Il resto della casa, un paio d’ambienti senza grandi fronzoli e nessun mobilio di pregio, non appariva disordinato come la stanza del ritrovamento, segno evidente di una mano amica che li teneva in ordine. Davvero strana abitudine, pensò il Barbarigo, perché un visitatore sarebbe stato accolto nello stanzone centrale, quello più lercio, tra polvere e disordine, certo non in camera da letto o in cucina. Ma cambiò subito idea: forse al defunto non piaceva che gli occhi di un eventuale domestico cadessero sulle sue carte. Oppure semplicemente gli andava bene così.
Dalla presenza del denaro sul tavolo e dall’uscio intatto il Signore di Notte pensò di poter escludere il delitto di un ladro sorpreso all’opera, un furto finito male, insomma. E poi, che tesori pensava di trovare un malvivente in quella casupola? Escluse pure che l’intruso avesse rovistato tra i documenti, perché il soqquadro della stanza gli parve cosa vecchia come la polvere sulle pile di carta.
Nell’ambiente che doveva fungere da cucina e dispensa tutto era riposto in buon ordine e pulizia. Un letto ben rifatto confermava la presenza di un servitore, magari di quelli tanto affezionati da seguire i padroni anche nella miseria, a condividerne stenti e privazioni. O forse uno schiavo comprato quando le cose andavano meglio e adibito a “famégio”, cioè a domestico, come la stragrande maggioranza degli schiavi a Venezia. Ma il Barbarigo scartò subito l’idea che un poveraccio come il Duodo fosse mai stato in condizioni di acquistarne uno.
Nella camera padronale un ingombrante letto a baldacchino troneggiava tra due seggioloni identici a quelli accanto al tavolo, con una cassapanca ai piedi e un basso armadio di lato. Su cuscino e coperte l’impronta di un corpo che si era adagiato senza infilarsi tra le lenzuola. Due ritratti degli avi di Nicolo che sembravano guardarlo severi negli occhi stavano appesi alla parete in cui si apriva la porta che dava sull’ambiente principale. Poca luce dalla finestra per gli scuri rimasti accostati.
La cassapanca gli ricordò d’averne vista un’altra in cucina, più grezza e che aveva perso gran parte della tinta originale, un verde che da nuova doveva essere stato sgargiante. Tornò in fretta nel locale per aprirla: ne uscì qualche indumento femminile, un paio di lunghi camicioni dai ricami stinti, corpetto e gonna per le grandi occasioni ancora in buono stato, un paio di scialli bianchi, e altre cosucce.
Lasciò ricadere il coperchio del baule e si precipitò all’uscio. Il rumore del botto mise in rapida fuga uno sbirro più curioso degli altri che si era avventurato poco oltre la soglia. Il Barbarigo chiamò a voce alta il capo contrada, che se ne stava a bighellonare con le guardie.
«Dite, missier!» rispose quello.
«La serva … la serva del nobile Duodo, sapete chi è costei?» incalzò il Barbarigo.
«Si chiama Apollonia, missier.»
La donna si chiamava davvero Apollonia, “detta anche Polonia”, aggiunse quello piccandosi di una precisione che non era affatto tale. Infatti rimase a bocca aperta quando tentò di ricordare il cognome. Il Barbarigo sorvolò e diede ordine di trovare questa Apollonia e di farlo in fretta. L’altro lo rassicurò con un cenno del capo, una specie di mezzo inchino frettoloso. Poi chiese cosa comandava il Signore di Notte riguardo al garzone che aveva scoperto il corpo dell’ucciso, tale Ferruccio.
«…Ferruccio Longheno, il figlio maggiore di…» stava tentando di precisare in vena di riscatto, ma il Barbarigo tagliò corto e decise in un baleno di sentire questo Longheno. Mentre si voltava per rientrare nella casetta cambiò repentinamente idea: l’avrebbe convocato in seguito, non ora, disse in tono perentorio. Il capo contrada annuì di nuovo con un altro cenno del capo.

Come è nata l’idea di questo libro?
Prima dovrei parlare della mia passione per la storia, tutta la storia, fin da ragazzo quando ai fumetti preferivo il sussidiario. Poi il saper trattenere i ditini dalla tastiera, quella del pc oggi, prima quella della Olivetti Lettera 32. Non ricordo come è accaduto, ma un certo giorno mi sono invaghito della storia di Venezia e pure della città. Soprattutto le vicende della Serenissima mi hanno stregato. Cosicché, dal miscuglio di queste passioni, scrittura, storia e Venezia è nata l’idea di scrivere un libro. Però, essendo un semplice dilettante, non avrei avuto titolo per imbarcarmi in un testo storico nel senso stretto del termine. Da qui l’ispirazione di cimentarmi in un giallo con risvolti storici e personaggi vissuti all’epoca.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La stesura ha comportato un corposo lavoro di documentazione all’Archivio di Stato di Venezia, alla Biblioteca Marciana e non solo. La bibliografia in coda al libro parla da sé. Un documento su tutti ha fatto da piattaforma alla costruzione del libro: un verbale ingiallito dai secoli, datato agosto 1605 e firmato da un magistrato, Francesco Barbarigo, diventato subito il protagonista del romanzo. Con ulteriori ricerche ho scovato gli altri personaggi, a partire dalla prima vittima del thriller, un aristocratico caduto in miseria e morto il 16 aprile 1605. Probabilmente di vecchiaia, ma nel giallo lo faccio finire ammazzato perché, se i personaggi sono realmente vissuti all’epoca, le vicende, al contrario, sono di pura fantasia. Si è trattato poi di concatenare gli eventi tenendo fede alla vita di questi personaggi, dove erano in quel tempo, cosa facevano, ecc. Quindi infinite scarpinate per la città alla ricerca dei luoghi dove ambientare il romanzo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Circa Venezia di sicuro i libri dello storico Alvise Zorzi, facili e accessibili a chiunque. Ma anche Paolo Preto e altri ancora. Importante la corposa “Storia di Venezia” della Treccani, un’enciclopedia in pratica. Rimanderei ancora una volta alla bibliografia in coda al giallo.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Bergamo da quasi quarant’anni, dove mi sono innamorato del volo in parapendio. Sono nato a Milano città con la quale ho conservato forti legami.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Avrei in cantiere un paio di idee, un paio di gialli storici, uno ancora ambientato nell’antica Venezia. Invece ho cominciato a scrivere un altro ambiento nell’estate del 1945, subito dopo la 2.a. G.M. Località ancora indefinita, ma penso tornerò in Veneto.
Ringrazio Matteo Carriero e Libri News per la cortese ospitalità offerta a Il Signore di Notte e al qui scrivente autore del medesimo.
Altre informazioni nel sito e pagina facebook di questo giallo storico ambientato nella Venezia del 1605.
A presto
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