
Edito da Santelli Editore nel 2022 • Pagine: 203 • Compra su Amazon
Il “Sole a strisce”, è un libro che nasce dall’esperienza vissuta da una psicologa chiamata a svolgere la sua attività in una casa circondariale.
L’intento del libro è di provare a sfatare alcuni stereotipi e pregiudizi che ruotano intorno al carcere, ai suoi ospiti e ai tossicodipendenti, come l’abbigliamento, che non è il pigiama a strisce visto nei film, o la mancanza di emozioni in chi ha un problema con le droghe.
Pregiudizi e stereotipi che fanno parte di un certo tipo di cultura “all’italiana”, talvolta facilona ma tagliente, capace di oltrepassare anche la corazza più robusta, di quella parte della società che è stata messa da parte, per i motivi più vari, nel vano tentativo di migliorarla. Vano, come si vedrà, perché il più delle volte il carcere non riabilita, anzi, non solo fallisce nel suo intento, quanto accresce la rabbia in queste persone, spegnendone anche ogni flebile entusiasmo verso la vita, che si traduce in un misero fallimento dello sperato cambiamento del loro stile di vita.
La storia è quella di una psicologa che accetta l’incarico da svolgere presso una casa circondariale, i cui ospiti sono affetti da un disturbo di dipendenza da sostanze (droghe di ogni tipo) e/o dall’alcol. Sono persone che sentono di essere abbandonate nei loro vissuti, fatti di un passato che non riescono né a lasciarsi alle spalle né a riconsiderare diversamente. Sono doppiamente prigioniere e la prigione più pesante da sostenere è forse proprio quella che hanno dentro.
Chiedono un supporto psicologico, il più delle volte, per sopperire alla mancanza di umanità che inizia ad albergare in loro o perché spinti dal desiderio di “normalità”, attraverso il contatto con qualcuno che sia “fuori” da quelle mura insormontabili, perché, in molti casi, ci sono disturbi psicologici che vanno di là della dipendenza e che richiedono una psicoterapia specifica.
La trama si snoda lungo un percorso in cui la vita della protagonista spesso s’intreccia con quella dei suoi “pazienti”, con le difficoltà da affrontare rispetto alle sue fragilità, che iniziano ad affiorare con sempre maggiore insistenza.
Emergeranno nuove dipendenze, fino a quel momento taciute, alcune anche paradossali, come quella del “carcere”.
Le storie narrate esprimono per lo più un vissuto doloroso d’infanzia e adolescenza infelice, sconvolto dalla presenza di genitori spesso violenti, ma anche assenti o noncuranti dei figli e da un ambiente sociale respingente, di cui tuttora sentono la minaccia. Uno stato di abbandono che accompagnerà i nostri protagonisti durante l’arco della loro vita.
Le vite presenti oltre quelle porte blindate, a tratti assumono la stessa matrice, una matrice fatta di “attesa” e di silenzi che non esclude nessuno, detenuti, personale sanitario e guardie in quanto vivono tutti una “sospensione” temporale, che li trattiene, in modo paradossale, tra quelle mura.
Il romanzo pur restando fedele, in tutte le sue parti, all’intento di assicurare al lettore una visione più umana della detenzione, volgendo lo sguardo verso il passato dei suoi ospiti e verso tutto ciò che non ha funzionato nella loro vita, si propone di essere un monito per i giovani che si avvicinano alle sostanze stupefacenti e all’alcol, con sempre maggiore inconsapevolezza e incoscienza, senza prevederne le conseguenze, talvolta terribili e irreversibili per la loro vita.
La lettura sarà anche motivo di stimolo per chi sta oltre quelle mura, ma che ogni giorno si perde quel pezzetto di cielo che ad altri è negato.
È una lettura stimolante che aiuta a riflettere sul senso della vita e sul valore da dare a sé stessi, agli altri e al mondo.
Riuscirà la nostra psicologa a innescare il tanto agognato cambiamento? E soprattutto, riusciranno loro stessi a mettere la parola fine a tutto quello che finora non ha funzionato e ricominciare per avere un sole non più a strisce?

Il boato delle porte blindate alle mie spalle, è tale da non riuscire a distinguerlo da quello dei tuoni, quando a fine agosto irrompono all’improvviso nell’aria ad annunciare l’imminente commiato estivo. Sobbalzo a ogni chiusura. Quante porte, una due, tre, quattro, cinque … ancora una e poi … Il mondo sarà fuori.
La zona liminare è il sentiero che segue i filari di pioppo. La scelta di indossare le scarpe rosse con i tacchi settanta non è stata per niente azzeccata. Il pericolo di essere trattenuta dalle grate, m’impedisce di avere un passo più spedito, eppure sono rimasta circa un’ora davanti all’armadio per decidere cosa indossare. Niente di troppo scollato. Niente di troppo corto. Niente di troppo appariscente. Niente di troppo aderente. Niente che potesse suscitare interesse verso il corpo femminile. Niente di troppo, era già tanto, ma agli occhi di chi è rinchiuso in un mondo in bianco e nero, sarebbe stato più opportuno considerare uno stile sobrio o uno che riportasse in quel luogo un po’ di vita a colori, insomma, meno informale o più ricercato?
Nel dubbio, mi sono forzata nella scelta di un abbigliamento casual. Ho indossato pantaloni blu, non troppo attillati e una blusa in tinta, non troppo scollata né troppo aderente, ma abbastanza ampia da coprire le mie forme.
Il giorno prima, al momento di preparare la valigia, avevo scelto due paia di scarpe e uno di stivali, ma a ripensarci adesso, questa non è stagione di pioggia.
La scelta delle scarpe da mettere in valigia, si era fermata sulle rosse con i tacchi settanta e un altro paio nero di camoscio, tacchi cinquanta, certamente molto più comode, ma durante il viaggio si era escoriata la parte sovrastante il tallone del piede sinistro, per cui questa mattina sono state subito evitate. Le scarpe rosse indossate, hanno anche il pregio di intonarsi con il bordo della blusa e la borsa professionale, per cui le ho scelte senza esitazione, ma incautamente, perché non ho considerata l’altezza dei tacchi.
Percorrendo questo viale, sento la fatica di un tragitto interminabile, aggravato dalla borsa pesante e dalle scarpe. Ancora non mi spiego il perché abbia messo in borsa oltre l’agenda anche due libri. Comincio a riflettere sulle mie emergenti ossessioni. Una di queste, abbastanza forte, è quella di portare con me, ovunque vada, almeno due libri, la mia agenda, due taccuini e tante penne, come se dovessi scrivere cento libri in un solo giorno. Libri che, a pensarci bene, il più delle volte non riesco neanche ad aprire, ma la sola presenza mi rassicura. Che assurdità!
Me ne rendo conto solo adesso, mentre percorro questo lungo e faticoso sentiero, tra griglie e sassi che rendono tutto talmente fastidioso che la tentazione di tornare indietro si fa ad ogni passo sempre più forte.
Eppure, continuo con un passo dopo l’altro ad andare avanti. Avrei potuto lasciare in albergo i taccuini, qualche penna e pure i libri, ma pensarci adesso è del tutto inutile.
Intanto, le porte blindate sbarrate alle mie spalle, mi danno una spiacevole sensazione di oppressione. A ogni passo ho davanti l’ennesima cancellata.
Questi cancelli sono a proteggere noi o chi dal mondo è stato chiuso fuori?
Inizio con le mie domande indecidibili.
Varcando l’ultima porta, sarei entrata in una dimensione che fino ad oggi avevo conosciuto solo attraverso i racconti di cronaca, le notizie dei media e la filmografia, tutte situazioni che mi riportano a un immaginario fatto di divise omologate a strisce in bianco e nero. Chissà se la realtà sarebbe stata diversa!
In questo luogo raccoglierò storie di vite che non mi appartengono, vicende che non sono mie, lontane da me, eppure un sottile pensiero s’insinua tra un passo e l’altro, comincio a chiedermi fino a che punto entreranno a far parte della mia vita.
Di colpo mi viene in mente l’acqua. L’acqua che scorre e prende la forma del contenitore. Mi ritrovo così a pensare a Elisa, la protagonista del film The shape of water. La giovane donna che vive ai margini del mondo, conosce pochissimo di tutto eppure non ha paura di abbracciare l’uomo anfibio, un essere dalle strane forme, un mostro agli occhi degli altri, che lei inizia ad amare proprio nell’acqua. Fonte di vita per entrambi, che diventa il luogo sicuro, puro, dove non c’è posto per il giudizio né per il pregiudizio. Un luogo familiare, ma anche miraggio di nuove scoperte, che assume la dimensione affascinante del sentimento di là di ogni preconcetto.
Oggi mi sento proprio così, come l’acqua. Un’acqua fluida, potente, buona, che scorre lungo pareti solide di cemento, che segue filari di pioppi, che lambisce porte e sfiora cancelli. Acqua che corre veloce in cerca di un varco, dove la attende la forma che le è più congeniale. Mi sento un’acqua straripante e senza alcun orizzonte, nessun limite, ma trasformatrice.
A un tratto provo una strana sensazione, un brivido mi percorre la schiena, come un presagio. Una certa quota di disagio comincia a pervadermi. Chissà se da questo momento in poi avrei sognato porte sbattute alle mie spalle o cancelli a sbarrarmi lo sguardo.
Del resto, faccio sempre troppi sogni durante la notte, chissà se i miei sogni sarebbero stati abitati da quest’immaginario di luoghi inondati e da queste mura inaccessibili. Eretti a proteggere il mondo, da chi l’aveva offeso, ma anche da chi si era sentito offeso ed emarginato da quello stesso mondo. Mi accorgo che, come il solito, penso troppo e mi dilungo con i miei volteggi pindarici che mi allontanano dalla realtà.
Intanto, il sentiero che separa l’ingresso dall’edificio principale sembra non avere mai fine, forse saranno i tacchi troppo alti a provocarmi questa indicibile insofferenza o il sole rovente che comincia a farsi sentire sulla pelle, al punto che dalla parte destra della fronte sento scorrere un rivolo di sudore, che scende giù fino a bagnarmi il collo e a rigare la blusa. Spero solo che non resti alcun alone, sarebbe poco elegante presentarsi il primo giorno con la camicetta macchiata di sudore. Assorta nei miei pensieri di estetica e bon ton femminile, procedo con un passo dopo l’altro, senza neanche rendermi conto del percorso fatto. Riuscirò a trovare la strada del ritorno al termine della giornata?
E soprattutto, saranno così tutte le mattine?
Primo incontro
Tutto avviene per seguire un senso inatteso e inspiegabile. Le cose accadono a volte senza un perché, cercare il motivo di certe scelte, spesso diventa un modo atroce di farsi del male e incanalarsi nel vortice di quei pensieri che non hanno una via di uscita.
Senza neanche troppa coscienza delle difficoltà che avrei dovuto affrontare, avevo accettato quest’incarico che mi portava distante da casa, in luoghi sconosciuti, lontani dalle mie piccole, quanto insulse e quotidiane abitudini. Ne avrei certamente adottate altre, con modi e tempi diversi, ma anche quei volti, che facevano parte della mia sfera vitale, sarebbero stati distanti.
In fondo in ogni cambiamento c’è la promessa del nuovo, che ha sempre il sapore delle cose buone, come di qualcosa di bello che ci attende da qualche parte. Non mi spaventano le novità. Faccio parte di quella schiera di persone che non percorrono mai la stessa strada per più di tre giorni, per andare nello stesso posto. Mi attirano gli inizi.
C’è sempre un principio per ogni cosa che nasce. Così l’incontro tra due sconosciuti, e ogni incontro è come un primo appuntamento, una nuova scoperta, per le attese e le soddisfazioni che promette, ma anche per il prodigio che compie, quando svela qualcosa che prima c’era ignoto. Comincio a chiedermi se le consapevolezze che arriveranno, saranno tali da costituire un transito verso una vita nuova, sia per me sia per ognuna di queste persone.
Sarei stata in grado di aiutarli a recuperare quella voglia di vivere una vita sana, unita a quel desiderio di buono che li aveva lasciati e da cui si erano fatti gettare nel dimenticatoio del mondo?
Le considerazioni, da cui erano emerse le anguste domande indecidibili, cui ero solita abbandonarmi e che avevano poco prima animato i miei passi, sono le stesse che adesso mi tengono seduta, su questa sedia di metallo freddo, privata di ogni contatto con il mondo esterno, che mi appare ancora più distante, considerato che sono stata privata anche del cellulare.
È calato il silenzio tra me e il resto del mondo. Tutto è rimasto fuori dalle mura e anche oltre i boati tumultuosi di quelle porte senza tempo, reboanti come solo può esserlo il rumore delle lamiere percosse.
Adesso mi trovo in questa stanzetta dalle pareti biancastre e umide, illuminata a malapena da un lucernaio, da cui posso appena scorgere la luce del sole. Sono qui e aspetto.
Il sole è rimasto fuori, ed è questo ciò che mi angoscia maggiormente, perché mi arriva timidamente sulle gambe, si allunga fino alla sommità della porta, riportando il segno delle grate verticali. Penso che questo sole, così come appare, a strisce, mi faccia sentire ancora più lontana da tutto, sospesa, ma nello stesso tempo immersa in qualcosa d’inconsueto, che non lascia spazi vuoti oltre questo tempo.
Il luogo è certamente insolito, con un odore disgustoso, come di un miscuglio tra il chiuso e il rancido, reso ancora più nauseante dall’esalazione del disinfettante che arriva dall’infermeria di fronte. A volte i piccoli oggetti possono alleggerire le atmosfere pesanti. Dalla borsa tiro fuori un campioncino di profumo, ne strofino un po’ sotto le narici e sulle mani, poi mi fermo pensando che sia troppo, e, come detto, avrebbe potuto creare turbamento negli ospiti del luogo, così lo ripongo in borsa. Mi concentro, cerco di immaginare quali potrebbero essere le richieste di aiuto che mi sarebbero state rivolte.
Solitamente, chi si rivolge a uno psicologo può farlo per tanti motivi, ma non riesco, per quanto mi sforzi, a pensare ai problemi che mi sarebbero stati rappresentati. La vita di queste persone avrà ritmi e incombenze specifiche, che certamente non appartengono al mondo di “fuori”, quindi anche le loro richieste sarebbero state diverse, ma le ansie, le paure, le angosce, i turbamenti sarebbero stati identici a quelli di coloro che “normalmente” svolgono la loro vita o avrebbero avuto colori e sapori diversi?
Sono intenta a pensare tutto questo e mi sorprende la serenità con la quale riesca ad affrontare questo momento, per me così particolare. Un respiro profondo, comincio a sentirmi svuotata di ogni pensiero, pronta ad assumere ogni tipo di forma, proprio come il ricordo dell’acqua di poco prima, anche se ancora non so se sentirmi più acqua o contenitore.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea nasce dall’esperienza reale vissuta. Il contatto diretto con la sofferenza e il desiderio di portare al di là delle mura di un carcere, le emozioni che si vivono quotidianamente. Uno spaccato di vita vera, che viene “dimenticata” dal resto della società. Forse per paura, proprio come le malattie, dalle quali molto spesso si fugge.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Parlare di sofferenza non è mai semplice, ma, in questo caso, è stata proprio questa la spinta motivazionale, vissuta personalmente, nell’indurmi a riportare la matrice esistenziale che si cela dietro la storia di ognuno dei detenuti protagonisti. Infatti, il libro sottolinea l’importanza dei rapporti affettivi dei bambini e degli adolescenti all’interno della realtà familiare e le conseguenze distruttive che si verificano quando manca la relazione di accoglienza e affettuosità genitoriale.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei riferimenti riguardano la Psicologia, essendo una psicoterapeuta, cerco di ispirarmi ai grandi maestri di questa nobile scienza.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Frascati, un bellissimo paese dei Castelli Romani, immerso nel verde. Le mie origini sono campane. Ho vissuto per molti anni a Napoli, dove ho studiato, pur essendo nata in un piccolo paese del casertano, la storica Terra di lavoro dell’agro aversano. Napoli resta comunque la cartolina più amata che custodisco nel cuore, con la straordinaria napoletanità trasmessami da mia madre.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dopo le due ultime pubblicazioni, il romanzo “Vulìa” e “Il sole a strisce”, ritorno alla saggistica con un lavoro rivolto al potenziale umano.