
Edito da Ilari C. nel 2018 • Pagine: 228 • Compra su Amazon
Cristian è il famoso numero 10 della Roma City, e ha tutto quello che desidera a portata di mano. Il calcio gli ha permesso di pagare i debiti di suo padre, e il successo di assecondare il suo bisogno di attenzioni. Il calcio gli ha dato tutto, a patto di non rivelare la sua bisessualità.
Samir è un pugile franco-tunisino di successo che per diventare tale è dovuto sfuggire al controllo di un padre violento. Sa chi dovrebbe essere, per suo padre, per i suoi connazionali, per la stampa, ma non chi realmente è. Perennemente in bilico tra il suo istinto di autodistruzione e la sua voglia di riscatto, è giunto a un compromesso: lui degli uomini non si innamora e questo, pensa, basta a renderlo come gli altri lo vogliono. Quando Cristian e Samir si incontrano si dicono entrambi che è solo sesso.
Cristian vuole concentrarsi sul calcio e su suo figlio. Samir ci tiene a restare l’eroe nell’immaginario collettivo dei suoi connazionali, e gli eroi, gli è stato insegnato, non sono gay. Ma la pressione dei tabloid, la curiosità morbosa dei fan, e, soprattutto, ciò che agita i loro cuori, rischiano di frantumare le loro maschere. Cosa si cela davvero sotto la superficie?

«Non più di due domande», l’addetta stampa della Roma City disse, rivolgendo uno sguardo tagliente al giornalista e spingendo Cristian per un braccio nella zona mista.
Il giornalista annuì e Cristian si domandò perché quella donna mettesse tanto in soggezione tutti, inclusi i giocatori che la conoscevano da anni. Doveva essere a causa dei modi decisi e perentori che non lasciavano spazio ad alcuna contestazione. O al suo aspetto sempre impeccabile, anche in un’afosa serata di fine agosto come quella. Cristian si abbassò le cuffie sul collo, poi abbassò anche il volume della musica, per sicurezza.
«Come pensi finirà questa finale di coppa nazionale?», domandò il giornalista, mentre lui si sistemava davanti al pannello costellato dai marchi degli sponsor.
Non sono un veggente, pensò, ma sorrise. «Con una nostra vittoria, spero».
«Cosa farai se il mister ti impiegherà ancora come attaccante laterale, nonostante tu nasca e dia il meglio di te come punta centrale?»
E cosa vuoi che faccia esattamente? Dio, quanto odiava queste domande. Cercò rapidamente nel suo archivio mentale una risposta diplomatica, scontata, e banale. «Mi impegnerò come sempre. Sono a disposizione del mister e della squadra». Riuscì pure ad accennare un altro sorriso.
Si sentì prendere per il braccio un’altra volta. Benedisse l’addetta stampa e si incamminò verso gli spogliatoi. Udì il vociare dei suoi compagni, ridevano, erano rilassati. Troppo. Sayid era seduto sul lettino e il fisioterapista era intento a massaggiargli un polpaccio.
«Ce la fai?», l’allenatore gli domandò.
Il difensore alzò il pollice in su.
Cristian osservò la divisa piegata e stirata alla sua postazione. Pronta soltanto per lui. Gli pareva ancora un sogno, qualche volta, quando leggeva il suo nome sulla maglia e sotto il numero 10. Ce l’aveva fatta, nonostante tutto. Nonostante all’inizio fosse solo e dubitasse di se stesso e del suo talento.
Ricordava perfettamente il giorno in cui un osservatore della Roma City era arrivato a Porto Cristo e si era imbattuto casualmente in una partita dell’oratorio dove lui giocava. Era stato un colpo di fortuna. Cristian non doveva neanche uscire di casa quel pomeriggio, pioveva e lui voleva tenere compagnia a sua madre. Voleva farla sorridere, perché gli sembrava che lei non lo facesse più tanto spesso. Quando c’era Juan, suo padre, di certo non lo faceva. Quel pomeriggio erano soli, era l’inizio di settembre e i turisti cominciavano a sfollare, le strade tornavano semivuote e tranquille, gli schiamazzi notturni sparivano quasi del tutto. Costanza era intenta a cucire una tenda, era sempre stata brava a trasformare il vecchio in nuovo, a nascondere gli strappi e le crepe. Lui aveva acceso la radio e aveva cominciato a ballare a tempo di musica, un tango argentino. La vedeva ridere e ne era felice. Quando suo padre non c’era era contento, e per quello si sentiva in colpa da morire, ma non poteva farci niente. Poi suo padre era arrivato. Aveva la faccia scura, livida, come il cielo pieno di nubi di quel pomeriggio. Non ebbe bisogno di dire nulla per spegnere il sorriso di sua madre. Doveva aver perso al gioco. Di nuovo. Una grossa cifra. Di nuovo.
Cristian se ne era andato sbattendo la porta, perché non voleva sentire più né vedere più l’ennesima scenata tra i due. Si era rifugiato nell’unico posto dove si sentiva sicuro, dove riusciva a smettere di pensare al sorriso spento di sua madre e a quello borioso di suo padre. Anche se pioveva aveva trovato altri ragazzini come lui al campetto, e qualche turista che era stato sorpreso dal temporale e aveva approfittato delle gradinate coperte per ripararsi, sebbene della partita di qualche giovane scapestrato a loro non importasse nulla. C’era una coppia di giovani che rideva felice e si baciava, un bambino che voleva unirsi ai giocatori e che la madre, con un grande cappello di paglia sulla testa, doveva tenere a bada, e poi c’era lui. Un uomo adulto, né giovane né vecchio, che dopo aver parlato per un po’ al telefono, aveva cominciato a fissarlo. Era nato tutto così, da un osservatore in vacanza che cercava un posto per ripararsi dalla pioggia e da un ragazzino in fuga dai suoi problemi. Neanche sei mesi dopo, Cristian era arrivato a Roma.
«Cerchiamo di attaccarli sulle fasce, qui sono deboli», l’allenatore stava dicendo, mentre con una penna indicava lo schema sulla lavagna. «Cristian, ti metto sulla fascia oggi, proprio perché puoi saltare l’uomo e creare superiorità numerica».
Annuì, Al centro o sulla fascia, si sarebbe impegnato e avrebbe segnato, o avrebbe aiutato i suoi compagni a farlo. Sugli spalti c’erano Marika e suo figlio, e Arturo con qualche altro amico. Marc, invece, era in studio a commentare la partita. Doveva fare bella figura.
«Andiamo a prenderci questa fottuta coppa», incitò i suoi compagni.
Nel tunnel che collegava gli spogliatoi al campo, udì i cori dei tifosi farsi sempre più alti e crescere insieme alla spasmodica attesa per l’inizio della gara.
Quei cori erano tra le cose che amava di più del suo lavoro, niente gli dava la stessa sensazione adrenalinica di un boato che esplodeva fragoroso dopo un suo goal. Qualche volta, quando andava a letto, quei cori gli rimbombavano ancora nelle orecchie e lui ne provava piacere, perché erano quasi sempre cori positivi. Non l’avrebbe mai ammesso, ma prima di scendere in campo si sentiva come un gladiatore pronto a guadagnarsi l’apprezzamento del suo pubblico e dopo si sentiva confortato dall’adorazione che i suoi tifosi gli avevano tributato. Era quel sentimento di adorazione a riecheggiare nella sua testa, la sera, più che le parole di quei cori ascoltate per novanta minuti.
Si sistemò con i suoi compagni a centrocampo a favore di fotografi e telecamere. Poi fu la volta dell’inno nazionale, una versione acustica cantata da una famosa interprete locale. Seguirono gli altri riti: il lancio della monetina, il capitano più fortunato che sceglieva la porta, le strette di mano. Poi il fischio di inizio.
Il campo era scivoloso, quella mattina aveva piovuto, e lui si trovò a terra più volte di quanto avrebbe voluto, sia per la scarsa tenuta del terreno, sia per i falli dei suoi avversari. Quando se lo trovavano davanti non si facevano scrupoli a fermarlo con le buone o con le cattive. Ma era come se ad ogni caduta l’odore dell’erba annusata così da vicino gli restituisse le energie. Era come una magia. I dolori li avrebbe avvertiti dopo.
Aprì le marcature colpendo d’esterno destro un pallone lanciatogli da Sayid. Lo stadio esplose e Cristian si beò dell’abbraccio dei suoi compagni, delle facce allegre dei suoi tifosi che proprio lui aveva reso tali.
Chiusero il primo tempo in vantaggio e completarono l’opera nella ripresa con un goal di testa del capitano. È fatta, pensò Cristian al triplice fischio dell’arbitro. Un’altra vittoria, un’altra coppa da aggiungere alle precedenti. Peccato solo che suo padre non avrebbe potuto vederla, né quella né le altre.
I compagni lo trascinarono sotto la curva per esultare e lui tentò di non pensarci più. Cercò con lo sguardo Marika e il bambino, li trovò festanti e gioiosi mentre lo salutavano con la mano. Seguì il bagno di gloria e quello di spumante negli spogliatoi. Poi altre domande la cui banalità ora era sopportata meglio grazie all’euforia della vittoria.
«Dopo una vittoria, ecco l’unico momento in cui Cristian è felice di rispondere ai nostri microfoni», gli disse Marc in collegamento, strappandogli una risata vera.
«Papi, papi, hai vinto!» Martin gli corse incontro felice, quando lui si sottrasse agli obblighi televisivi.
Cristian lo prese tra le braccia, piazzandogli un bacio sulla fronte. «Tieni». Gli porse la medaglia che aveva ancora al collo.
«Andate a festeggiare?», Marika gli domandò. «Pensavo di portare Martin qualche giorno al mare a godersi l’ultimo sole. Qui vicino».
Cristian vide il bimbo sorridere all’idea. «Certo, sì, portalo», le disse, sentendo già la nostalgia del piccolo che lo svegliava la mattina presto, perché voleva stare nel lettone.
Erano stati bravi lui e Marika a trovare un equilibrio, ad accettare la responsabilità di quel bambino arrivato dopo un incontro occasionale, quando erano entrambi troppo stupidi e troppo giovani per pensare alle conseguenze. Lei aveva diciannove anni e lui ventidue. Avevano deciso di comune accordo che Martin avrebbe vissuto con suo padre, ma lei rimaneva sua madre e come tale lo vedeva spessissimo. Un miracolo che avessero sistemato la situazione con poche tensioni, forse perché le avevano sfogate tutte durante la gravidanza.
Li guardò andare via felici, e poi andò via anche lui con i suoi compagni a festeggiare la vittoria in uno dei locali alla moda della capitale. Quello che scelsero sembrava scavato in una grotta, sotto gli archi di pietra bianca i giovani si muovevano scatenati, le pareti a bugnato venivano illuminate dalle luci psichedeliche e un dj invitava i presenti a ballare, muoversi, divertirsi. La prima bottiglia di spumante al loro tavolo era già andata. Patrizio era brillo e sua moglie non era da meno. Sayid era sobrio, ma Cristian sospettò fosse per paura di fare figuracce con le due ragazze che aveva invitato sulle sue ginocchia. Stava arrivando la seconda bottiglia, quando Arturo lo scosse per una spalla. «Che ne dici di quella?»
Guardò nella direzione che Arturo gli aveva indicato, vide una ragazza mora muoversi sinuosa e sorridergli. «Stasera non credo sia il caso», rispose, bevendo l’ultimo sorso del suo cocktail analcolico.
« C’è qualcosa che non mi hai detto? Sono passati diversi mesi da quando è finita con Daisy, anzi quasi un anno».
«Scusa?»
Cristian era stato con Daisy, una modella americana, per due anni. La loro storia era finita senza drammi. Lei era bella, intelligente, simpatica, ma quasi mai riuscivano a vedersi e l’amore si era lentamente spento, trasformandosi in amicizia. Dell’improvviso interesse di Arturo per la sua vita sentimentale avrebbe volentieri fatto a meno. Doveva già evitare le domande di sua madre e dei giornalisti impiccioni. Hai bisogno di un hobby, voleva dire, ma l’altro ricominciò a parlare.
«Mi chiedevo se avessi incontrato qualcuno di interessante, magari durante la tournée a New York».
«Non ho incontrato nessuno di interessante, dove avrei dovuto incontrarlo?» Mentì.
Aveva incontrato un’interessante aspirante giornalista all’hotel, un’interessante e procace fan a una delle amichevoli, e aveva incontrato Samir al New Moon, ma con nessuno di loro aveva avuto una relazione. Una sveltina nel bagno di un locale non era una relazione. Pensò, all’improvviso, che quella notte a casa non avrebbe trovato nessuno e per un momento avvertì un vuoto allo stomaco.
Arturo voleva dire qualcos’altro, Cristian lo sapeva dal modo in cui aveva alzato e poi abbassato il bicchiere, ma poi la sua attenzione fu catturata da qualcuno sulla pista. «Allora quel tipo. Che ne dici? Ha un gran fisico, credo». Indicò un uomo alto e massiccio vicino al bancone del bar.
«Dio, Arturo… e pensare che non sei neanche ubriaco. Sei solo naturalmente idiota».
«Stasera porti a casa me, quindi», Arturo disse e da come l’aveva guardato, un po’ ironico, un po’ tenero, Cristian sapeva che aveva capito.
Non poteva essere altrimenti: Arturo lo conosceva in un modo in cui gli altri suoi amici non avrebbero mai fatto. Era stato lì con lui e sua madre quando Juan non rientrava a casa. Era stato con lui quando Cristian scappava per non assistere all’ennesimo arrivo di un creditore. Era con lui anche quando giocava sul campetto dell’oratorio, ed era stato con lui il giorno dell’epilogo finale, quando aveva detto addio a suo padre, a tutte le cose buone e a tutte quelle cattive di quell’uomo, per sempre.
Tra una settimana sarebbe stato l’anniversario di quel giorno.
La villa era vuota, buia e silenziosa, proprio come Cristian se l’aspettava, ma Arturo era con lui e questo lo fece sentire meglio. Dio, quanto odiava non riuscire a godersi appieno la vittoria di quella sera a causa dei ricordi. Sistemò la medaglia, che aveva ricevuto durante la premiazione, nella vetrinetta dove conservava i suoi trofei. Aveva adibito una stanza del piano terra a quella che sperava fosse una collezione di medaglie e coppe in crescita. E di palloni. Ogni domenica chi segnava una tripletta poteva portarsi a casa il pallone della partita.
«Tuo padre ti voleva bene», Arturo gli disse.
«Quando si ricordava che esistevo. Forse sarebbe stato più facile se fosse stato un uomo orribile tutti i giorni, invece ci lasciava sempre una speranza a me e a mia madre, come se fossimo stati aggrappati a una roccia e lui passasse ogni tanto a pestarci la mano, ma senza farci mai cadere giù». Sentì la mano di Arturo posarsi sulla sua guancia. «È passato un sacco di tempo e invece mi sembra sia accaduto ieri, e sono ancora arrabbiato con lui».
«Sembra ieri che facevo figure di merda al campetto con te, che già ti atteggiavi a campione».
Cristian sorrise. «Non eri tanto male, sai?»
L’altro sbuffò. «Se lo dici tu… Stanotte dormo da te e domattina parliamo di quello che dobbiamo fare nei prossimi quattro giorni».
«Che succede nei prossimi quattro giorni?» Cristian spense la luce della stanza e si incamminò verso la cucina. Se doveva parlare con il suo amico, non voleva farlo più davanti ai suoi trofei, ma seduti sulle sedie nere dall’alto schienale che circondavano l’isola in marmo bianco.
«Sayid vuole trascorrere i prossimi giorni liberi che vi ha concesso l’allenatore a Maiorca. Ci ha invitato, che ne pensi?» Arturo prese una pentola dalla credenza, e Cristian già sapeva che avrebbe preparato una spaghettata notturna.
«Chiamiamo anche Marc, se no si offende».
«E Marina?»
«Se lui vuole e se lei è libera, perché no?»
«Non ti ho detto che prima mentre controllavo i tuoi social…»
«Non li apro da due giorni. Per favore, dimmi che non sono al centro di qualche stupida polemica», Cristian lo interruppe. Aveva milioni di seguaci sui social. Sapere cosa si diceva di lui tutto il tempo, tutti i giorni, non era possibile. D’altro lato, anche a questo serviva un assistente personale.
«Ho visto che Samir, l’amico di Sayid, giusto? Ti ha menzionato, qualche giornale ci ha anche scritto un articolo».
Il nome di Samir risvegliò il suo interesse. A New York non si erano scambiati neanche i numeri di telefono e, dopo ciò che aveva letto di lui su Internet, aveva deciso che forse era meglio così. Eppure, il ricordo di quell’incontro si riaffacciava talvolta nella sua mente, senza preavviso. «Che ha scritto?» Si sentì stupido per essere così ansiosamente curioso.
«Vi faceva solo un in bocca al lupo per la partita di oggi. Vuoi rispondergli qualcosa?»
«Pensaci tu, qualcosa di generico».
«Quanto entusiasmo…non ti è simpatico?»
A tratti, voleva rispondere, invece si alzò e porse al suo amico una confezione di pasta. «Non lo conosco abbastanza per dirlo».
L’altro lo guardò come se avesse detto una stupidaggine. Non c’è bisogno di conoscere qualcuno per sapere se ci è antipatico. «Dopo questa, ce ne andiamo a letto», disse comprensivo.

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea è nata da casi di cronaca, purtroppo constatare che nel mondo esistono paesi in cui si rischia di essere arrestati per via del proprio orientamento sessuale è molto triste. Nei paesi più avanzati si sono fatti passi avanti, ma tanti pregiudizi sono duri a morire, e seguendo da vicino uno sport come il calcio mi sono resa conto che le differenze sono ancora un tabù. Prendendo spunto da queste situazioni ho pensato di approfondire l’argomento in chiave romance, sperando che si colga non solo la classica storia d’amore, ma anche un più ampio messaggio di fondo.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
La cosa più difficile è stato rivederlo, correggerlo, e apprendere espedienti narrativi che per me erano sconosciuti. L’ho scritto di getto, ma ho creato sette stesure per raggiungere un risultato che ho ritenuto accettabile per essere una prima esperienza.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Non ho autori di riferimento in particolare, anzi cerco sempre di non cadere nell’emulazione dello stile di altri autori, ma tra coloro che mi hanno colpito c’è Bulgakov per la sua capacità di scrivere qualsiasi cosa, anche la più strana, con grande naturalezza.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Mi sono divisa tra più città in Puglia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ho intenzione di proseguire con l’approfondimento di questa storia, con l’intenzione di trasformarla in una serie, in cui affrontare di volta in volta tematiche diverse.
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