Edito da Baldini+Castoldi nel 2019 • Pagine: 336 • Compra su Amazon
«Al termine della prima settimana, seicento assaggi avevano già azzerato ogni mia volontà di capirci ancora qualcosa. In quattro, cinque giorni mi spazzolavo la storia del Barolo o dell’Amarone, pretendendo anche di giudicarla. Era come stilare la classifica dei migliori film della stagione, fermandosi ai titoli di testa. Il mio spettacolo non andava mai oltre l’unghia del bicchiere. E seduti di fronte a me, non vedevo più colleghi e collaboratori, ma polli da batteria, costretti a beccare senza sosta.»
Con tono schietto e pungente, Tiziano Gaia ci conduce nel mondo dei vini e di chi li degusta per professione, alternando autobiografia, coloriti aneddoti, curiose disquisizioni tecniche e riflessioni sulla spettacolarizzazione dell’enogastronomia.
La sua esperienza da «paura e delirio a Slow Food» sotto l’egida del carismatico fondatore, gli anni di coinvolgente apprendistato, la descrizione della giornata-tipo in veste di degustatore per Vini d’Italia, una maratona di un centinaio di assaggi quotidiani per tre mesi l’anno, fino ai vividi ritratti delle figure più importanti della viticoltura italiana, l’ascesa del Barolo, i riti contadini e i costumi delle Langhe, tra balòn e partite a tressette, il tartufo e lo storico mercato delle uve di Alba. Un dissacrante «dietro le quinte» della critica enologica e una storia del vino raccontata in modo originale e sagace, incentrata sulla sua trasformazione in bene voluttuario, spogliato della funzione di bene primario e dunque potenzialmente inutile, ma a cui l’Autore riconosce la straordinaria capacità di cavalcare o addirittura anticipare i cambiamenti socio-culturali del nostro tempo.
Era il mio primo giorno di lavoro. Alle nove di mattina mi ero presentato nell’ufficio di presidenza di Slow Food, dove mi fecero accomodare su un divanetto in attesa che Carlo Petrini terminasse una riunione. Siccome la cosa andava per le lunghe, la segretaria si affacciò nello studio per avvisare che ero arrivato. «C’è Gaia!» annunciò. Fu come se avesse detto che il palazzo stava andando a fuoco. Sentii un trambusto di sedie e tonfi sordi sul pavimento, libri urtati e fatti cadere nella foga, seguiti dai passi di più persone che guadagnavano veloci la porta. Per prima vidi sbucare la mole possente del presidente. Dietro di lui sgomitavano affannati due dei suoi più stretti collaboratori, gli stessi con cui avevo fatto il colloquio una settimana prima. Carlin rimase di sasso, mentre sul volto dei miei futuri capi la frenesia che aveva accompagnato l’interruzione del briefing mattutino si trasformò in una malcelata delusione. Convinti che non ci fosse altro Gaia al di fuori di Angelo (Gaja), si erano precipitati a omaggiare il produttore di vino italiano più famoso al mondo, amico stretto di Petrini e spesso di passaggio presso i lidi arcigolosi. Trovandosi di fronte, invece, un tappetto di ventiquattro anni, dall’aria timida e smarrita, che non si ricordavano già più di aver assunto, ci mancò poco che io chiedessi scusa per non essere chi si aspettavano io fossi. Oggi sarei più rilassato e cercherei di smorzare l’imbarazzo con una battuta, ma allora la mia specialità era abbassare gli occhi e incassare con stile. Carlin fu un signore e recuperò all’istante il suo bel sorriso sornione. Quanto a me, capii che entrare in Slow Food con un simile cognome avrebbe potuto rappresentare una vera iattura (anzi, una jattura), ma, lì per lì, decisi di non farmene un cruccio. «Buona fortuna, fieul!» mi strizzò l’occhio il grande capo, nel congedarmi.
«Sei parente di Angelo?»
Questa domanda me la sarei sentita ripetere quasi ogni giorno nei dieci anni successivi. E la risposta è no, non sono parente di Angelo Gaja, anche se qualcosa in comune, oltre l’apparente omonimia, The King e io ce l’abbiamo. Intorno agli anni Trenta, mio nonno paterno si stabilì a Castellinaldo, un paesino del Roero, e tirò su una cascina ai piedi della secolare chiesetta campestre di San Servasio, mettendosi a produrre vino e coltivare pesche. Da piccolo adoravo quel posto. Era un mondo a parte, popolato di animali da cortile, vecchi trattori, zie premurose e cugini con cui ho trascorso estati intere a correre dietro a un pallone e ad arrampicarmi sugli alberi. A un certo punto ci trasferimmo a Carmagnola, in città. Doveva essere una soluzione temporanea, invece rimanemmo lì per molti anni. Per me fu un dramma. Mi considerai sempre di San Servasio e vissi la stagione carmagnolese come una parentesi sul mio cammino, che oggi salto a piè pari persino nei ricordi. Sono figlio della campagna, magari un po’ imbastardito, ma di sicuro più a mio agio sotto un cielo curvo che in mezzo ai tratti distesi della pianura. Andavo ormai alle medie e mi ostinavo a dire, con orgoglio, che da grande avrei seguito le orme di nonno Pasqualìn e sarei stato un contadino. Non è andata così, ma penso ancora che una collina sia tutto ciò che serve per essere felici.
Col vino ho sempre avuto un rapporto un po’ strano. E a dire il vero, fino al fatidico incontro con Slow Food, lo ignoravo del tutto. Eppure, da San Servasio vedevo più vigne che cielo. La mia preferita era quella in punta al cortile, dove il nonno aveva piantato il moscato d’Amburgo che il sole generoso in agosto inturgidiva fi no a farne scoppiare gli acini arrossati, croccanti come caramelle, e dal gusto dolcissimo. E mi piaceva infilarmi di soppiatto nella vecchia cantina, per sentire il mosto borbottare come una presenza complice. Amici e cugini, di poco più grandi, erano già passati attraverso le prime ebbrezze alcoliche, e cercavano ogni volta di coinvolgermi. Ma io continuavo a rimandare.
Come è nata l’idea di questo libro?
Ci pensavo da un po’ di anni. Dopo aver concluso la mia esperienza come critico e degustatore per la guida Vini d’Italia, edita da Slow Food e Gambero Rosso, ho iniziato a pensare al mondo del vino non più in termini di punteggi e riconoscimenti, ma di storie, luoghi e protagonisti. Ho dunque pensato che sarebbe stato interessante ricostruire gli anni trascorsi a Slow Food e vederli in una luce un po’ diversa, ossia, da un lato, come il lungo apprendistato personale in un ambiente lavorativo molto originale, con tutte le avventure e disavventure del caso, e dall’altro come la lente d’ingrandimento di fenomeni più ampi, se è vero che anche il vino e la cultura materiale del food possono dirci tante cose su com’è cambiata la nostra società negli ultimi 20 anni.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Il difficile è stato dare un ordine alla gran mole di materiale che avevo a disposizione! Condensare in un numero “ragionevole” di pagine una decade molto intensa di vicissitudini professionali e umane, intrecciandole con quanto accadeva oltre il mio orticello e oltre il mondo del vino stesso, è stata una bella sfida.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Cesare Pavese, ovviamente (data la mia radice albese-roerino-langarola…), poi Gabriel Garcìa Màrquez e, tra i contemporanei, Emmanuele Carrère.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Torino ma ho vissuto a lungo a Castellinaldo, un piccolo paese tra le colline del Roero, non lontano da Alba. È quello il luogo della memoria e delle radici.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ora sono impegnato nella promozione di “Stappato”, che sto portando in giro per tutta l’Italia, e non ho le idee chiarissime sul prossimo progetto. Soggetti ne ho parecchi, in effetti, ma, come diceva Calvino, a un certo punto bisogna passare dalle tante idee plausibili alla sola percepita davvero come “necessaria”. E non sono ancora arrivato a questo punto.
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