Edito da EDIZIONI MONTAG nel 2019 • Pagine: 85 • Compra su Amazon
Agli inizi degli anni Settanta, in una notte di tempesta, in una città di provincia dell'Italia Centrale viene commesso un eferato delitto. Cesare Filangieri, stimato uomo d'afari, viene ucciso in modo feroce: gli viene tagliata la gola con un'arma singolare, una janbija, pugnale di origini nordafricane che aveva conservato dall'epoca della conquista d'Etiopia, a cui aveva partecipato nelle fle delle Camicie Nere.
Un paio di testimoni afermano di aver visto una donna allontanarsi da Palazzo Thoss, dove Filangieri viveva, e il commissario Antonio Strano, incaricato delle indagini, si dedica agli interrogatori ed esamina attentamente la scena del delitto. Uomo colto, amante delle arti, Strano si concentra su alcuni particolari: l'arma del delitto, la bibbia aperta sulla scrivania della vittima, la ricca e antica biblioteca e, poiché il movente passionale non lo convince, indaga sul passato della vittima e si concentra sull'esame dell'ambiente in cui viveva.
Sostenuto dal suo spirito di osservazione, scopre un nascondiglio nel quale sono raccolte le testimonianze di un passato cruento e le prove di una rete di ricatti nei confronti di alcuni compagni di ventura nelle colonie dell'Impero, che hanno raggiunto posizioni di prestigio nell'Italia repubblicana. Strano capisce che deve indagare in quella direzione, convinto che una delle vittime dei ricatti di Filangieri abbia voluto farlo tacere per sempre. Il commissario va a Roma dove si trovano i personaggi che pagavano il silenzio di Filangieri, ma il racconto di uno di loro gli apre gli occhi e gli fa comprendere come nulla sia ciò che sembra. Il commissario Strano giungerà alla soluzione, ma gli uomini su cui indaga e i poteri che rappresentano non gli permetteranno di proseguire oltre. L'atmosfera di sottofondo è quella dell'Italia delle trame, delle infiltrazioni della destra nelle stanze del potere, dei servizi segreti deviati, dei delitti inspiegabili a mai spiegati.
Mi guardai intorno; la grande sala rettangolare era divisa in tre parti: a sinistra dell’ingresso lo studio e, alle spalle di questo, un salottino arredato con tre poltrone e una dormeuse in stile Chesterfield attorno a un tavolino su cui erano posati due bicchieri di fine cristallo e una bottiglia di brandy di ottima qualità; a destra una grande biblioteca separata dal resto del salone da un ampio arco: sui quattro lati le pareti erano ricoperte da scaffali colmi di libri di ogni epoca.
I soli posti che procurano immortalità sono le biblioteche, pen- sai, leggendo sui dorsi i nomi di alcuni scrittori la cui fama ave- va attraversato i secoli indenne. Forse Giulio Cesare sarebbe stato ricordato comunque per aver segnato il passaggio dalla repubblica all’impero romano, anche se non avesse scritto i “Commentarii de bello gallico”, e Giovanni di Pietro di Bernardone sarebbe divenuto San Francesco anche se non avesse scritto il “Cantico delle creature”, ma chi avrebbe ricordato Marco Valerio Marziale, emigrato dalla Spagna e squattrinato “cliente” della nobiltà romana, se non ci avesse lasciato i suoi velenosi epigrammi o il pur nobile Giuseppe Tomasi principe di Lampedusa, se non avesse scritto “Il gattopardo”?
Iniziai a osservarmi attentamente intorno. Dei cartigli scolpiti nello stesso legno scurito dal tempo con cui era realizzata la li- breria indicavano gli argomenti dei libri. Sparsi sul piano del grande tavolo rinascimentale in noce massiccio, al centro della biblioteca, alcuni volumi; aprii quello che mi era più vicino: “Le bordel de Venise” del Marquis De Sade, edito nel 1931, illustrato con alcune tavole di Couperyn esplicitamente erotiche. Minosse si affacciò alle mie spalle, sbirciò l’illustrazione sulla pagina aperta del libro e ironizzò: “Alla ricerca di indizi, Anto’?”
Su un lato del tavolo poggiavano un sottomano in pelle, fogli e buste di pregio color avorio, una stilografica Omas, alcune mati- te dalla punta acuminata, un flacone di inchiostro e un tampone di carta assorbente. A giudicare dall’usura e dalle macchie im- presse sul sottomano, Filangieri era solito tenere una fitta corrispondenza.
Notai che lo sportello con la rete metallica che custodiva i libri di argomento sacro era socchiuso; uno spazio vuoto su uno scaffale, per le sue dimensioni, pareva destinato ad accogliere la Bibbia che ora giaceva sulla scrivania. Il Libro dei Libri era aperto su una pagina dell’Apocalisse di Giovanni. Era un caso che la janbiya fosse stata abbandonata proprio lì? Chi aveva ucciso Filangieri avrebbe potuto semplicemente farla cadere a terra piuttosto che girare attorno alla poltrona su cui era riverso il cadavere sanguinante per raggiungere la scrivania e appoggiar- la al centro della Bibbia aperta.
Intanto ci aveva raggiunti il dottor Monpezat, il magistrato di turno. Scambiai con Valdemaro poche parole mentre ci avvicina- vamo alla scena del delitto; alla vista del cadavere e di tutto quel sangue storse il naso: era giovane e aveva poca dimestichezza con i morti ammazzati. Mentre il dottor Ravajoli lo ragguagliava sui risultati dei primi rilievi, aveva tratto da una tasca dei panta- loni un fazzoletto di cotone bianco, immacolato, e se lo era pas- sato ripetute volte sulla fronte e sul lungo naso affilato imperlati di sudore; appena il medico legale ebbe finito di esporre le sue considerazioni, il magistrato lo salutò e, mentre ci allontanava- mo velocemente, rivolto a me bisbigliò: “Dio! Come si può fare un mestiere simile?!”
Come è nata l’idea di questo libro?
È nata dall’incipit rubato al romanzo di Snoopy: “Era una notte buia e tempestosa”, che meglio di ogni altra immagine rende l’atmosfera di un delitto. Non mi vergogno di questo “furto”, che in realtà vuole essere un omaggio a Charles Schulz e alle strisce dei Peanuts. Naturalmente c’era anche la bozza di una vicenda che fondava le proprie radici in un evento storico legato all’avventura del colonialismo italiano in Africa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Un libro giallo richiede un’attenta definizione della sequenza degli avvenimenti e una particolareggiata documentazione su tutti gli argomenti di carattere storico, tecnico, ambientale che lo scrittore decide di inserire nella sua opera, soprattutto quando le vicende non si svolgono nella contemporaneità, come nel caso di Una storia cruenta, che è ambientata nel 1970 e contiene riferimenti all’occupazione italiana dell’Abissinia negli anni Trenta. Il maggiore impegno è compensato dall’apprendimento di nuovi saperi che spaziano dalla medicina alla psicologia alla criminologia, dalla storia alla cronaca alla sociologia ecc. Sono una persona curiosa e da quello che apprendo durante le ricerche fatte prima di scrivere un articolo o un racconto a volte prendono vita gli intrecci di nuove trame o i profili di nuovi personaggi.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Fin da ragazzo ho cominciato a leggere i classici della letteratura poliziesca: Poe, Conan Doyle, Christie, Simenon, Stout, Chandler, che costituiscono un incomparabile back ground culturale da cui attingo ormai inconsapevolmente. Più tardi ho abbandonato quasi del tutto la letteratura gialla e mi sono dedicato ai classici di ogni tempo, tra questi ve ne sono alcuni che hanno scritto dei capolavori con sfumature di giallo più o meno accese, per esempio: Sciascia, Fruttero & Lucentini, Tabucchi, Eco, Kressmann Taylor, Richler, che giudico dei punti di riferimento imprescindibili, degli autori di grande levatura letteraria.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Mio padre svolgeva una professione che, allora, richiedeva frequenti trasferimenti e, di conseguenza, ho viaggiato molto. Ho trascorso l’infanzia nel Friuli Venezia Giulia, l’adolescenza a Macerata, ho frequentato alcuni anni di università a Perugia e poi a Bologna, dove ho svolto l’attività di giornalista pubblicista per trentacinque anni, infine quasi per caso qualche anno fa mi sono trasferito a Pennabilli, in Romagna. Ho viaggiato in Italia e all’estero e ho vissuto un anno in Messico.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Architettare trame e delitti è molto stimolante: sei costretto a immedesimarti nel carattere e nella psicologia di personaggi molto lontani da te, a ragionare come un criminale e a commettere gesti che non faresti mai, dando vita a tanti mister Hyde. All’opposto devi costruire le figure che hanno il compito di contrastare il “male”, di individuare i colpevoli, nel mio caso il commissario Antonio Strano, e il suo profilo deve essere realistico e convincente, tanto da farne un “personaggio”. A volte, anche se i fatti gli sono chiari, le decisioni che deve prendere sono sofferte perché i confini tra “bene” e “male” sono frastagliati. Con Una storia cruenta ho gettato le basi per un lavoro appassionante e coinvolgente che mi ha già portato a scrivere i soggetti di nuove inchieste. D’altra parte, i giudizi di tutti coloro che hanno letto il libro sono stati più che lusinghieri, quindi continuerò su questa strada.
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