
Edito da Scatole Parlanti - Alter Ego Edizioni nel 2019 • Pagine: 120 • Compra su Amazon
La recensione di Graziella Nenci
Le straordinarie cognizioni di un gatto morente è l’ultimo lavoro di Giorgio Meneguz, psicoterapeuta conosciuto per la sua professionalità e per le sue pubblicazioni di opere divulgative e articoli su riviste specializzate.
E’ un romanzo assai diverso dai lavori precedenti perché, pur incentrato sulla psicoanalisi, è presentato come un racconto letterario, nato da un’amicizia, vera, tra l’autore e un gatto che ha lasciato in lui tanti ricordi.
Un gatto che non gli è appartenuto, un gatto di strada, randagio, che girava dalle parti del suo studio e che un giorno gli si è avvicinato, si è strofinato ai suoi pantaloni, è diventato a poco a poco suo amico, guadagnandosi l’accesso al suo studio, dove ogni giorno, per anni ha trascorso ore serene, ben protetto.
Una amicizia durata a lungo, fino alla morte della bestiola, che ha lasciato nell’amico uomo un grande senso di vuoto e anche di colpa per non averlo potuto aiutare nel momento della malattia e del distacco.
La prima pagina del romanzo ci presenta il gatto, ormai malato, chiuso in una gabbia, che spera che Niccolò, il suo amico psicoterapeutico, venga a salvarlo.
Nel ricordo di lui inizia un “viaggio mentale”, che lo riporta al giorno del loro primo incontro, un giorno di primavera, in una natura piena di luci e di colori: fiori dappertutto, campanule, passiflore, tulipani, gerbere, azalee; il sole che scalda i sassi su cui si allunga il ramarro.
L’unica nota stonata in tanto splendore è un personaggio “losco per scelta e malfatto per natura” che vive in una stamberga….una catapecchia buia….dove, insieme alle galline c’è anche un gattaccio dal pelo incrostato di color topo”.
Fin dalle prime pagine si capisce che questo è un gatto assai particolare, pur essendo nelle fattezze un gatto (il Rosso, come lo chiamerà Niccolò, Miao, come sa di chiamarsi lui stesso), dimostra eccezionali capacità di osservazione e di ragionamento; nulla gli sfugge, capisce tutto e reagisce con sentimento.
Entrando nello studio di Niccolò, inizia addirittura una strana trasformazione da felino ad umano. E’ affascinato dagli odori, dai mobili, dai quadri, dalla luce che entra dalle grandi finestre, dai tappeti: per la prima volta, in questo ambiente così rassicurante, assapora la felicità, lui che da piccolo, tante volte, è stato trattato male e cacciato via in malo modo.
Qui comincia ad abituarsi alle carezze e alle coccole del dottore e ai suoi ospiti (non pazienti, ospiti, perché il dottore non è un medico che cura con pillole; lui si occupa di ben altro: delle sofferenze dell’anima, non meno pericolose di quelle del corpo, che però vanno curate con ben altri metodi).
Con discrezione, comincia a capire in cosa consista la professione del suo protettore; è attento al rapporto che questi instaura con gli ospiti, un rapporto di empatia, cercato sempre con grande gentilezza, anche se in modo fermo, senza mai urtare la suscettibilità dell’altro, che spesso ha paura, o vergogna di svelare le sue difficoltà. Un lavoro di ascolto attento, di dialogo, di partecipazione profonda, per arrivare insieme a scavare dentro, e per trovare nei recessi dell’anima il motivo della sofferenza. Una sofferenza che spesso nasce da un eccesso di sensibilità, da aspettative deluse, da incomprensioni, da paure antiche, che bloccano la capacità di vivere in modo sereno. E quando finalmente il problema viene risolto e si giunge al risultato sperato, Niccolò è così felice da provare “commozione”, perché egli ha “partecipato “emozionalmente a tutto il percorso fatto per arrivare lì.
Il gatto osserva, comprende tutto questo ed è felice per lui.
Ma il viaggio del gatto prima di arrivare nello studio è stato lungo e faticoso. Molti sono stati gli avvenimenti della sua vita precedente, molte le esperienze che ha fatto, quelle belle, poche, quelle meno belle, tante; tanti i luoghi in cui ha sostato, in “case” di solito povere, a volte baracche, tuguri, poco accoglienti. Bello era però andare coi bimbi a casa dei nonni là, sulla collina luminosa. Tante le persone con cui ha avuto a che fare, adulti e bimbi. Gli uomini di solito sono stati i più duri, a volte rozzi, mentre le donne più tenere e in ombra. Coi bimbi, tranne un’eccezione, si trovava bene.
Ogni sosta sembra un punto di arrivo, e invece ogni volta c’è da ripartire, sempre però senza rimpianti, con pazienza e con nuove speranze.
È facile interpretare questo gatto come una rappresentazione dell’alter ego dell’Autore, un se stesso nella parte di vita precedente alla sua formazione professionale; che lo “studio” luogo di grande serenità e quiete per il gatto e di alta professionalità esercitata e vissuta con profondo impegno e passione da Niccolò, il punto di arrivo, simbolo di una meta felicemente raggiunta.
E proprio in questo studio si raggiunge, a parer mio, il punto più alto del romanzo. Un giorno si reca da Niccolò un giovane, pieno di belle speranze, a chiedergli di fargli da maestro, per imparare da lui a diventare un terapeuta di anime. E Niccolò, con umiltà e profondo orgoglio, ricorda e rivive la sua stessa esperienza, quando anche lui si era recato da quello che sarebbe diventato il suo maestro per chiedergli di guidarlo per la sua stessa strada. Ricorda l’emozione, l’imbarazzo, la vergogna e il timore di essere da lui giudicato. E gli aveva parlato del suo «desiderio di realizzarsi nella vita, della sua rabbia… di politica… delle sue illusioni…» e da un argomento all’altro aveva fatto in breve la sintesi della sua vita. Aveva ricordato «sua nonna…, notevole e appassionata narratrice…e il suo vellutato dialetto»; i suoi genitori e il loro italiano maccheronico. Aveva rivisto la «casa della sua infanzia»; ricordato una Pasqua di ragazzino, in cui era entrato nella sua vita e nella sua casa «un gatto dal pelo nero… piuttosto malconcio, magro, ossuto da far paura, ma il portamento pareva comunicare un linguaggio dignitoso». E lui si era alzato da tavola per portare a quel gatto sconosciuto «un brandello di pollo», che però «il gatto nero aveva voltato la schiena ed era sparito». E ricorda i gatti della nonna: «la grande gatta grigia, il gatto bianco con gli occhi azzurri e il suo fratellone...con un occhio verde giada e l’altro che sembrava di lapislazzuli». E gli erano venute in mente altre scene della sua infanzia. Tutto questo in un breve lasso di tempo. Ora, questi ricordi lo fanno sorridere; ora che, professionista affermato, sa che nel «suo mestiere… [bisogna] interrogarsi costantemente su di sé, riflettere sulla realtà circostante, sulla dimensione del potere nelle relazioni, sulle azioni fatte e su quelle desiderate o pianificate, dubitare più che mostrare sicurezze... [essere abbastanza sensibile e avere] a sufficienza di quelle risorse d’immaginazione, naturalezza, vitalità, creatività, che sono indispensabili per aiutare le anime in pena a scoprire come risolvere da sé i problemi».
Questa pagina ci dà una lezione di grande umanità; umanità che affiora da tutta la lettura; nella descrizione limpida e serena della natura, nell’amore per gli animali, specialmente per i gatti, nell’empatia, nella gentilezza, nella partecipazione profonda nell’accostarsi agli altri in un contatto rispettoso e mai distaccato prima di scendere nei recessi dell’anima.
Inoltre è da evidenziare anche una bella capacità descrittiva e narrativa, non scontata in uno scrittore di argomenti “scientifici”, dotato di cultura specifica sempre supportata da conoscenze umanistiche, filosofiche e letterarie, indispensabili nell’esercizio di una professione tanto delicata. Anche il linguaggio narrativo si mostra ricco ed espressivo; i vocaboli sempre appropriati nel delineare con pochi tratti precisi ed efficaci volti, persone, azioni, emozioni. Non ho avuto il coraggio di leggere le due ultime pagine del romanzo per me troppo dolorose, anche se la vita mi ha insegnato che dolore e gioia si intrecciano e vanno accettati.
Concludendo: un romanzo ampiamente autobiografico, documento di una vita vissuta intensamente, nella ricerca e nel raggiungimento di un alto obiettivo: vasta preparazione culturale e una professione svolta con grande amore e partecipazione.

Un’anima buona mi ha soccorso
Un’anima buona mi ha soccorso e mi sono svegliato qui, in questa gabbia pisciata, con un ago nel braccio; e il risveglio in questo luogo sconosciuto pregno di puzze disgustose e lacerato da latrati e miagolii di altri animali feriti o ammalati in cattività, mi ha spaventato a morte. Dov’è finita la mia dignità? Spostandomi per capire meglio che cosa stava accadendo, mi sono reso conto, con quella disperazione che ancora mi strugge l’anima, che la cachessia mi toglie la forza di muovere anche il più piccolo muscolo. Certamente un gruppo di malvagi benintenzionati testerà qualche sostanza sui miei occhi, come raccontò Niccolò una sera – accadeva davvero in certi posti! Approfittando della mia debolezza, abuseranno del mio corpo e della mia mente, con ogni mezzo e sistema, senza alcuna compassione. Esseri umani in camice bianco scosteranno la palpebra inferiore dal bulbo e nella conca vi lasceranno cadere gocce di candeggina, inchiostro, di un sapone o di una crema di bellezza. Nella gabbia di contenzione, nello stabulario non potrò grattarmi né fuggire, e i miei occhi diventeranno una dolorosissima unica piaga. Oppure mi chiuderanno in una camera a gas, dove respirerò esalazioni e vapori sperimentali, o sarò esposto a radiazioni. Forse mi immobilizzeranno con cinghie e legacci vari, e poi spalmeranno le sostanze tossiche sulla mia pelle rasata, che si scorticherà e si riempirà di penose bolle pestilenziali. Subirò shock fisici o emozionali che mi faranno perdere la consapevolezza di ciò che sono o faranno esplodere il mio cuore. Dovrò ingurgitare pastiglie e sciroppi che scateneranno il fuoco nelle mie vene e mi provocheranno il vomito e le più atroci convulsioni fino all’arrivo della morte che mi libererà dalla tortura, dopodiché mi faranno a pezzi per studiare qualche prodotto commerciale per il vezzo e la moda superficiale degli esseri umani.
Quando il dottore degli animali mi ha afferrato per i fianchi per estrarmi dalla gabbia, l’ho guardato con l’angoscia nel cuore perché intuivo che i miei dolori sarebbero terminati presto, poiché questo è sicuramente il mio ultimo viaggio. Ero tutto un dolore, e soprattutto mi doleva la schiena, ridotta a una cresta di spuntoni ossei dal collo alla coda, ma la delicatezza con cui il dottore mi ha preso in braccio mi ha dato un certo conforto. Forse non mi avrebbero torturato. Infatti, mi ha portato su un tavolo di ferro lucido che puzzava di disinfettante e animale spaventato e, con l’aiuto di una dottoressa, mi ha palpato il ventre e lo ha rasato. Dopo aver spalmato una fredda gelatina trasparente, ha fatto scivolare sulla mia pelle un aggeggio, ma solo per un breve momento. Non c’era alcun pericolo, lo sapevo che potevo fidarmi, ma continuavo a tremare ed è uscito dalla mia bocca piagata un flebile miagolio. La dottoressa ha appoggiato un dito sul lato interno della mia coscia, vicino all’inguine, lo ha fatto scorrere con leggerezza e si è fermato sulla mia arteria. Quando ha schiacciato lievemente il cordoncino col polpastrello, io ho avvertito il pulsare del sangue sotto la pressione del dito. Non sono riuscito a cogliere in lei quell’aria fiduciosa e speranzosa, quella serenità di circostanza, che m’illudevo di trovare. Ho cercato di sollevare la testa, ma il mio collo è ricaduto e non mi è rimasto che tenerla appoggiata al palmo della mano che la dottoressa non ha ritratto. Quando mi ha preso in braccio, ho cercato i suoi occhi con lo sguardo impotente e li ho visti tristi e bagnati.

Come è nata l’idea di questo libro?
E’ la storia di un gatto randagio che ha veramente frequentato il mio studio per diverso tempo. E quando il gatto morì mi misi a scrivere la storia un po’ per elaborare il lutto e un po’ per riparare il senso di colpa di non averlo adottato. Ho cercato di mettermi nella mente del gatto, di vedere le cose con i suoi occhi e di raccontare tutto dal suo punto di vista.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è mai facile scrivere un racconto/romanzo che sia al contempo una narrazione parzialmente autobiografica e romanzata della realtà e, anche, volutamente, una rappresentazione simbolica e metaforica.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Mi piacciono gli autori classici.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo da sempre in provincia di Verbania.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Mi sto cimentando con un romanzo imperniato sulle vicissitudini di quattro medici in un ospedale nell’Africa Centrale.
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