
Edito da Streetlib nel 08/03/2018 • Pagine: 142 • Compra su Amazon
Ho letto le autobiografie di Andre Agassi, Monica Seles e Serena Williams, e so che molti altri atleti hanno impresso le loro prodigiose gesta su un libro. Quanto sarebbe meraviglioso poter scrivere di essersi fatti un gran mazzo e di aver vinto tutto quello che si sognava di vincere da bambini? Ci avete mai pensato? “Volevo vincere la Coppa del Mondo di calcio e ce l’ho fatta”, o “Desideravo la medaglia d’oro alle Olimpiadi e ci sono riuscito” … Il mondo intero rimarrebbe a bocca aperta se aveste una simile dichiarazione, sareste considerati dei fenomeni, delle leggende, degli esempi da seguire. Il problema è che di Andre Agassi ce n’è uno su un milione, forse. Gli altri 999.999 sono comuni mortali che perseguono obiettivi molto meno pretenziosi e non hanno la minima idea di cosa voglia dire avere una vita così di successo. Io sono una tra quei 999.999, e ho deciso di scrivere le mie gesta tragicomiche per tutti coloro che sono come me: appassionati, sognatori, persone alla perenne ricerca di piccole grandi soddisfazioni. Sportivi qualunque. Tennisti normali a cui non sono stati donati né il diritto di Federer, né la caparbietà di Nadal. Scrivo per quelli che entrano in campo con la paura di perdere e quando inaspettatamente arrivano al match point si rendono conto di avere il terrore di vincere, sebbene non si trovino affatto sul campo centrale di Wimbledon. Racconto la mia storia a chi non prende una multa se fracassa per terra la racchetta in mondovisione, ma due sberle dalla mamma nella privacy della sua cameretta sì. Flavia Pennetta ha scritto la sua biografia poco prima di vincere lo Us Open, Maria Sharapova subito dopo essere stata trovata positiva al doping. Io scrivo prima di perdere il prossimo turno del torneo di Mercato Saraceno e ben consapevole di essere positiva al Voltaren. Si fa quel che si può.

Mi sentii subito a mio agio su un vero campo da tennis con una vera racchetta in mano. Il Maestro del Circolo, Paolo, mi vide giocare un pomeriggio e quando mia mamma tornò a prendermi le disse: «Signora, sua figlia è portata, perché non la iscrive ai corsi? Cominceremo a settembre.» Io ne fui entusiasta, mi divertiva tantissimo colpire la pallina, era qualcosa che mi riempiva di fiducia. Giocavo sia diritto che rovescio a due mani e correvo, correvo, correvo come un leprotto. Iniziò ad allenarmi Roberto, al quale mi affezionai tantissimo fin da subito. Era bravissimo con noi bimbi, sapeva creare un’alchimia pazzesca. Fu grazie a lui che guadagnai presto il soprannome di “Muretto”: a chi giocava con me, la palla tornava sempre indietro. Ero l’unica femmina in un gruppo di bambini con cui parlavo poco. Non sono mai stata una gran ciarliera, e quando giocavo a tennis, giocavo e basta. Tutte le mie maestre di scuola, ai colloqui con i genitori, mi definivano “riservata”. Detto in parole povere e schiette, volevano dire che “mi facevo beatamente i fatti miei”. Ed era vero! Non raccontavo mai nulla di me, io ascoltavo, e senza esprimermi più di tanto assorbivo come una spugna tutto ciò che avevo intorno. Ricordo perfettamente l’odore che percepivo nell’aria quando entravo al campo 5: era il più bello e il più familiare che potessi sentire, per non parlare del rumore delle palline che colpivo… cosa poteva esistere di più meraviglioso? Il mio cuore si ricoprì ben presto di una folta peluria gialla. Quando non potevo giocare al Circolo, a volte palleggiavo contro la parete esterna dell’ufficio di mia mamma. POK, POK, POK, POK, POK, POK… non mi stancavo mai. Forse mia mamma sì, ma aprirei una parentesi complessa. Si consumavano partite infinite contro quel muro, molto spesso vere e proprie tragedie sportive. Quando la pallina rimbalzava due volte, era punto suo. Quando la mancavo, era punto suo. Quando colpivo la finestra invece della parete, era guaio mio. Ma continuavo sempre a pensare che un giorno l’avrei sconfitto. Sapevo di poter battere lui e CHIUNQUE mi si fosse parato davanti. Durante tutto il primo anno di Scuola Tennis, frequentavo anche le lezioni di nuoto. Era già il quinto anno che sguazzavo in acqua piuttosto bene. C’erano giorni in cui finivo la lezione di tennis, mi cambiavo, e andavo direttamente in piscina. Ho sempre adorato anche nuotare, ma per me il divertimento non era paragonabile. Come ci si può divertire sbatacchiando le gambe e guardando scorrere delle piastrelle azzurre sotto di sé, quando si può prendere una racchetta, correre, colpire una pallina, avere un avversario di fronte, fare punto e respirare ossigeno anziché cloro? Dai su, siamo seri. Il segno degli occhialini non è una cosa che può essere definita spassosa. E neanche una tallonata sulla coscia da parte del vicino di corsia che sta imparando goffamente a nuotare a rana. A fine anno l’istruttrice mi chiese se avessi voglia di entrare nella squadra di nuoto agonistico. Fu la goccia che fece traboccare la piscina. Nuoto AGONISTICO??? Siamo matti? È come dire annoiarsi con maggiore impegno! Allenarsi duramente al solo scopo di far uscire le bolle dalla bocca senza creare troppo attrito non faceva per me. Smisi di andare in piscina il giorno stesso. Io ero una tennista, punto e basta.
A maggio del 1995 feci il mio primo torneo Under 12, quello che veniva organizzato tra tutti gli allievi della Scuola Tennis. Non c’erano altre bambine della mia età, quindi fecero un’eccezione e giocai contro i maschietti del mio corso. Ricordo la semifinale, mio padre mi accompagnò e guardò tutta la partita. Battagliai duramente contro un bambino più grande di me di un anno, Lorenzo. Nessuno dei due mollava una palla. Fu la prima volta che capii cosa volesse dire soffrire per vincere, perché avevo le scarpe nuove e delle vesciche disumane nella pianta di entrambi i piedi. Vinsi zoppicando dopo un’ora e mezza di partita semplicemente perché… non potevo perdere. NON VOLEVO perdere.
Il giorno della finale si presentarono tutti in campo. I miei genitori, i miei compagni di corso e i loro genitori, e molti altri bambini della Scuola Tennis che io non conoscevo nemmeno. Mi appropinquai a rete per il sorteggio. Matteo, il bambino che dovevo affrontare quel giorno, era venti centimetri più alto di me, e anche lui aveva un anno in più. Ma non avevo paura. Giocare a tennis era un tale divertimento per me che non sentivo tensione. Persi il primo set 4/0. Era più potente di me, tirava più forte. Ma non potevo perdere. NON VOLEVO perdere. Cosa potevo fare per ribaltare la situazione? Correre ancora di più, giocare sul suo colpo più debole, non sbagliare prima di lui. Avevo tutto ben chiaro in testa. E così feci. Non commisi più errori, ero un muro di gomma. Un “Muretto”, per l’appunto. Vinsi 4/2 4/2 i set successivi. Prima dell’inizio dell’ultimo game guardai mio padre e mia madre e sorrisi, me lo ricordo ancora. Un sorriso da furbetta. Stavo pensando: “Sì sì, proprio così amici… Vinco io.” La mia prima coppa era dorata, piccola, bellissima. E c’era scritto: 1^ CLASSIFICATA.

Come è nata l’idea di questo libro?
Gioco a tennis da quando ho 9 anni, è la mia grande passione. In questo libro ho voluto raccontare tutto ciò che ho sempre provato sul campo da tennis: i miei sogni, le mie frustrazioni, le mie paure, le mie gioie, quello che di buono ne ho ricavato nel corso degli anni (adesso ne ho 34). Tutto questo in maniera molto auto-ironica, non mi prendo mai troppo sul serio. La scrittura comica è l’altra mia grande passione.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Non è stato difficile perché da adolescente io scrivevo il classico “diario segreto” dove commentavo le mie partite, i miei allenamenti, tutto quello che mi succedeva tennisticamente parlando. Ho pensato di raccogliere ed adattare le vicende tragicomiche raccontate in questo diario per farlo diventare un libro vero e proprio.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Uno dei miei autori preferiti è Stefano Benni, ma per questo libro in particolare i miei riferimenti sono stati i grandi sportivi che hanno raccontato le loro storie e i loro successi, primi fra tutti i tennisti, come Andre Agassi, Serena Williams, Monica Seles.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Vivo a Castenaso, in provincia di Bologna, ma per 27 anni ho vissuto a Bologna. Attualmente insegno tennis a Ozzano dell’Emilia.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Oltre a questo libro, che è l’ultimo che ho scritto, ho scritto 3 libri che riguardano i miei viaggi negli Stati Uniti d’America, sempre in chiave comica. Al momento sto lavorando a un quinto libro che racconta il mio matrimonio alle Hawaii, avvenuto l’anno scorso. E lì c’è veramente tanto da ridere perché l’ho organizzato io in tutto e per tutto, e il mio inglese scritto e parlato è a livello di prima elementare…
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