
Edito da Rudis Edizioni nel 2021 • Pagine: 298 • Compra su Amazon
La vita di una donna in coma in una casa di riposo; una giovane coppia costretta a trasferirsi in cerca di lavoro; la morte del signor Joneston, dirigente di medio livello di un'agenzia di trading. Tre storie all'apparenza slegate tra loro. Ben presto, però, l'intreccio prenderà forma.
L'anima di Joneston, finita all'Inferno e sottoposta al giudizio di uno dei Demoni Giudici, Neti, è misteriosamente incorruttibile, ed ha addirittura il potere di modificare a suo piacimento la sostanza stessa degli Inferi.
Neti, incaricato da Lucifero in persona di indagare su quegli straordinari poteri, scopre un segreto nascosto nel passato: la sua memoria, come quella di tutti gli altri demoni, viene cancellata di continuo per essere tenuta all'oscuro di una verità difficile da immaginare...

Non che il Creato si interessasse a simili manifestazioni di egoismo e attaccamento ai valori materiali, s’intende. Gli esserini si affannavano per sopravanzarsi, acquisire denaro, provare piaceri, come se ai fini della trama globale dell’esistenza ne valesse davvero la pena. Ma era una razza giovane e poco esperta, sempre sull’orlo dell’autodistruzione, e quel modo di interagire con la realtà materiale era il solo che conoscevano.
Una di queste postscimmie era, nella fattispecie, un esemplare del tutto privo di qualsiasi caratteristica positiva che lo distinguesse dagli altri. Era mediamente falso, mediamente meschino, mediamente arrivista, mediamente ricco, un signor-via-di-mezzo che in quello stravagante concetto di società passava persino per uomo di successo, e il suo atteggiamento nei confronti del prossimo era in sintonia con il suo modo di essere.
I dipendenti dell’azienda di trading nella quale il signor Jonas Joneston (era questo il bizzarro nome della postscimmia) operava come dirigente di medio livello, lo avevano etichettato con molti soprannomi che definivano il suo contegno: la Iena, il Mostro, l’Orrido, nomignoli maligni dei quali era perfettamente a conoscenza, ma che apprezzava alquanto, considerandoli un tributo alla sua ferocia e risolutezza. Scatenava scenate per un nonnulla, sviliva i collaboratori, era privo di pietà nei confronti di chiunque. Ve lo sareste facilmente potuto immaginare a rubare l’elemosina dalla cassetta delle offerte in chiesa, se ne avesse avuto qualche tornaconto. Era praticamente scontato che, nel momento in cui un granello di sabbia fosse finito nel grande ingranaggio dell’universo, quel granello sarebbe stato il signor Joneston.
Avvenne infatti che un mercoledì 13 luglio, in apparenza non dissimile da tutti gli altri mercoledì, nella Grande Città scoccasse l’ora della pausa per il pranzo. Di solito il signor Joneston rimaneva nel suo ufficio al trentesimo piano del Grande Grattacielo nel quale l’azienda per cui lavorava aveva sede, nutrendosi di pillole di ogni colore, e tempestando di chiamate i collaboratori e i sottoposti. Si compiaceva nell’assegnargli compiti spesso inutili, solo per il gusto di infastidirli e tenerli sotto pressione. Quel giorno particolare, invece, doveva incontrarsi a pranzo con un suo ex compagno di università.
Non che nutrisse particolari simpatie per quel compagno in particolare, o per nessuno in generale, in effetti. Ma in questo caso era diverso, perché il personaggio in questione era piazzato molto in alto nelle strutture politiche della città, e questo poteva tornargli alquanto utile.
Perché il signor Joneston non si era ancora rassegnato a essere uno stronzo nella norma. Voleva diventare uno stronzo maestoso, uno stronzo in grande stile, voleva espandere il suo concetto di stronzaggine a un livello più elevato. Era fondamentalmente un arrivista senza scrupoli.
Del resto, perché no? Era nato in una piccola cittadina di provincia, in uno stato dall’altra parte del continente, cresciuto da una madre mediocre e fallita con la quale aveva interrotto ogni relazione ormai da anni. Era sempre stato preso in giro per i vestiti di seconda mano, per la sua scarsa altezza, per la pelata diventata incipiente quando non era ancora trentenne, per le gambe vagamente a X. Si era sempre sentito dire da tutti che era inadeguato, e la sua reazione, come spesso accade, era stata abnorme. Aveva lavorato e lavorato, calpestato e calpestato, senza curarsi di niente e di nessuno, e ora era oggettivamente benestante, con un bell’attico in centro e un solido conto in banca. Una volta all’anno si concedeva una vacanza di una settimana in qualche paese tropicale, dove approfittava dei favori fisici di ragazzine che avrebbero potuto essere sue figlie per sfogare un istinto che nessuna donna, durante la sua vita solitaria, aveva avuto interesse ad acquietare. Tutto questo per dire che, in fondo, il fatto di avere un così brutto carattere non era tutta colpa sua.
Non che il signor Joneston avesse il minimo interesse a razionalizzare queste cose. Era poco più di una macchina da azione-reazione, e le motivazioni o le conseguenze dei suoi comportamenti spesso e volentieri gli sfuggivano. È solo per rimarcare come sovente le situazioni più confuse e problematiche si presentano come ultimo anello di una catena, che trova le sue origini in remote profondità.
Fatto sta che in questo caso l’ex compagno, con il quale in una diversa situazione non si sarebbe intrattenuto neanche per il tempo necessario a un caffè, si trovava nella posizione per aiutarlo a superare il suo status. Ne era prova il fatto che si era dovuto impegnare mesi e mesi per ottenere un misero incontro, a conferma del calibro del personaggio. Ragion per cui, quando arrivò il momento della pausa pranzo, il signor Joneston si alzò dalla poltrona, infilò la giacca, strillò due o tre direttive inconsulte alla segretaria (che impallidì, non avendo capito una parola di ciò che aveva detto, ma non osando chiedere chiarimenti), e procedette impettito verso gli ascensori, ometto ultra cinquantenne rotondo e quasi pelato, con un vigoroso riporto e spesse lenti bifocali. Era nervoso, teso, speranzoso, colmo di aspettativa, un mix di emozioni contrastanti che non gli erano abituali, e gli facevano sentire la testa e il petto gonfi come palloncini.
Mentre percorreva il corridoio con l’abituale espressione feroce dipinta sul viso, esultando dentro di sé quando notava un sottoposto che svicolava per prudenza in qualche varco laterale per evitarlo, ebbe però la sgradita sorpresa di imbattersi in uno dei soci dell’azienda per cui lavorava, Patrick Fitzgerald. Era un suo coetaneo, ma nella vita aveva già uno status sociale ed economico parecchio più elevato del suo. Già questo era detestabile, per il signor Joneston.
Ancora più detestabile, dal suo punto di vista, era che Patrick non avesse dovuto fare nessuno sforzo, per conquistare il Potere che possedeva. Si era ritrovato in mano l’azienda di famiglia quando il padre era passato a miglior vita, e tutto quello che aveva non se lo era dovuto guadagnare prevaricando e ingannando gli altri in prima persona. Sfruttava lacchè e dipendenti per il lavoro sporco, ma non si era mai dovuto esporre in prima linea, se vogliamo dire così.
Ultimo motivo per meritarsi il suo disprezzo, Patrick gli affibbiava sempre incarichi stupidissimi di cui avrebbe potuto farsi carico lui, senza riconoscergli nulla per i risultati che otteneva.
Jonas lo odiava con tutto se stesso, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco, almeno fin quando non avesse trovato una strada alternativa per la sua carriera.
Patrick Fitzgerald, dunque, lo intercettò proprio in vista degli ascensori. Giunse annunciato dal suo completo grigio, dall’abbronzatura perfetta, dalla pancetta prominente, e dal costoso dopobarba in cui, a giudicare dal fetore, aveva l’abitudine di fare il bagno. Se fosse arrivato dieci secondi dopo lo avrebbe di sicuro mancato, ma purtroppo non fu così.
«Ciao, Jonas! Che fortuna incontrarti qui. Come va?», esordì Patrick, garrulo.
«Salve signor Fitzgerald», gli rispose il signor Joneston, arrendevole. «Tutto molto bene, stavo uscendo per mangiare qualcosa.»
Patrick rise di gusto, facendo sussultare la pappagorgia che gli faceva capolino dalla camicia da quattrocento dollari.
«Ma come? Credevo ci volesse un avvenimento per trascinarti fuori dal tuo ufficio. Deve proprio essere un’occasione importante.»
«Niente di che, davvero», disse Jonas, impacciato. «Ho solo voglia di prendere una boccata d’aria.»
«Bravo, bravo, te l’ho detto mille volte che ogni tanto dovresti staccare», lo incoraggiò Patrick, in tono cordiale. «Senti, hai molta fretta?»
Le porte degli ascensori si aprirono, e un paio di suoi colleghi vi si infilarono di soppiatto. Jonas li osservò un attimo, poi mentre le porte si richiudevano si volse di nuovo verso l’interlocutore, facendo un sospiro di rassegnazione tra sé e sé.
«No, signor Fitzgerald. Mi dica.»
Patrick gli si accostò, guardandosi intorno con aria complice e abbassando il tono di voce.
«Sai che sarei dovuto partire tra un paio d’ore per un meeting con il gruppo di Atlanta, vero?»
«Certo, le ho organizzato l’incontro io, non si ricorda?»
«Assolutamente sì, assolutamente sì», confermò Patrick, rosso in volto. Il signor Joneston si rese conto che era eccitato come un ragazzino. Ancora poco, e si sarebbe messo a ballare. «Avrei dovuto andarci, ma ho dei gravosi impegni di lavoro, quindi ci andrai tu al posto mio.»
Jonas rimase immobile, come congelato. Una parte di lui non voleva credere a quello che aveva appena sentito.
Un aereo prenotato per Atlanta. Che partiva tra due ore. Com’era possibile? Non ce l’avrebbe mai fatta a pranzare con il suo contatto. Avrebbe di nuovo dovuto implorare per mesi e mesi, per poter ottenere un altro incontro, e non era neanche detto che gli sarebbe stata concessa una seconda occasione.
Forse aveva sentito male. Meglio chiedere.
«Mi scusi, signor Fitzgerald, non ho capito. Devo andare io ad Atlanta al posto suo?»
«Proprio quello che ho detto. Sei sordo, Jonas?», lo rimbrottò Patrick, sbuffando. «Io ho un altro impegno, come ti ho detto. E visto che Atlanta è fondamentale per i progetti della nostra azienda, devi andarci tu per forza. Sei il solo che può assentarsi i quattro giorni necessari a illustrare il progetto di espansione sulla costa Ovest, e conosci l’argomento a menadito. Quindi, andrai tu.»
«Ma come… è impossibile. Il biglietto è nominale, e…»
«Ho già dato istruzioni alla mia segretaria di cambiarlo a nome tuo», lo interruppe Patrick, benevolo. «Devi solo preparare il bagaglio, e andare spedito in aeroporto. Ancora meglio, parti così, e compri il necessario quando sei là. Ti do il permesso di usare la carta di credito aziendale.»
Le mani della postscimmia Joneston si contrassero al punto che le nocche spiccarono visibilmente bianche sul colorito roseo della pelle. Se c’era una cosa che mandava in bestia il signor Joneston, che lo mandava in bestia più del normale, s’intende, era quando venivano vanificati i suoi programmi. Se la richiesta fosse arrivata da qualcun’altro, il signor Joneston non si sarebbe fatto riguardi nei confronti dell’interlocutore, e lo avrebbe insultato passando in rassegna tutti i termini scurrili che il suo vocabolario gli consentiva. Ma il livello sociale di questo specifico personaggio, ben superiore al suo, e il fatto che per il momento aveva necessità di continuare a lavorare per lui, gli imponevano di far finta di niente, e ingoiare il rospo.
Così, la postscimmia Joneston sarebbe potuta apparire perfettamente calma a un osservatore esterno. Ma la tensione delle mani e delle spalle indicava che di calmo, dentro di lui, non c’era nulla.
«Mi perdoni, ma quali impegni gravosi le sono subentrati? Fino a stamattina andava tutto bene», balbettò.
Il suo balbettare avrebbe potuto sembrare indice di timidezza o paura, ma era invece lo sforzo che compiva per non esplodere di rabbia davanti al suo direttore, che stava mandando in corto circuito il suo cervello.
Fitzgerald fece una risatina beffarda.
«Non dovrei dirtelo, in realtà, ma visto che sei così gentile da togliermi le castagne dal fuoco… non si tratta proprio di un impegno di lavoro. Diciamo che quella ragazza di cui ti avevo accennato, quella che mi sta togliendo anni di vita, si trova a Parigi per motivi personali. Così, mi tocca raggiungerla al volo. Mia moglie crede che io debba rimanere in trasferta quattro giorni ad Atlanta, mentre invece sarò in Europa. Non so se mi spiego.»
Certo che ti spieghi, laido puttaniere, urlò la voce interiore del signor Joneston. Tu vai a scoparti una ragazzina a Parigi, e mi molli qui come un idiota per seguire gli istinti del tuo uccello schifoso. Che tu possa crepare!
«Si spiega, sì», si costrinse a dire. Rise anche profusamente, ma il colorito paonazzo che gli stava imporporando il viso era perlomeno preoccupante. «Non stia a preoccuparsi per me, mi organizzo per chiamare un taxi, e corro in aeroporto.»
«Ecco, bravo, fallo, fallo. Io me ne vado. Se hai qualche dubbio chiedi alla mia segretaria, lei è informata di tutto. Buon viaggio.»
E dopo averlo congedato con un gesto distratto della mano, si allontanò fischiettando per il corridoio. Il signor Joneston rimase qualche secondo immobile, come pietrificato, ascoltando soltanto il ronzante rumore sordo che gli stava montando nel cranio. Le porte degli ascensori si aprirono di nuovo. Altri colleghi gli scivolarono a fianco, restando a prudente distanza, e scesero ai piani inferiori.
Dopo un lasso di tempo che gli parve espandersi in eterno, Jonas si girò verso la direzione dalla quale era venuto. Galleggiando come in un sogno, percorse il corridoio, sino a una porta di vetro spesso con il suo nome scritto sopra a lettere eleganti. Entrò nell’ufficio, senza notare lo sguardo apprensivo della segretaria che non capiva il motivo del cambio di programma, e si chiuse saldamente la porta alle spalle. Quando fu al sicuro tra le mura del suo studio, fece qualche passo verso la scrivania, e prese in mano la cornetta del telefono. Aveva fatto quei gesti in modo automatico, ma quando appoggiò la cornetta all’orecchio, e udì il suono di libero, iniziò a cedere.
Le crisi di aggressività erano per lui una consuetudine quotidiana, quasi un modo di vivere, ma la collera che sentiva in quel momento era scervellata, montante, enorme, come se file intere di picchetti di sicurezza stessero saltando nel suo cranio, in modo lento ma insesorabile.
«Schifoso… bastardo…», sussurrò, nel vuoto della stanza arredata con eleganza. Le stampe giapponesi alle pareti lo fissarono con muta disapprovazione.
«Brutto… stronzo… puttaniere…», stavolta a voce un po’ più alta.
Stringeva il telefono così forte che sembrava lo stesse per spezzare in due.
«Bbb… bbbbb…»
Le labbra gli tremarono, incapaci di emettere un suono adatto a quello che gli si agitava dentro. E poi a un tratto, come una diga alla quale cedano di colpo le fondamenta, tutto esplose. Il signor Joneston si drizzò nella sua scarsa altezza, rivolse il viso in alto verso il soffitto dell’ufficio, e cacciò un grido belluino.
«BASTARDOFOTTUTOSTRONZOSCHIFOSOFIGLIODITROIACANEMALEDETTO»
Si chinò un istante per prendere fiato, appoggiando le mani sulle cosce, mentre stelline scure gli volteggiavano davanti agli occhi. Il cuore gli martellava nel petto, così forte da dargli l’impressione volesse schiodargli le costole. Per un vago istante si chiese se non stesse per venirgli un colpo, ma l’urgenza che gli cresceva dentro era tale, che il rischio d’infarto passava decisamente in secondo piano. Quindi riempì i polmoni a dismisura, si erse di nuovo gonfiandosi come il rospo della famosa fiaba, e riprese la sua cantilena.
«PORCATROIAPUTTANADITUAMADREINCULATABESTIAMALEDETTASTRONZODI MERDA»
Il profluvio di insulti era stato così inaspettato e possente, che i rumori famigliari delle persone che lavoravano nelle stanze adiacenti alla sua erano calati pian piano di intensità, quasi cercassero timidamente di mettersi al riparo dalla sua furia animalesca. Nessuno mise piede nel suo ufficio, e questo fu un bene, perché in quel momento il signor Joneston avrebbe squarciato le carotidi a morsi a chiunque gli avesse rivolto la parola. Era in un altro mondo, nel mondo della sua furia, e nessuno avrebbe potuto farlo uscire da lì.
In piedi, con le mani ancora appoggiate sulle cosce, sempre stringendo il ricevitore del telefono, Jonas stava per partire con la terza salva di insulti quando, travolto dalla pressione devastante della sua ira, un grande vaso sanguigno dentro al cervello gli si lacerò di colpo, come un tubo fessurato.
Il signor Joneston non se ne rese conto. Aveva il capo rivolto verso l’alto e gli occhi spalancati, ma non vedeva nulla, perché le macchioline nere che gli avevano obnubilato il campo visivo si erano allargate a formare un’immensa oscurità, nella quale parevano nuotare finissimi vermi rossastri. L’urlo stavolta risultò sfiatato, debole, privo della necessità di venire espresso che l’aveva permeato fino a poco prima.
Cadde in ginocchio senza una parola, e poi di schianto a faccia avanti sul pavimento in morbida moquette, mentre un fiotto di sangue gli sgorgava dal naso. Erano passati non più di una decina di secondi, che già il suo cuore non batteva più. Così, una vita sprecata nella cupidigia e nella realizzazione personale a discapito degli altri finiva il suo percorso terreno, senza il rimpianto di nessuno.
E dove questa vita finiva, in una pozza di sangue che sarebbe stata lavata con abbondante acqua e sapone, iniziava davvero la nostra storia. Nella mano destra stringeva ancora la cornetta del telefono.

Come è nata l’idea di questo libro?
“La terza era” è nato da un’idea che mi è sembrata divertente: un grande manager muore e finisce all’Inferno, ma per un errore dei sistemi di controllo dell’aldilà finisce per portare con sé il cellulare, con tutta la confusione che ne consegue. Avrebbe dovuto essere un racconto breve semi umoristico, ma quando ho iniziato a scriverlo i personaggi hanno iniziato a scappare per conto loro, ed eccoci qua.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Molto, molto difficile. È la mia seconda opera pubblicata, ma in realtà i primi due romanzi li ho scritti in contemporanea, con tutti i problemi che conseguono dal vivere in due mondi di fantasia del tutto differenti. A questo si aggiunga il fatto che ho dovuto costruire un aldilà il più possibile coerente, come regole e principi, sia alle mie idee personali, sia alle funzionalità della trama. Una faticaccia.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Ne ho talmente tanti che si fa fatica a citarli tutti, tanto vale non farlo. Cerco di imparare da ogni cosa che leggo, anche se il mio sogno sarebbe riuscire a descrivere il mondo con immagini taglienti come quelle di King.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Ho sempre vissuto nei paraggi di Modena, per un certo periodo in città, ma da una decina d’anni mi sono tornato a trasferire sulle colline natie. È una dimensione che apprezzo molto di più.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Pur avendo iniziato a scrivere relativamente tardi nella vita, primavera 2017, ho già prodotto parecchio materiale. A oggi, oltre ai due romanzi, ho pubblicato una decina di racconti in varie riviste sia cartacee che online, e ho nel cassetto altri due romanzi lunghi e almeno una trentina di racconti. Considerando che continuo a scrivere grossomodo con lo stesso ritmo, non rischio di rimanere senza.
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