
Edito da Neos Edizioni nel 2021 • Pagine: 160 • Compra su Amazon
Linette, giovane, capelli crespi e occhi abbaglianti, ha un passato doloroso. Sta iniziando una nuova vita, ma le visioni che le scorrono nelle vene insieme al sangue creolo, offuscano la realtà. Un omicidio la obbligherà a chiarire la natura delle sue percezioni e a lottare per se stessa per gli affetti in cui crede.
Lambrate, periferia di Milano. Il corpo di una donna viene trovato sotto il viadotto della tangenziale. Inizia un’inchiesta lunga e problematica dalla quale faticano a emergere i moventi dell’assassinio. Fra un sopralluogo, un interrogatorio e una perquisizione, il commissario Perego si imbatte nell’inatteso: la giovane Linette, che sta tentando di imbastire una vita normale dopo vicende di droga e prostituzione. Il suo passato e ciò che si percepisce di lei però non combaciano, gli occhi trasparenti e l’attenzione per gli altri raccontano di una storia che ha preso una via sbagliata. Diego Perego ne resterà irretito, soprattutto quando la fragilità di lei si esprimerà in premonizioni e intuizioni imprevedibili. Il tocco misterioso del piccolo angelo accompagneranno le vicende alla soluzione.
Dalla penna di Fiorenza Pistocchi nasce una nuova protagonista. Con il talento che le è proprio di restituire l’umanità e le atmosfere delle situazioni, la scrittrice affronta la metropoli, le sue inquietudini e la molteplicità delle sue relazioni. Con Linette, complessa e fuori dall’ordinario, l’Autrice regala ai suoi lettori una guida sensibile che avvince e scompagina le carte dei luoghi comuni.

Linette
Spesso è più sicuro essere in catene che liberi.
Franz Kafka
Otto del mattino. «Ciao Linette. Guarda che qui non ti voglio più vedere».
«Ciao Salvatore. Contaci».
Il massiccio portone di legno e ferro si chiuse alle sue spalle con un fruscio. Sembrava impossibile che, pesante com’era, producesse solo quel lieve rumore: il regolare funzionamento del meccanismo automatico, tarato sul peso e sulla potenza necessaria per muoverlo, ne garantivano la silenziosità, in contrasto con il mondo colmo di grida, sospiri, canti, sussurri, risate e pianti che racchiudeva. Era stata confinata lì dentro per un tempo che le era parso interminabile.
Salvatore, uno degli agenti della polizia penitenziaria, di turno davanti agli schermi delle telecamere, l’aveva aperto poco prima, solo per lei. Negli ultimi mesi, da quando era entrata nel programma di rieducazione, ogni giorno quel frullo leggero era stato il segnale di una libertà a ore e non l’avrebbe mai dimenticato. Lo scatto della serratura, a malapena avvertito, era risuonato nella sua mente per l’ultima volta. Davvero l’ultima?
«Dipende tutto da te, Linette. Buona fortuna» così si era espresso poco prima il direttore di San Vittore.
La psicologa che incontrava con regolarità le carcerate, un aiuto prezioso nel percorso di consapevolezza iniziato con la detenzione, l’aveva salutata il giorno precedente, durante il loro ultimo incontro: «Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Sono sempre disponibile per te».
Con lei era riuscita a mettere a fuoco molti momenti della sua vita: l’infanzia apparentemente felice, l’adolescenza problematica, gli anni in cui si era persa e quello in cui si era ritrovata. Non molto era stato risolto attraverso quei colloqui. Ora però le sembrava di conoscere meglio se stessa, era cosciente di quanto aveva fatto e di ciò che la aspettava. La voglia di ricominciare con il passo giusto la sosteneva e le forniva la motivazione per affrontare ogni difficoltà. La chiusura del portone l’avrebbe ricordata come una metafora: la fine di una vita buttata via e l’inizio di un presente carico di interrogativi, che poteva diventare un futuro di speranza.
Era una giornata fredda. La nebbia lieve, rarissima in quella zona di Milano, intravista dalla finestra dell’ufficio del direttore, si era ormai dissolta. Linette sospirò, sistemò meglio la sciarpa e si avviò di buon passo, senza voltarsi, con lo zaino sulle spalle, verso la stazione della linea verde della metropolitana poco distante. Dalla fermata Sant’Agostino a quella di piazza Udine, successiva alla stazione di Lambrate, avrebbe impiegato circa mezz’ora.
Durante il tragitto percepì lo sguardo di molti posarsi su di lei. Alta, con un fisico che non passava inosservato nonostante l’abbigliamento invernale, l’avevano fissata donne dirette al lavoro, ragazzini e ragazzine che si recavano a scuola, uomini di ogni età e provenienza. A quell’ora c’era una confusione composta, in cui le vicende personali e le riflessioni di ciascuno contribuivano a mantenere la distanza e il silenzio. Solo gli adolescenti parlavano a voce alta. Linette non ne fu disturbata, anzi, si dimenticò della loro presenza, catturata da immagini e pensieri che prendevano forma negli spazi neri dei finestrini.
Non aveva più debiti. Era libera. La sera prima le compagne del settore femminile l’avevano festeggiata, come accadeva sempre quando una di loro terminava di scontare la pena. Le ragazze del gruppo di cucina si erano impegnate tutto il pomeriggio per preparare torte e pasticcini. Un bicchiere di spuma, bevuto con le guardie carcerarie, era servito per il brindisi, il vino era proibito. Le detenute del laboratorio di sartoria avevano cucito per lei una sciarpa di ritagli multicolori. Insieme avevano ascoltato musica alla radio e ballato, poi il segnale acustico che imponeva la ritirata nelle celle aveva messo fine alla festa: baci, abbracci, qualche lacrima.
«Forza Linette, ce l’hai fatta, puoi ricominciare».
«Cerca di rimanere fuori».
«Ti invidio, io resto qui».
«Vedi di cavartela».
Buona fortuna, bonne chance chérie, good luck, buena suerte chica, mult noroc, sretno, cpeħho erano stati solo alcuni degli auguri ricevuti dalle compagne.
A casa l’aspettava Odile, la roccia, il punto fermo della sua vita. Messa da parte e dimenticata nel periodo dell’adolescenza, era ricomparsa nel momento in cui il suo sostegno si era reso necessario. Sua sorella era stata un aiuto insostituibile per riemergere dal fango nel quale era sprofondata, vischioso quanto il pantano di lava che appariva nei sogni. Era stata l’unico appiglio, fino a meno di due anni prima, perché allora la vita le aveva lanciato un’altra ancora di salvezza, non sapeva se in un sussulto di generosità inaspettata e forse immeritata: si era resa conto di essere incinta.
Il commissario Diego Perego
Un buon investigatore sa che ci saranno sempre
più domande che risposte.
Arthur Conan Doyle
Otto del mattino. «Capo, ci hanno chiamati poco fa: hanno trovato un cadavere sotto la tangenziale» disse l’ispettore Ruggeri, al telefono.
«Mandami una volante, ho la macchina dal meccanico».
Il commissario Diego Perego, uscito due minuti prima dalla doccia, aveva appena acceso il gas sotto la moka. Era stata una notte difficile, il mattino si presentava anche peggiore e non era nello stato d’animo adatto per presenziare alle operazioni in cui veniva scoperto un cadavere. Si massaggiò la spalla destra e spense il gas, il caffè l’avrebbe bevuto in ufficio più tardi. Gettò uno sguardo allo specchio in camera da letto: la barba non aveva bisogno di essere regolata. Si vestì in fretta, scrisse un post-it per Paloma, la donna ecuadoriana che teneva in ordine la casa e spesso gli preparava la cena, “Per favore non cucinare, tornerò tardi”, lo attaccò al frigo e scese in strada.
Faceva un freddo da cime innevate. Dall’acqua del Naviglio della Martesana si alzava un denso vapore brumoso, una nebbia cattiva che faceva tossire. Gli sembrò che la foschia color cenere rispecchiasse l’andamento dei suoi pensieri. I colleghi della volante giunsero a prelevarlo in fondo a via Padova, nella parte vecchia di quello che era stato il piccolo comune di Crescenzago, ora un quartiere periferico di Milano. Gli agenti diffondevano con il respiro piccole nuvole che si perdevano nella nebbia. Erano quasi al limite tra la città e la campagna, che cominciava poco lontano per estendersi a macchia di leopardo oltre la visuale, dove i campi coltivati si incastravano tra strade a intenso scorrimento, ipermercati, quartieri dormitorio e zone industriali.
La volante si arrestò sotto il viadotto della tangenziale che incombeva sulle loro teste, in via Caduti di Marcinelle, una via triste già a partire dal nome. Il tratto che si inoltrava in città, in direzione di Lambrate stava lì, sembrava aspettarlo. Da quel ponte, a malapena visibile, proveniva il frastuono del traffico mattutino. Non c’era altro da notare, tranne l’odore molesto degli scappamenti di auto e mezzi pesanti.
Conosceva bene il posto, vicino ai capannoni di una grande azienda di automobili che ormai aveva concluso la sua epopea. Ora quegli edifici, più simili ad antiche cattedrali in rovina che a vestigia di un glorioso passato, erano diventati posatoi per cornacchie e gabbiani, enormi voliere senza pareti e recinzioni. La vegetazione tentava di arrampicarsi sulle strutture metalliche, troppo grandi e troppo alte per essere nascoste dalle sterpaglie. Le enormi costruzioni di ferro e vetro restavano in piedi come un museo a cielo aperto, una Pompei industriale esposta all’umidità, alla ruggine e al passare del tempo, senza che nessuno si prendesse la responsabilità di abbatterle o farle diventare utili per qualcosa che non fosse l’abbandono.
Il cadavere si trovava ai piedi di un pilone di cemento armato. Perego osservò i tecnici della Scientifica, avvolti nelle tute bianche, mentre si spostavano per effettuare i loro rilievi. Sembravano astronauti su un nuovo pianeta. Per contrasto spiccavano, scure e quasi funeree, le divise dei colleghi.
Rialzò il bavero del cappotto e scese dall’auto. Ruggeri gli aveva riferito che il corpo era di una donna precipitata dalla tangenziale, niente di più. Si era buttata, o l’avevano spinta di sotto? Belle domande a quell’ora del mattino senza neanche un caffè nello stomaco.
Forse la Scientifica, con i suoi teatrini, avrebbe fornito le risposte, poi sarebbe stato il turno dell’anatomopatologo con le osservazioni preliminari, prima dell’esame autoptico vero e proprio.
Il commissario Perego non aveva ancora affrontato un numero tale di omicidi, suicidi o incidenti, da renderlo distaccato e indifferente alla morte di un essere umano. Per questo manteneva l’abitudine di essere presente sul luogo del rinvenimento. Voleva farsi un’idea della scena dove era avvenuto il fatto, ipotizzarne lo svolgimento, prima che altri elementi portassero via eventuali sensazioni. Sentiva la necessità di pensare le vittime come persone vere, non come casi da risolvere. Riteneva di essere in debito con chi moriva di morte violenta: svolgere le indagini con accuratezza gli serviva a stare in pace con la propria coscienza.
Quando i colleghi della Scientifica ebbero finito, si avvicinò.
Il corpo apparteneva a una donna tra i trenta e i quarant’anni. Fisico asciutto, tonico nonostante la posizione scomposta. Era bruna, di statura media. I capelli lunghi nascondevano il viso. Modiano, il medico legale, glieli scostò con le mani guantate e apparve la fisionomia alterata dalla morte che, come accadeva sempre in casi simili, suscitò nel commissario un inevitabile sentimento di pena. Non si vedeva nulla che potesse fornire un indizio sulle cause del decesso: se vi erano segni di ferite da taglio o da arma da fuoco erano nascosti dal cappotto, indossato sopra una tuta da ginnastica blu. Ai piedi calzava scarpe da runner.
«Che freddo ‒ soffiò e si sfregò le mani. ‒ Che cosa abbiamo?».
L’ispettore Paolo Ruggeri prese un taccuino dalla tasca e gli si avvicinò per leggere gli appunti che vi erano annotati. Il commissario lo guardò con una punta di sarcasmo: Ruggeri era sbarbato, senza un capello fuori posto, con gli occhiali dalle lenti cristalline e il giaccone che pareva appena uscito dalla tintoria. Un figurino, mentre lui sembrava aver dormito nella lavatrice.
«Sai che somigli a un indossatore di Zalando?» bofonchiò il commissario.
«Chi, io?».
«Avanti. Dimmi come fosse un telegramma».
«Sì, certo. Nella tasca del cappotto c’erano la carta d’identità e la patente. Si chiamava Antonella Ardito, quarantadue anni, impiegata, libera di stato. Residente in piazza Rimembranze di Lambrate 8».
«Chi l’ha trovata?».
«Un tizio che portava il cane a pascolare».
«L’ennesimo. Potrebbero formare un sindacato i padroni di cani che trovano cadaveri. C’è un’auto da qualche parte?».
«Sì, la Stradale l’ha trovata ferma nella piazzola di sosta, proprio sopra di noi, prima che fosse segnalato il cadavere. È una Clio. Fari spenti, finestrino del posto di guida abbassato e chiave inserita nel cruscotto. Sul sedile accanto c’era la borsetta con il portafoglio. La Scientifica se ne sta già occupando, rileveranno le impronte e ogni cosa che valuteranno utile, come sempre. Purtroppo in questo tratto di tangenziale non ci sono telecamere».
«Non ci sono mai quando servono, è la legge di Murphy, caro il mio elegantone. Niente cellulare e chiavi di casa in macchina?».
«No, niente altro».
«Ecco, vedi, queste sono le stranezze che ci devono infastidire come la goccia che cade dal rubinetto chiuso male».
«Cioè?».
«Oggi nessuno va in giro senza cellulare. E senza chiavi come ci tornava a casa?».
«Se fosse un caso di suicidio? Non c’è bisogno del cellulare e nemmeno delle chiavi quando ti vuoi ammazzare».
«Va bene, ma la porta di casa l’avrà pure chiusa prima di uscire? O no? E viene ad ammazzarsi qui, in questo modo stupido? Chiedi alla Scientifica se hanno controllato anche la piazzola».
Modiano attirò la sua attenzione con un cenno: «In base alle condizioni del cadavere ti posso anticipare che dovrebbe essere deceduta intorno alle ventitré di ieri, mi riservo di confermarlo dopo l’autopsia» disse lapidario.
«Non c’è il PM? Non dirmi che, pur di non prendere freddo, Motta ti ha autorizzato a portare via tutto senza neanche venire a vedere».
«Proprio così, ha detto che gli basta che tu sia d’accordo».
Perego annuì e il medico intese il via libera per sbrigare le procedure di legge.
Mentre risaliva sulla volante, il commissario pensò al solito criterio operativo in caso di morte: rapporto sull’ora della segnalazione, in questo caso quella della chiamata del padrone del cane, sopralluogo nell’abitazione della vittima, interrogatorio dei vicini, del fidanzato o del coniuge se esistevano, e mille altre cose da sbrigare prima che la pista, ammesso che ce ne fosse una, diventasse fredda.
Una sigaretta ci sarebbe stata d’incanto. Peccato che avesse deciso di smettere.

Come è nata l’idea di questo libro?
Ho avuto occasione di avvicinare le detenute di San Vittore durante una sfilata organizzata nel carcere per far conoscere l’attività del gruppo di cucito delle detenute, che confezionano turbanti per le donne soggette a chemioterapia dell’Istituto dei Tumori di Milano. Ho visto donne giovani e belle, a cui si faceva fatica ad attribuire un passato criminale. Mi è venuta l’idea di raccontare la storia di una di loro, spinta a rifarsi una vita dal fatto di essere diventata madre.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Il romanzo, scritto abbastanza velocemente, è stato poi sottoposto a un’attenta revisione, con l’apporto di un editor importante, lo scrittore Carlo De Filippis, che ha pubblicato con Mondadori e con altre case editrici importanti. L’obiettivo era quello di rendere maggiormente credibili i personaggi e di caratterizzarli attraverso un linguaggio originale e ricco, così come di essere aderenti ai ritmi e alle modalità d’indagine della Polizia. Poi, visto che nel romanzo c’è un aspetto irrazionale, mi sono documentata sulle tradizioni haitiane del vodoo. Quindi il lavoro è stato lungo. Ho anche ricercato con attenzione gli aforismi da proporre all’inizio di ogni capitolo.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Tutti gli scrittori e le scrittrici di “gialli”, che ho letto e continuo a leggere, da quelli classici, ai moderni, dagli americani agli italiani. Tra i miei preferiti Michael Connelly, Camilleri, De Giovanni, Manzini. Tuttavia, leggo di tutto, faccio parte del gruppo di lettura della Biblioteca comunale e spaziamo tra i generi più svariati.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Oggi vivo a Pioltello, una città dell’hinterland di Milano, con più di 35.000 abitanti. Prima ho abitato e ho lavorato per più di trent’anni a Milano, nei quartieri descritti nel libro, in cui agiscono i miei personaggi.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto “progettando” una seconda indagine di Linette e Diego, i protagonisti di “Il tocco del piccolo angelo”, ma nel frattempo mi documento per un altro romanzo a sfondo storico, ne ho scritti due in precedenza, sul quale per ora vorrei mantenere il riserbo perché è solo un’idea e ci vuole un periodo di approfondimento e di studio.