
Edito da PlaceBooK Publishing nel 2020 • Pagine: 200 • Compra su Amazon
La vendita di una sconfinata tenuta nel Vercellese, ricevuta inaspettatamente in eredità, riunisce a Milano i discendenti di seconda e terza generazione di una famiglia di contadini i cui figli emigrarono, nelle Americhe e nella ex Libia Italiana, all’inizio del secolo scorso.
Kally, giovane cantante americana, distante un oceano e 3 generazioni da quelle origini contadine, rimane affascinata dal Borgo delle Risaie e dal mondo in cui vissero i suoi bisnonni.
Decisa a ricongiungere passato e presente, attraverserà un arcobaleno lungo più di un secolo, ricco di colori, vite, sentimenti, passioni e segreti.

Capitolo 1
16 maggio 2010
Aironi cenerini dal lungo becco giallo volano bassi. Appaiono e scompaiono nel loro planare tra il verde dei campi e il grigio del cielo di una tarda primavera. Nei campi di riso sommersi d’acqua, l’umidità sale fino a incontrare le nuvole.
La luce arancio intermittente dell’auto che precede la mia indica che siamo arrivati. La seguo. L’uomo scende dalla macchina, spegne la sigaretta schiacciandola sotto il piede e, accennandomi un sorriso, si dirige verso il cancello chiuso con un grosso catenaccio appartenente a un’altra epoca. La serratura si sblocca alla rotazione di una grande chiave di ferro. L’uomo, sebbene giovane e ben piazzato, deve fare un grande sforzo per spingere l’imponente cancello che, cigolando, si apre. Entriamo. Il pietrisco sotto le ruote della macchina produce un calpestio che, nel silenzio del luogo abbandonato, rimbomba forte. Lungo il viale, il profumo dei tigli in fiore mi avvolge, quasi mi stordisce. La villa ottocentesca sbuca tra la foschia.
«Eccoci qua!», esclama l’uomo uscendo dalla sua vettura e sbattendo lo sportello. Il rumore secco mette in fuga piccoli pettirossi nascosti tra gli alberi. Si presenta porgendomi la mano.
«Buongiorno signora, mi chiamo Tommaso, sono l’incaricato dell’agenzia. Ci siamo sentiti per telefono qualche settimana fa». Il suo sguardo sembra sorpreso. Forse non si aspettava una donna così giovane.
«Tanto piacere, sono Kalista Landolina Kent» dico togliendomi gli occhiali da sole.
«Sono felice di conoscerla. Allora… che ne pensa?» chiede mentre lo sguardo segue un’ampia rotazione del braccio. «Lei è la prima a vederla. I suoi cugini arriveranno nei prossimi giorni».
Non so cosa rispondere. Il jetlag, il mio italiano incerto e il suo scarso inglese non aiutano. Accenno un sorriso e penso che “il non essere riconosciuta” è una gradevole sensazione che non provavo da tempo.
Vista da vicino la villa appare enorme. Resto col naso all’insù ad ammirarne i particolari. Fra le colonne del terrazzo al piano superiore intravedo le decorazioni floreali, quasi sbiadite, del soffitto e delle pareti. Fra le traversine delle finestre chiuse da anni, le rondini hanno trovato spazio per i loro nidi.
Attrezzi arrugginiti e vecchie macchine agricole ancora piene di paglia e residui di raccolto giacciono sotto il portico laterale, logore e assopite da anni d’inutilizzo. Sulla pala di un piccolo trattore una gatta grigia ha trovato rifugio e, sonnecchiando, allatta i suoi cuccioli variopinti. Fili d’erba e piccole margherite cercano il sole fra le crepe del pavimento di cemento.
Nel prato incolto, in mezzo al cortile, campeggia una quercia che avvolge d’ombra un lungo abbeveratoio di pietra e un pozzo di mattoni d’argilla rossa.
«Venga, le faccio vedere dove abitavano i suoi bisnonni» dice Tommaso avviandosi verso la lunga costruzione a due piani al lato della villa.
Lo seguo attonita come un automa.
In un angolo accanto alla scala, accatastata sotto una tettoia piena di ragnatele, c’è ancora della legna tagliata in ciocchi. Suppongo che qualche tempo fa fosse usata per i camini della villa e degli alloggi dei contadini.
Nel caseggiato ci sono una decina di porte in legno massiccio con i chiavistelli arrugginiti. Tommaso si ferma davanti alla prima. «Eccoci» dice.
Tra queste pareti e il tetto dai mattoni in cotto, vengo travolta dall’emozione di vedere la dimora di cui avevo tanto sentito parlare. Nella stanza ci sono un grande focolare annerito e una trave dalla quale pende una catena di ferro. Il gancio alla sua estremità regge un paiolo di rame, usato per cuocere polenta e riso. Se chiudo gli occhi, posso sentirne il profumo. Appesi accanto al focolare, un grande mestolo di legno bruciacchiato, un ferro di cavallo arrugginito e, poco più in là, un corno di vacca pieno di spighe secche, ricamate da una fitta ragnatela. Tutti antichi portafortuna di campagna.
Accanto c’è una grande stanza spoglia. Lì dormivano i miei bisnonni e i loro figli: mia nonna Annina, i suoi fratelli Tarcisio, Vittorio, Arcangelo e chissà chi altro di cui non conosco l’esistenza.
Respiro l’odore di vuoto di una casa desolata che un tempo era piena di vita. La mia mente si riempie di ricordi vissuti indirettamente attraverso i racconti di famiglia. Questo è il posto dove tutto è cominciato.
Tommaso mi riporta fuori dalla casa e, tra calcinacci e materiali di scarto, m’invita a salire al piano superiore.
«Venga… passi di qua, stia attenta a non farsi male…». Un’enorme locale, lungo quanto tutto il caseggiato, si apre alla mia vista. Il tetto altissimo è sorretto da grosse travi incastrate tra loro. Non avevo mai visto una costruzione così particolare.
«Questi erano i silos. Stia attenta a dove mette i piedi» dice Tommaso. La sua voce fa eco.
Scanso alcuni buchi squadrati sparsi qua e là sul pavimento. Tommaso mi spiega che servivano a fare respirare e arieggiare il riso. E mi torna in mente un vecchio film, visto con John a Boston durante la rassegna cinematografica sulle opere di registi italiani. S’intitolava “Riso amaro”.
Dalle finestre con i vetri anneriti dal tempo, la luce del sole penetra prepotente, illuminando alcune scritte sul muro. La calligrafia è incerta, ma leggo. Mi manchi – Vorei eser al mar – Questo riso mi acceca – Son stanc – O Signur di poveritt – Prova tì a lavurar e no de comandar – Go sentù on crac de ossa rott.
Non ne comprendo il significato, ma intuisco che questo stanzone è stato anche il dormitorio delle mondine. Ne posso quasi sentire le voci, le risate, i sospiri e persino i pensieri.
Queste suggestioni accompagnano nella mia mente note di una melodia dolce e mesta. Perfetta per una nuova canzone.
«Signora Kent, non ha detto una parola». La voce dell’uomo mi fa sussultare.
«Scusi Tommaso, I feel… come si dice… confused. Non ero preparata a tutto questo. Posso visitare anche la villa?»
«Mi dispiace. Ho disposizioni di aprire la casa solamente quando tutti gli eredi saranno presenti. Ha già preso accordi con i suoi cugini?»
«Non so nulla di loro. Si può dire che non li conosco nemmeno».
Tommaso sembra imbarazzato dalla mia risposta. «Neanche quelli che vivono negli Stati Uniti?»
«Qualcuno l’ho conosciuto quando è morta mia nonna, ma ero ragazzina».
«Capisco. Comunque, il mio capo ha detto che domani arriverà dall’Ohio il signor Paul… Paul Landolina, figlio di suo zio Luigi» dice aprendo l’agenda che tiene in mano. Cerco nella memoria il nome Luigi. Certamente si tratta di Uncle Luis, fratello di mio padre, morto in Corea.
«E arriveranno anche il signor Ivo Ferri e la signora Anita Ferri Santos, mi pare… mi pare dal Brasile, nipoti del suo prozio Tarcisio» aggiunge cercando fra suoi appunti.
«Saremo soltanto in quattro?» chiedo cercando di ricostruire il grado di parentela e frugando tra i racconti di nonna Annie.
«No, ci saranno anche le due sorelle che vivono in Italia».
«Qualcuno è rimasto qui allora! I’m glad! Mi fa piacere!»
«Beh, suo prozio Arcangelo Ferri e la moglie Antonia vivevano in Africa… mi pare in Libia… ma adesso le figlie e la signora Antonia abitano in Sicilia».
«Sicily? Mio nonno Frank veniva da lì».
Tommaso sembra non fare caso al mio stupore e continua a cercare nei suoi appunti. «E poi… ci sarebbe anche l’unica prozia ancora in vita, la Madre Superiora».
«Una suora?»
«Sì, la figlia più giovane dei Ferri».
«Oh my God! Quando nel 1916 mia nonna è emigrata negli States, sua mamma era di nuovo incinta. Non può che essere lei!»
«Non so, immagino sia abbastanza anziana. Vive in un convento al confine con la Svizzera… Ecco qua… suor Cherubina».
«Ci sarà anche lei?»
«No, non credo. Non ha risposto alla convocazione, ma l’avvocato Alibrandi sta organizzando un incontro per farle firmare l’atto di vendita. Lei ha la delega di suo padre Joseph Landolina, giusto?»
«Sure, sì certo».
«Il signor Paul dovrebbe avere quelle firmate dagli zii ancora in vita e quelle dei cugini che vivono a New York, in California e… anche degli altri», continua Tommaso scorrendo gli appunti. Ma non riesco a seguire il suo discorso. Sono stanca, emozionata, distratta. Avrei dovuto seguire le lezioni d’italiano più attentamente. Ho milioni di dubbi. Non so se venire qui sia stata la scelta giusta.

Come è nata l’idea di questo libro?
Dal bisogno di raccontare di “quando i migranti eravamo noi” e ricordare alcuni dei miei antenati durante il loro peregrinare in cerca di un nuovo “Arcobaleno”.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Ho cercato di mettere insieme storie di famiglia conosciute, con altre che mi sono state raccontate e ho cercato mischiarle in un’unica storia avvincente. Ho impiegato circa due anni per terminare il libro.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Non ho autori di riferimento. I miei romanzi sono storie che raccontano di donne alla ricerca di se stesse in un “altrove” lontano. Amo Marquez, Allende, Mazzucco, De Luca, Sparaco, e molti altri.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata a Palermo e vivo in provincia di Milano. Ho vissuto all’estero (USA e Cina) per alcuni anni e, quando possibile, amo viaggiare.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
“L’ultimo arcobaleno” (tradotto anche in Inglese) è il mio quarto romanzo. “Il respiro della luna” 2014, “Dialoghi del mare” 2016 (in riedizione 2021), “La tripa il capote la capa” 2018, “L’ultimo arcobaleno” 2020. Attualmente sto lavorando a un nuovo romanzo.
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