Edito da Rio Lachim-Meddino nel 2020 • Pagine: 212 • Compra su Amazon
Una raccolta di racconti in cui si susseguono personaggi e voci singolari: pecore megalomani, compagni di lavoro che si trasformano in rettili, spiriti bambini, becchini nobili e sgrammaticati. Tutte creature in bilico, in pericolo, alle prese con i mille problemi dell’esistere. Potrà una capretta sopravvivere fra tanta bestie cattive? Potrà un giovane obeso sopravvivere alle sevizie della sua capa?
Potrà un gli risolvere una questione pendente con il padre?
Potrà uno scrittore liberarsi di un peso che l’opprime? Potrà un fantasma incontrare pace?
Un insieme di racconti che punta a mettere in discussione la realtà sica, sovvertendone gli equilibri in un universo che ha ben pochi angoli retti. Le leggi della sica sono molto più sovversive delle nostre percezioni e credenze. Perché non dovrebbe essere lo stesso per le leggi dello spirito, che chiamiamo Etica?
Sedevo, dicevo, al tavolo della cucina e presagivo che qualcosa di brutto stava per succedermi; lo sentivo come un brivido che mi saliva dritto dritto all’amigdala direttamente dal buco del culo.
Quando gli vedevo le vene del collo dilatarsi e il volto tingersi di un violento rosso vermiglio perdevo qualsiasi benché minima capacità di concentrazione e raziocinio. Sprofondavo, come descriverlo?, in una fossa profonda e nera, e da lì sentivo una voce sempre più concitata che pronunciava parole remote e incomprensibili come una lingua antica e dimenticata.
Fu allora che vidi il mio quaderno planare – la memoria conserva una sequenza da film, al rallentatore – attraversò tutta la stanza, fino a sbattere contro la parete di fronte e lì disfarsi (era un quaderno a ganci) in pagine che svolazzavano nell’aria.
Mio padre gridò a tutti polmoni: «Tu non… niente di buono nella vita». Il verbo penetrò nella mia oscurità mentale nello stesso momento in cui il quaderno colpì la parete, perciò non ero sicuro di ciò che avesse detto esattamente (e non avevo lo spirito per chiedergli ragguagli). Allora, l’ipotesi più plausibile fu la seguente: «Tu non fornich… ERAI (e questo “…erai” forte e ieratico sì lo sentii) niente di buono nella vita».
Pensandoci anni dopo, quella prima interpretazione perse di forza, sebbene non mancasse di senso compiuto (bizzarro, estremo, se vogliamo, ma concreto… eccome); eppure all’epoca non mi sembrò una cosa così strana. Era un periodo in cui il nostro padre spirituale, don Egidio, sembrava ossessionato dalla fornicazione. Non c’era comandamento che lo preoccupasse di più.
«Ragazzi non fornicate, mi raccomando» diceva nelle omelie con un tono supplichevole, e poi durante le confessioni settimanali – quando ti teneva prigioniero lì in ginocchio per minuti che passavano come ore – cercava di estorcerci dettagli nascosti (pensava lui), proponendoci esemplificazioni abbastanza concrete e pratiche (forse furono proprio quelle sedute – o meglio, inginocchiate – che ci diedero interessanti idee di sperimentazione).
La parola FORNICARE, ermetica e antica, suggeriva qualcosa di irreparabile; era dotata di una forza dura, biblica ed estrema come una montagna nel deserto; abitava luoghi molto distanti dalle nostre prime masturbazioni introverse che non potevano approssimare né scalfire l’immensità del concetto. I nostri peccatucci solipsistici non potevano contravvenire a un precetto così eroico. Al massimo, erano il solletico sotto i piedi del gigantesco comandamento (o così sembrava a me).
Fornicare o non fornicare, era questo il problema? Perché vedete, mio padre, in un pomeriggio di pedagogia umanistico-matematica, non solo chiedeva, ma soprattutto pretendeva che la carne della sua carne fornicasse con qualcosa di buono. Mi chiedeva l’eccellenza. Come conciliare messaggi così contraddittori?
Per la prima volta nella vita, fui vittima della natura schizofrenica della realtà, o della realtà secondo i modelli accettati dalla nostra società. Come – parafrasando il Bardo – essere e non essere allo stesso tempo? Fornicare con qualcosa di buono nella vita e non fornicare?
Da ragazzo-bambino, non avrei saputo articolare questi pensieri in un discorso compiuto. No, la fragilità ermeneutica della mia situazione, corpo sospeso tra forze contrapposte, si manifestava in me attraverso un’angoscia imperscrutabile e inconsapevole. Iniziai a dormire poco e ad alleviare il vuoto di tempo liberando il mio seme e affidandolo alla terra come facevano i primitivi (be’, forse questo è un eccesso poetico; per “terra” intendo dei Kleenex disponibili dentro il cassetto del comodino). All’inizio, la masturbazione sedava il male, ma poi, come il largo uso di un farmaco, anch’essa diventò sempre meno utile. E la montagna da scalare sembrava ancora così lontana.
Fu allora che lo trovai. Cosa? Il Deserto.
L’eredità di mio padre era forse più complessa di quanto sembrasse (o forse fui io a complicarla perché l’alternativa era inaccettabile). Se frantumiamo la frase in parti e le prendiamo in mano a una a una delicatamente, cosa vediamo?
Tu non.
Niente.
Buono.
Vita.
Nelle sue parole s’annidava un’omissione, un verbo che dovevo cercare perché il resto (la vita, il buono e il niente) si sostenesse in piedi senza cadere al suolo. Ma prima, svettava in cima, lassù in alto, un “Tu non” che mi sembrava, e così l’ho sempre pensato, come un’indicazione metodologica: la ricerca, il cammino, si può percorrere soltanto essendo un uomo che non.
Spiegarvi cosa significhi per me siffatta locuzione – o cosa significò per me allora – sarebbe distruggerla. C’è una cosa che le si avvicina per analogia: il Deserto, appunto. Non è una metafora e nemmeno un luogo preciso. Deserto non rappresenta solamente un territorio enorme e vasto di terra secca o di ghiaccio. Si trasforma in Deserto qualsiasi luogo in cui l’uomo vive in un’estraneità inospitale, straniero, dove niente di ciò che conosceva o credeva possedere mantiene più alcun valore o utilità. Implica la perdita di un mondo interiore (ed esteriore, a volte) per addentrarsi in un territorio che ancora non vuole, o non può accoglierlo. E così, compiuti diciott’anni, e ricevuti in eredità da mia nonna due soldi, il mio Deserto lo trovai a due ore di volo da casa: Londra.
Come è nata l’idea di questo libro?
Stavo guidando. Tornavo a Madrid dopo aver trascorso le vacanze estive in Toscana. Un viaggio lungo e tedioso (odio guidare). Ero solo. Per passare il tempo, ho acceso il registratore del telefonino e ho iniziato, come in uno “stream of conscousness”, a inventarmi delle storie… Questo è stato l’inizio.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Abbastanza. Negli ultimi anni mi sono dedicato al teatro. Scrivere racconti era qualcosa di completamente nuovo per me.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Julio Cortázar, Borges, Amos Oz, Tabucchi…
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Madrid, Londra, Edimburgo, Lugano, Milano.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Sto scrivendo un romanzo sull’essere stranieri. Lo spunto è un libro bellissimo di Edmond Jabés, “Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato”.
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