Edito da Porto Seguro Editore nel 2019 • Pagine: 351 • Compra su Amazon
UN UOMO, DUE VITE!
Una tragedia che diventa una poesia d’amore
Chi è in realtà il feroce assassino della prostituta Virginia?
Riuscirà Ambreus l’austriaco, braccato dalla polizia e a sua volta cacciatore a compiere la propria vendetta, o soccomberà sotto il fuoco delle forze dell’ordine?
Come si viveva negli anni passati nella zona dei Navigli milanesi ora regno della Movida, ove Ambreus era nato e come da fuggiaschi nella placida Vienna ove aveva incontrato la tenera e materna Helga?
Il racconto di Mario Recchia, coglie Ambrogio quand’è già un uomo maturo, ultra cinquantenne, non più attivo come rapinatore, il quale vive di rendita, per così dire, nell’appartamento che Virginia ha fatto restaurare in un vecchio edificio di via Ripa Ticinese. Lei fa ancora la vita, e lui se ne sta in casa ad aspettarla, ad ascoltare la musica e a leggere, anche perché ha alcuni vecchi conti da regolare con la giustizia. Tra lui e lei non ci sono mai state questioni di dare e d’avere. Quando Ambrogio ha avuto denaro in abbondanza, ne ha dato a Virginia e le ha fatto dei regali. Lei, come una moglie economa e previdente, pensa a tutto. Lui prende soltanto ciò che gli occorre, che è poco non potendo uscire di casa.
Una sera va cautamente in centro, e quando torna trova Virginia inaspettatamente nuda, nella vasca da bagno, orribilmente trafitta da una moltitudine di pugnalate. Qui comincia la vera tragedia. Orrore, rabbia, dolore e propositi di vendetta, tanti quanti se ne possono immaginare, ma Ambrogio, nelle sue condizioni, che cosa può e deve fare? Deve fuggire arraffando quanto può in contanti e in gioielli. Se non lo avesse fatto lo avrebbero accusato ugualmente dell’assassinio della povera Virginia: Sfruttatore, delinquente abituale, massacra la sua convivente, nota prostituta. Questa è la notizia che diffondono giornali e televisioni e questa vale anche per la gente dei Navigli e per le colleghe di Virginia.
Il romanzo diventa la storia della fuga di Ambrogio, di come riesce ad organizzarla, riparando senza un preciso appoggio a Vienna, con un’identità fittizia di cittadino austriaco, che guida una Mercedes austriaca, la quale ottiene, da un suo vecchio amico falsario. Prima di entrare in Austria telefona in Questura, alla commissario Benivieni, che lo conosce e lo cerca, per dirle come stanno le cose.
Nella città straniera ora Ambrogio è il signor Henric Muller, ha molto denaro e dei gioielli con sé, e per ora sembrerebbe al riparo per un tempo indeterminato e potrebbe riposarsi. Invece non può perché qualcuno gli ha ucciso Virginia e lui ovviamente vuole sapere chi è, vuole capire perché e quindi giustiziarlo. Se Ambrogio non vendicasse Virginia sarebbe uno snaturato per la sua concezione della vita, e dovrebbe vergognarsi di esistere. Inoltre tutta la gente che lui conosce continuerebbe a credere che è stato il massacratore di Virginia a scopo di lucro.
Nello stesso tempo bisogna mangiare, lavarsi, dormire, vivere giorno per giorno in un’abitazione. E una bella vedova viennese, che conosce nella pensione in cui ha preso provvisoriamente alloggio, la quale lo considera ovviamente come l’agiato italo-austriaco Henric Muller, si offre di aiutarlo e di farsi aiutare in ogni modo.
E’ stata sufficiente, la genialità e la primitività di un tragediografo antico come Mario Recchia per descrivere la doppia vita di Ambrogio: da un lato la bella, civile e morbida Helga che lo aiuta ad accasarsi a Vienna, dall’altro l’imperativo di compiere la vendetta. Ambrogio non può sopportare questa provvisorietà perché sa che prima o poi dovrà sparare all’assassino di Virginia, perire in conflitto a fuoco con le forze dell’ordine o essere incarcerato per moltissimi anni o per sempre, mentre non vuole trascinare Helga nella sua storia, perché non lo merita e probabilmente perché non la capirebbe. Vive parecchi mesi in questo atroce dilemma, ora tentando di allontanare Helga, ora accettandone la dolcezza, finché una notte, disperato ed esasperato, riparte per Milano. Chissà se potrà mai ritornare da Helga e spiegarle. Quasi certamente no.
A Milano deve muoversi con cautela, da ricercato, e con la paura costante d’essere pedinato; e non ha più nemmeno amici. A Rico, vecchio malavitoso ora riabilitato e titolare d’una trattoria, deve forzare la mano per farsi ascoltare e convincerlo della propria innocenza. Deve aspettare che Nanni, altro suo vecchio amico, esca di prigione, per potergli parlare. Non può camminare per i Navigli e Porta Ticinese perché coloro che lo conoscono lo odiano per la morte di Virginia. Lui praticamente è un perseguitato che perseguita un ignoto nemico.
Nanni, uscendo finalmente di prigione gli offre qualche spiraglio: egli sa già che Ambrogio è innocente, sa che il colpevole è uno che ha voluto consumare una vendetta contro di lui, anche se non ne conosce il nome. Sa soltanto che è un ricettatore.
Quando Ambrogio è ormai privo di contanti, senza poter andare a Vienna per rifornirsi, quando si è ridotto a vivere nell’automobile priva di benzina e a mangiare verdure e frutta di scarto dei mercati rionali, riesce ad individuare l’officina del ricettatore, suo misterioso nemico. Lo vede in faccia e lo riconosce nello stesso momento in cui lo sta arrestando la polizia per ricettazione. Non può permettere che gli venga sottratto e allora, disperato, gli spara, lì, in mezzo ai poliziotti, dove si trova. Spara all’impazzata, senza mirare bene e non ferisce nessuno. Piuttosto viene ferito lui dagli agenti di polizia che rispondono al fuoco.
Sfugge alla polizia e va a nascondersi, passo dopo passo, camminando furtivamente a caso, in un vecchio edificio abbandonato, che forse è quello che rimane dell’orfanotrofio in cui è cresciuto. Lì a poco a poco sta morendo di sete, di fame e soprattutto di febbre (la ferita non curata si è fatta cancrena).
Ma Un uomo, due vite ha un epilogo inaspettato, dovuto al caso. La commissaria Benivieni, casualmente viene a conoscenza del barbone che ruba frutta e verdura. Allora comincia la seconda vita di Ambrogio. La stampa parlerà dell’uomo perseguitato ingiustamente per omicidio abbietto, che ha perseguitato a sua volta il rivoltante assassinio. La gente dei Navigli e le colleghe di Virginia e anche altre donne, sapranno che Ambrogio è innocente, lo saprà pure Helga che si precipiterà a Milano a trovare l’ex Henric Muller, diventato Ambrogio e caduto in un profondo stato di prostrazione, da cui lei lo aiuterà a risorgere, com’è sua vocazione. Ma questa è un’altra storia, quasi autonoma e di diverso stile, è la storia di come la società ha trattato Ambrogio risorto, che Mario Recchia ha voluto raccontarci da vicino, con profonda penetrazione umana e con un avvincente prosa espressionistica.
Mario Recchia è nato a Monopoli nel 1951, e nel 1963 si è trasferito a Firenze.
Ha fondato e dirige la compagnia teatrale “La Carrozzella” che raccoglie attorno a se attori e attrici che condividono la sua passione.
Uno dei suoi lavori ‘N Casa di fiaccheraio è stato premiato al concorso biennale fiorentino Firenze alla ribalta. Si diletta anche di cinema ed ha volto in versione cinematografica Amleto ‘i vinaio, e scritto, realizzato curandone la regia, rappresentato e prodotto in proprio L’ultimo volo del gabbiano film drammatico poliziesco che hanno riscosso discreto successo al loro apparire sugli schermi.
Un uomo, due vite! è uno dei suoi romanzi, una drammatica storia ispirata dai personaggi della malavita di Milano, quella che un tempo risiedeva nella zona dei Navigli e di Porta Ticinese. Soprattutto è raffigurata una certa Milano, con le sue prostitute, i suoi gratta, i suoi rapinatori e la sua polizia.
Doveva stare per un po’ di tempo lontano dall’ambiente che frequentava solitamente a causa di alcune pendenze con la giustizia che lo assillavano davvero, e dunque, si rifugiò come al solito dalla sua amica “del cuore”, Virginia, la quale, da sempre diceva di essere innamorata di lui e di voler trascorrere la sua vecchiaia insieme a lui, lui non sapeva che tipo di sentimenti provava per lei… non aveva mai avuto il tempo e la voglia di pensarci.
Tuttavia, quella sera decise di fregarsene, fregarsene ed uscire a prendere una boccata d’aria fresca in ogni caso, comunque fossero andate le cose, era davvero stanco di starsene tutti i giorni in casa a poltrire… doveva proprio uscire.
Tanto in città la polizia aveva tanto di quel da fare che non poteva certamente pensare continuamente a lui… in fondo non aveva commesso che qualche piccola rapina… qualche piccolo furto, qualche minaccia a mano armata ed altre sciocchezzuole del tutto irrilevanti; in verità aveva anche aiutato uno sbirro a concludere precocemente la sua vita terrena… ma quella è un’altra storia… «tanto che ci faceva al mondo un tipo così insignificante?»
Diceva quando ci pensava.
Poi dicevano anche che faceva sfruttamento alla prostituzione… ma non era vero! Erano soltanto delle care amiche alle quali offriva la sua protezione in cambio di qualche piccolo regalino che gli facevano spontaneamente… con che coraggio lo chiamavano “sfruttamento alla prostituzione”?
Però doveva tenere ben presente che quella puttana della commissaria di polizia, la dottoressa Ilaria Benivieni, gliel’aveva giurata, l’ultima volta che aveva dovuto rilasciarlo dopo l’ennesimo arresto, gli aveva detto che prima o poi un po’ di anni di carcere gliel’avrebbe fatti prendere… «è una promessa» gli disse l’ultima volta che la vide.
Lui la salutò con il suo solito sorriso beffardo, ma sapeva anche che lo teneva d’occhio e che dunque, doveva stare molto attento, lei non era una che scherzava.
In verità, non era la sola che gliel’aveva giurata: tanti anni prima, una sera insieme ad un altro balordo dei navigli, dopo che avevano rapinato una gioielleria la quale gli aveva reso un bel po’ di grana, furono inseguiti dagli sbirri.
Il primo fu preso subito e lui fu preso il giorno dopo, proprio mentre era a letto con una che voleva trascorrere la sua vita con lui… allora aveva il fascino del capo.
Però prima che lo arrestassero, fece in tempo a nascondere bene il malloppo, e quando lo misero nello stesso carcere dove avevano messo anche quello con il quale aveva fatto la rapina insieme, con lui, durante l’ora d’aria, trovò l’accordo che al processo si sarebbe addossato quasi tutte le colpe lui, tanto qualche anno di carcere avrebbe dovuto farlo ugualmente e … un anno più o un anno meno … che differenza faceva?
Per il primo non faceva nessuna differenza, per lui invece era importante, sarebbe uscito subito, e una volta che sarebbe uscito lui, lo avrebbe integrato nella sua banda e gli avrebbe dato la sua parte del bottino con gli interessi, e promise anche che durante il periodo di carcerazione, non avrebbe fatto mancare niente a lui ed alla sua famiglia, e per quanto riguarda i soldi per l’avvocato… «non ti preoccupare che ghe pensi mi!
Lo sai che Ambroeus l’austriaco l’è ona persona per bene… fa minga el bamba cia» lo rassicurò.
Lui con quelle promesse e conoscendolo bene, acconsentì subito all’accordo… forse vedeva un futuro roseo con lui.
E così fecero, lui si addossò tutte le responsabilità e fu condannato ad anni quattro, mesi dieci e giorni venti, mentre il nostro invece uscii subito, dopo aver fatto solo una ventina di giorni di carcere.
Quando dopo anni quattro, mesi dieci e giorni venti Pietro Colombo, dagli amici Milanesi chiamato Peder, uscì… beh, sai com’è, non è che le promesse si possono mantenere sempre, anzi il più delle volte, è proprio impossibile, in quel periodo era diventato molto sicuro di sé, viaggiava con una Alfa Romeo sportiva rossa, corredata di bella bionda al seguito… era un accessorio che non doveva mai mancare.
Appena uscito il Peder, andò subito a trovarlo innanzitutto per dargli dell’infame per non aver provveduto né a lui né alla sua famiglia… e neanche all’avvocato, e poi voleva i daner della rapina che avevano fatto, e lui di daner ne aveva solo per se, fu così che d’improvviso gli saltò addosso con in mano un coltello, solo il provvidenziale intervento di due suoi scagnozzi riuscirono a salvargli la pelle; però anche lui, gliela promise, ricorda ancora le sue parole: “da questo momento in poi guarda sempre davanti, di dietro, dai fianchi e dall’alto, perché prima o poi, mi vedrai apparire, e il mio viso, sarà l’ultima cosa chevedrai… te lo giuro sui miei bambini”; quando diceva così, faceva proprio sul serio, quindi doveva guardarsi le spalle anche da lui, oltre che dalla commissaria Benivieni.
Quella sera però, voleva vivere una serata normale… proprio come quelle che trascorrono le persone normali… ne sentiva proprio l’impellente necessità; era proprio stanco di starsene rintanato in casa di qualche compiacente amica alle quali, molto gentilmente ed in cambio di qualche ora di buon sesso gli concedevano la loro ospitalità, e non solo… quando era in bolletta, ai suoi fabbisogni quotidiani, ci pensavano loro… anche perché lo sapevano che quando andava bene qualche colpetto, diventava molto generoso… ah… dimenticavo di dirvi chi stiamo parlando… che sbadato.
Si chiama Ambrogio Schultz, (per gli amici… e per gli sbirri, “Ambreus l’austriaco”) è nato sui navigli subito dopo la fine della guerra, esattamente nel 1951 il suo cognome è di origine Austriaca, come sua madre… ah… sua madre! Rebecca Schultz. Credo che quando è nato lui, aveva più o meno una ventina d’anni.
Non ricordava più neppure il suo viso, ricordava solo che era molto bella.
Era giovanissima e si era trasferita a Milano da un paesino di montagna dell’Austria, in cerca di fortuna a Milano, ma invece dalla fortuna aveva trovato un farabutto che l’aveva illusa, facendola prostituire, promettendogli un futuro migliore… ed invece!!!
Quella mattina che lo accompagnò al collegio … lei lo chiamava così, collegio, in realtà si trattava di un lurido orfanotrofio pieno di figli di puttana come lui.
Quella mattina dicevo, quando lo lasciò alla suora che li aspettava sulla soglia di un grande portone grigio, mentre le scendeva una lacrima, lo baciò sulla fronte… non l’aveva mai fatto. Mentre gli dava quell’unico bacio, con quell’accento austriaco che la contraddistingueva, gli disse: «io un ciorno fenire a prentere te e poi, insieme, antremo a prentere tuo fratello Carlo… tuo cemello che io afere messo in altro collegio quando era ancora molto piccolo».
Un fratello… un fratello gemello, fu quella l’unica volta che sentì dire che aveva un fratello, e per di più gemello, però la cosa, sembrò quasi non interessargli.
Quella frase gliela disse in un Italiano molto stentato, d’altra parte lei, l’Italiano lo parlava così, difatti anche con lui parlava sempre in tedesco, era quella la lingua che si parlava in casa sua… anche se abitavamo ai navigli. Però, conoscere quella lingua così bene, spesso nella vita gli aveva fatto comodo, così l’aveva sempre “coltivata” e non l’aveva mai dimenticata, anzi, parlava e parla il tedesco in maniera perfetta, tanto che con il tempo e con l’aiuto di una di queste scuole per corrispondenza, durante una delle sue svariate detenzioni durata tre anni, aveva imparato anche a leggere e scrivere in tedesco, adesso è praticamente bilingue.
Beh certo, la sua infanzia non è stata delle migliori, molto spesso non c’era neanche da mangiare, quello che guadagnava sua madre facendo quel mestieraccio, non bastava neanche per quell’ubriacone e farabutto del suo mantenuto il quale, troppo tardi secondo Ambrogio, fu trovato morto incastrato sotto un ponte dei navigli con la testa fracassata…
Come è nata l’idea di questo libro?
Questo libro nasce dalla voglia di raccontare le storie più intime di una qualsiasi Città Italiana, non domandatemi perchè ho scelto Milano…non lo so; so soltanto che sono stato preso da una curiosità che andava oltre la curiosità, ho fatto decine di viaggi fra Firenze, dove vivo, e Milano, sempre alla ricerca di qualche vecchio cialtrone che viveva nella parte più povera e con un cuore battente come erano i Navigli a Milano…ho frequenta osterie, sempre più difficili da trovare, ho parlato con vecchi che hanno vissuto i Navigli durente gli anni ’50, ho parlato anche con gente che si sono fatti venti anni di carcere, mi sono fatto raccontare, ho letto nei loro occhi, ho interpretato ed ho scritto…
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
No! Non è stato difficile, io non scrivo con la penna, scrivo col cuore, non faccio mai programmi o scalette su quello che devo scrivere, scrivo di getto e tutto quello che ho nel cuore lo metto su carta…compreso le lacrime che verso durante le scritture, sono così, a volte mi lascio coinvolgere a volte più del necessario dalle mie storie, i personaggi da me inventati vivono in me come se davvero esistessero….in effetti essi esistono dentro di me.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Una per tutti: Oriana Fallaci.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nato a Monopoli in provincia di Bari il 1/11/1951. Vivo sulle colline del Chianti, a San Casciano Val di Pesa. Sono venuto ad abitare a Firenze in una fredda mattina di Ottobre del 1963, e quella stessa mattina, di quella Firenze, me ne innamorai. “Appulotoscano” amo definirmi. Per l’amore che nutro per Firenze e per l’amore che conservo intatto per la mia Monopoli, la quale, mi ha donato la vita e dove, di tanto in tanto, mi rifugio alla ricerca di “linfa vitale”; durante un’intervista televisiva, in maniera molto chiara dissi: “… amare Firenze e Monopoli, è come amare due bellissime donne, senza che l’una sia gelosa dell’altra, vivo dunque questa dualità, in maniera meravigliosa …”
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dal momento che scrivo romanzi, commedie teatrali, films e varie… non so mai che farò da grande… so soltanto che mi dichiarerò ufficialmente morto quando smetterò di sognare… nonostante i miei sessantanove anni.
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