Edito da Grazia Gironella nel 2019 • Pagine: 272 • Compra su Amazon
Per sfuggire a una realtà intollerabile, Veronica si mette sulle tracce di un sogno: il padre che non ha mai conosciuto. I sogni, però, possono essere pericolosi…
Veronica ha sempre avuto una situazione familiare difficile per i problemi di sua madre. Quando scopre che sta per seguirla in una comunità per tossicodipendenti e per l’ennesima volta si vedrà sconvolta la vita, decide di fuggire per trovare il padre che non ha mai conosciuto. Non sa che i problemi di sua madre la metteranno in pericolo, né che \"padre\" può essere solo una parola. Ma la fuga le farà anche conoscere delle persone speciali, che la aiuteranno a rispondere alla sua vera domanda: chi sono io?
Mentre stringo in mano il rotolino delle banconote, rannicchiata nel mio albero, all’improvviso vedo me stessa dall’esterno, come potrebbe vedermi un gufo in sorvolo, o ancora più su, il pilota di un elicottero. Non mi piace quello che vedo: una ragazza sola nella foresta, con uno zaino pieno di niente e nessuna idea chiara in testa.
Le energie e l’eccitazione scivolano via, mi lasciano dissanguata e senza speranza. Anche se ci ho pensato mille volte, non ho mai progettato una fuga da casa. Non sono preparata. Non so nemmeno quale sia il mio intento, a parte farla pagare a mia madre. Basterebbe questo a qualificarmi come una sciocca. Una minorenne senza lavoro e senza soldi, che ha fatto una stupidaggine. Questo sono.
Forse dovrei tornare, e farlo subito, prima di rendermi troppo ridicola. Dirò… che mi ero appartata per fare pipì e mi sono persa. Ottima scusa, che mi farà sembrare ancora più scema di quello che sono. Accetterò i musi lunghi, i ti-rendi-conto-di-quanto-mi-hai-fatta-preoccupare e i quando-ti-deciderai-a-crescere. Andrò a Villa Serena. Ci saranno altri sorrisi compassionevoli, altre Rocco che chiederanno di parlarmi in privato, altre facce di ragazzi indifferenti. Non vedo altre possibilità. Forse non ce ne sono mai state.
Ripercorro i miei ultimi movimenti, cercando di individuare la direzione che mi riporterà a Villa Serena. E se mi fossi persa davvero? Invece ritrovo qualche dettaglio del percorso che mi è rimasto impresso: un ramo basso, quasi orizzontale; la macchia spinosa in cui sono rimasta impigliata poco fa. Riavvolgo il filo nel labirinto di Arianna.
Quando tra gli alberi intravedo finalmente il ciglio della strada e la station wagon del nostro accompagnatore, mi rendo conto di non essermi allontanata quanto credevo.
Il viale di Villa Serena è illuminato a giorno, il cancello spalancato. Nello spiazzo davanti all’entrata il signor Gi parla al cellulare. A pochi passi da lui una signora alta e magra osserva la mamma che cammina avanti e indietro, parlando da sola come una pazza.
Avanzo a passi leggeri, cercando il riparo dei tronchi. Non ho fretta di arrivare da loro a giustificare la mia sparizione. Mi fermo quando arrivo a distinguere bene le voci, come se una mano invisibile mi trattenesse. Non è facile nemmeno tornare…
«Come ha potuto farmi questo?» La mamma stringe le braccia incrociate al petto, come se avesse freddo o dovesse difendersi da qualcosa. Continua a scrutare tra gli alberi, ma so che non può vedermi.
«Lei non voleva venire, questo lo sapevo, ma credevo che una volta arrivata…»
Mi volta la schiena, e la sua frase diventa un borbottio incomprensibile. Credeva, cosa? Che mi sarei rassegnata, probabilmente. Questo fa chi non ha potere: urla, piange, sbatte le porte, e poi si arrende.
«E la polizia?» La voce della mamma si alza di nuovo stridula, mentre gesticola in aria. «Cosa fa la polizia? Mi dicono che stanno mandando qualcuno, ma non devo preoccuparmi perché gli adolescenti che scappano vengono quasi sempre ritrovati! Quasi, ha capito!»
«Mi scusi, signora, ma è sicura che sua figlia non sapesse già dove andare?» domanda in tono cauto la signora sconosciuta, che forse lavora a Villa Serena. «Magari da un’amica, o da suo padre…?»
«Ma quale padre!» Il ringhio della mamma fa arretrare la signora e sussultare me, anche a distanza. «A Veronica ho detto che quel bastardo è morto. Discorso chiuso.»
«Ma una piccola verifica, forse…»
«Oh, la smetta! Non ha niente di meglio da fare? Queste chiacchiere non riportano indietro mia figlia.»
«Mi scusi, non volevo irritarla. Attendiamo la polizia.»
Faccio in tempo a vedere la signora battere in ritirata verso la villa, prima di scivolare a terra dietro il riparo del mio albero. Mi appoggio al tronco con la schiena, chiudo gli occhi. Aspetto che il mio cuore rallenti la sua corsa furiosa.
Mio padre.
Dovrebbe essere una sorpresa sconvolgente. Invece mi scopro a pensare: lo sapevo.
Infilo una mano tremante nello zaino e cerco alla cieca tra le pagine del mio vecchio libretto di Geronimo Stilton, fino a trovare un piccolo ritaglio di giornale rovinato. Lo apro con le mani che tremano, solo per creare un contatto.
L’ho trovato quando avevo dieci anni nel comodino della mamma, strappato in quattro pezzi. In quel momento avevo in mente di controllare se ci fossero in giro polverine sospette, ma la mia scoperta – un ritaglio di giornale con la foto di un uomo, una volta ricomposto con lo scotch – mi fece dimenticare il mio scopo. Perché strappare l’articolo e poi non buttarlo? Perché tenerlo lì, nascosto? Forse ci era finito per sbaglio. Forse serviva a qualcosa che io non riuscivo a immaginare. Forse…
Sono cresciuta con quei ‘forse’ e con quel pezzo di carta nascosto tra le pagine del mio libro, dove gli avevo creato una tasca segreta, formata da due pagine incollate ai lati. Non volevo che la mamma lo trovasse. Ogni tanto lo tiravo fuori per riguardarlo: l’uomo in piedi, appoggiato al muro con la schiena, le braccia conserte in una posa disinvolta, da persona abituata a farsi fotografare; il maglione scuro a collo alto sui jeans; il viso rovinato da una bruciatura della carta che salvava soltanto una parte di barba e un occhio. A lato, poche parole stampate, quasi illeggibili.
A tenermi incollata a quel pezzo di carta era la rabbia degli strappi, della bruciatura. Nessuno riserva questo trattamento alle persone che non contano. Oppure sono morte.
Potrebbe esserci chiunque in quella foto, ma io so che è mio padre. In qualche angolo remoto di me, devo averlo sempre saputo.
La mamma parla al cellulare e mi dà le spalle. Ha la postura rigida e un po’ impettita, come sempre quando qualcosa le va storto. Del resto ho appena guastato la sua gloriosa entrata a Villa Serena. Striscio via dalla mia postazione dietro l’albero, attenta a non fare rumore.
La luna si è scoperta e la sua luce mi fa intravedere tra gli alberi un’ipotesi di percorso che mi riporterà indietro, nel buio del bosco più fitto. Trattengo i passi che vogliono prendere la corsa, li obbligo a rallentare per allontanarmi in silenzio dalla strada. Nessuno si accorge di me.
No, non torno. Adesso so perché sono scappata.
Mio padre deve essere una persona a posto; si capisce dalla foto. Lui mi aiuterà. In fondo è sempre mio padre, qualunque cosa sia successa tra lui e la mamma. Forse non sa di me, ed è per questo che non si è mai fatto sentire. Immagino il nostro incontro: noi due che ci guardiamo sconvolti e poi ci abbracciamo stretti, piangendo. Che scema sono. Questa è vita, non un film con il lieto fine assicurato. Lo stesso l’eccitazione sale lungo la mia schiena, mi fa rizzare i peli sulle braccia.
Se ho un padre, forse non sono obbligata a entrare in comunità con la mamma. Anche lui dovrà partecipare alle scelte della famiglia – perché siamo comunque una famiglia, no? Riuscirò a convincerlo che per me è meglio continuare la scuola a Parma, con tutta la fatica che ho fatto per non essere bocciata. Potrei stare nel convitto, e prepararmi agli esami di settembre mentre la mamma cerca di risolvere i suoi problemi. Uscirò con Lara; conosceremo altri ragazzi, altre ragazze. Faremo una vita quasi normale. E se invece mio padre volesse tenermi con sé? Che idea terrorizzante… e meravigliosa. Potrebbe anche aiutare la mamma a trovarsi un lavoro vero, perché no? Finalmente qualcosa sta per cambiare, lo sento.
Per prima cosa, devo scoprire il suo nome.
Come è nata l’idea di questo libro?
La ricerca di se stessi è un tema che mi è caro anche alla mia età adulta, ma immagino che avere cresciuto mio figlio, ora studente universitario, mi abbia dato abbondante materiale su cui fantasticare.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Scrivere un romanzo è sempre un’impresa. “Veronica c’è” non è il mio primo romanzo, perciò sapevo come muovermi e avevo già un mio metodo di lavoro, ma questo non toglie nulla al tempo e alla dedizione che sono necessari per arrivare alla parola “fine”. In particolare la revisione è impegnativa e richiede più tempo della stesura del romanzo, cosa cui si può non essere preparati.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Sono una lettrice onnivora; amo sperimentare. Sono convinta che tutto lasci una traccia in me, che inevitabilmente andrò a elaborare nelle mie storie. Non ho però veri autori di riferimento, almeno di cui sia consapevole.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata a Bologna e lì ho vissuto fino al 2008, quando mi sono trasferita con la famiglia in Friuli, dove vivo tuttora.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
In questi anni ho pubblicato romanzi, racconti e saggi, prima tramite l’editoria tradizionale, poi avvalendomi di Amazon KDP per autopubblicare. Questo mi ha dato la possibilità di conoscere i diversi aspetti della scrittura e me stessa come autrice. Il mio progetto principale per il futuro è… continuare a scrivere! Mantenere viva la passione per la scrittura, proteggendola dai fattori esterni e interiori che spesso la minano. Non c’è niente di più importante.
Grazia è un’autrice piena. Consigliato a qualunque tipo di lettore perché sa disegnare personaggi veri che graffiano il cuore