
Edito da Eva Mikula nel 2021 • Pagine: 247 • Compra su Amazon
Era il 1991, una ragazzina persa nel bosco della vita abbandona la sua famiglia. Cerca la sua strada.
Non sa ancora che un anno dopo, questa l’avrebbe condotta in Italia dove incontrerà il suo lupo cattivo. Sola, spaventata e soprattutto soggiogata, chiede soccorso ad un amico lontano: “Aiutami!! Ci sono ragazze prigioniere, ragazze scomparse e poliziotti coinvolti!” Fu così che la polizia italiana iniziò a indagare i lupi cattivi, seguendo la falsa pista su un presunto traffico di esseri umani. Inizia in questo modo il racconto della vera storia della cattura dei criminali noti come “la banda della uno bianca” che dal 1987 al 1994 insanguinarono le strade dell’Emilia Romagna e delle Marche, uccidendo 24 persone, ferendone 103.Sembra incredibile che per sette lunghi anni i cacciatori non siano riusciti a trovare i lupi cattivi. Ci è voluto Cappuccetto Rosso, la ragazzina della favola di Charles Perrault e dei fratelli Grimm a indicare la giusta via nell’oscuro sottobosco della giustizia.
La fine della banda porta infatti la firma indelebile di Eva Mikula, diciannovenne ragazza ungaro-rumena che per tutti era la donna del capo. Lei sfidò uomini pericolosi, assassini senza scrupoli.
Sfidò anche il potere annidato nei palazzi che voleva e vuole ancora ammaestrare la verità. Eppure fu grazie alla sua testimonianza meticolosa, resa grazie ad una inscalfibile memoria, che si arrivò all’arresto di tutti i componenti della banda, mettendo la parola fine alle loro imprese criminali, salvando così altre vite innocenti. Che sia stata proprio la sua profonda conoscenza della verità a renderla di fatto una pedina sacrificabile da quel sistema che prima l’ha usata e poi, di fatto, abbandonata a se stessa?
Fin qui, la storia di una vicenda letta sui giornali e ascoltata in TV. Ma chi è realmente Eva Mikula?
Com’era la sua vita prima dell’incontro col lupo feroce? La comunità come ha ricambiato il suo gesto che l’ha esposta a grave rischio e pericolo, ora più che mai attuale attesi i prossimi fine pena?
Insomma Eva è finalmente uscita dal bosco? Chissà …forse scrivendo questo libro si libererà
finalmente dai rovi pungenti e dalle bestie feroci che popolano la foresta.

Da Milano prendemmo un treno per Tarvisio. Io riuscii a dormire un paio d’ore, Fabio invece restò sveglio per tutto il viaggio. Stava seduto vicino al finestrino, come se volesse nascondersi dietro la tendina, al minimo rumore scattava. Decise di scendere a una stazione secondaria, vicino a Tarvisio. Salimmo a bordo di un autobus che percorreva una strada quasi parallela all’autostrada “Ok, scendiamo” mi disse Fabio. Eravamo in mezzo al nulla, era buio, era la sera del 23 novembre 1994. Mi indicò una direzione, verso la distesa della campagna: “Vedi? Quelle sono le luci di un autogrill”. Per arrivare all’autogrill, che si chiamava La Fella, come il fiume lì vicino, attraversammo a piedi, di notte, la campagna e anche l’autostrada.
Se ci ripenso ora mi tremano ancora le gambe. Attraversare l’autostrada a piedi, al buio! Una follia. Alla Fella ci sedemmo davanti a un tavolino, avevo freddo, ero intirizzita, c’era molta umidità là fuori. Ordinai un tè caldo e finalmente parlammo. Discutemmo a lungo, ciò di cui mi parlava non lasciava presagire nulla di buono, dal mio punto di vista. Mi spiegò il suo piano: “adesso siamo vicini al confine con l’Austria. Dobbiamo andare in Ungheria. Ci infiliamo, di nascosto, dentro un tir che va verso l’Ungheria”. Era un ex camionista, sapeva come fare e voleva farlo con me. Non poteva lasciare l’Italia semplicemente attraversando la frontiera: lo avrebbero fermato e comunque credo che non avesse con sé il passaporto. E nemmeno io avevo i documenti, eravamo usciti di casa di corsa, con suo fratello per accompagnarlo a Bologna, verso mezzogiorno del 21 novembre. Comunque no, non potevo assecondarlo, dovevo giocarmi il tutto per tutto, come un giocatore pokerista che chiama “all in”, puntando ogni fiche in una sola mano. D’altronde quella che si stava giocando era per me la partita della vita, anzi la mia partita per la vita.
Così gli dissi: “Io non continuo”, non mi ero mai ribellata fino a quel punto. Ma non c’era alternativa. Quindi con calma e freddezza cercai di farlo ragionare per fermare quel progetto folle e pericoloso. Penso di aver rischiato la vita in quel frangente, ma non ebbi dubbi, da lì, a costo di morire, di essere uccisa da lui, non mi sarei più mossa per seguirlo.
Quell’area di servizio era diventata la mia red line non l’avrei mai oltrepassata. Ero certa che gli investigatori e le forze dell’ordine fossero sulle sue tracce, per di più Fabio aveva perso il suo braccio destro: Roberto era stato fermato. Questo lo rendeva insicuro, la sua certezza vacillava, se avesse perso anche me sarebbe stato ancora più debole, e tra l’altro, in Ungheria, senza il mio aiuto, non avrebbe potuto muoversi con facilità.
Da quella storia dovevo assolutamente uscirne ad ogni costo. Era un imperativo porre fine a tutto ciò, anche a quella relazione contorta, iniziata come amore e trasformatasi in tragedia. Bastava così, era troppo. Gli ribadii la mia ferma opposizione: “Io non continuo, perché dovrei fuggire? Non ho mai fatto niente di male. Perché devo vivere una vita in fuga, da adesso in poi? Se tu vuoi scappare, vai, io torno indietro”. Lui replicò: “Tanto se adesso torni indietro, arrestano anche te. Minimo ti daranno 10 anni, la giustizia funziona così”. È vero, ero ancora una ragazzina, ma non più tanto ingenua. Gli risposi decisa: “Anche se mi dovessero condannare a 10 anni da innocente, non mi interessa. Io non voglio scappare, non avrei più una vita normale. Tu, da questo momento in poi, sarai un latitante. Non ho alcuna intenzione di passare i miei giorni a guardarmi le spalle per colpa tua.
Credo che non lo vorresti neanche tu”. In una diversa circostanza questa mia alzata di testa mi sarebbe costata l’ennesima scarica di calci e pugni, ma qui stavamo giocando la partita finale del torneo in campo neutro, non eravamo nel chiuso della casa-prigione di Torriana, al riparo da sguardi indiscreti. Ci trovavamo in un luogo pubblico, in mezzo alla gente. Il fattore campo giocava a mio favore, ma non era sufficiente, poteva accadere ancora di tutto. Cercai allora di toccare il tasto più importante per Fabio, facendo leva sui sentimenti imprescindibili: “Devi pensare a tuo figlio” gli dissi. “In questo modo, se tu continui a darti alla latitanza, non lo vedrai mai più. Vivrai scappando, consapevole che potrebbero ucciderti in ogni momento”.
Avevo di fronte due possibili scenari: in uno c’ero io con l’opzione di approfittare di questo suo momento di debolezza e di incertezza, per guadagnare finalmente la mia libertà. Nell’altro c’era lui che, proprio per questo, sentendosi braccato e quasi senza via d’uscita, avrebbe potuto agire con ancora più spietatezza del solito, come una bestia feroce che non aveva paura di nulla e con più nulla da perdere. Una fine tragica e sopra le righe, proprio come erano state tutte le azioni di questa banda criminale. Sarebbe stato capace di ammazzarmi e di togliersi la vita, glielo leggevo negli occhi.
Cercavo di parlargli con calma, per farlo ragionare sulla possibilità di arrendersi. Ma lui era avvolto dall’idea che, piuttosto di passare una vita in carcere, forse era meglio tentare di far perdere le proprie tracce o di farla finita.
La sua mente era nel buio più totale, rischiai tanto in quei frangenti, ma non tornai sulla mia decisione: “Io non proseguo, non faccio neanche un passo”. Lui mi chiese: “Che cosa intendi fare, allora?” “Chiamo il 113. Mi faccio venire a prendere, poi si vedrà”. Forse in quel caso sbagliai le parole, forse avrei fatto meglio a dirgli: “Me ne torno indietro a piedi da sola e poi si vedrà, affronterò il mio destino”.
Per me il problema diventò molto serio, avevo veramente sbagliato le parole. Fabio temeva che se mi avesse lasciato andare, io non avrei taciuto sui segreti della banda della Uno bianca, almeno quelli che conoscevo direttamente, decretando così la loro fine. Mi guardò pieno di rabbia e di veleno e mi sfidò: “Fallo adesso! Dai chiama il 113, coraggio fammi vedere di cosa sei capace!”. Con violenza mi prese per un braccio, stringendomelo, e mi trascinò con forza davanti al telefono pubblico dell’autogrill, il mio vantaggio del fattore campo si era improvvisamente azzerato. Il suo sguardo terrorizzante era fisso sui miei occhi, quasi come stesse cercando di leggermi nei pensieri, con una mano mi teneva stretta sotto l’ascella, con l’altra mi puntava la pistola al fianco destro. Avevo paura, pensavo di essere giunta al capolinea della mia vita, ma non lo feci vedere perché ero pronta a morire, pur di non proseguire con lui.
Con la mano libera presi la cornetta del telefono, la alzai e composi il numero 113. Rimase di stucco, non ci voleva credere, e quando sentì che una voce aveva risposto, schiacciò il gancio per riattaccare e mi spinse fuori dall’autogrill, al buio, nel parcheggio in mezzo ai camion. “Ok” pensai, “per me è finita qui”, vidi la morte in faccia. “Che cosa vuoi fare?” gli chiesi con voce tremante. Lui restava in silenzio e continuava a spingermi verso il buio, sul retro dell’autogrill. Cercavo di calmarlo “Non ti agitare, non serve, parliamone”. Per accendersi una sigaretta allentò la presa sul mio braccio. Mi divincolai con uno scatto e cominciai a correre a perdifiato. Correvo verso la luce dell’autogrill e aspettavo il rumore dello sparo e l’arrivo veloce e violento del proiettile nella carne. Correvo muovendomi a zig, zag. Riuscii a entrare all’interno del bar dell’autogrill, rallentando il passo e trattenendo il fiatone, mi rimisi seduta al tavolo. Appoggiavo per terra la punta dei piedi e fissavo il cameriere, gli stavo gridando aiuto con lo sguardo. Ero esausta, disperata, stravolta e piangevo.
Il barista capì, si accorse che qualche cosa non andava per il verso giusto. Arrivò anche Fabio che, stranamente, si sedette con le spalle rivolte all’ingresso. Stavolta ero io di fronte a lui che potevo osservare chi entrava e chi usciva. Era stato proprio Fabio a spiegarmi, quando facevamo i viaggi in Ungheria, che a quell’ora c’era il cambio di turno delle volanti della Polizia stradale, e che, quando avveniva, i poliziotti, per consuetudine, entravano nei bar degli autogrill a prendere il caffè all’inizio del turno. Guardavo continuamente l’ora. Dovevo prendere tempo, cercavo di distrarre Fabio, gli parlavo di tutto cercando di calmarlo e tentai di farlo familiarizzare con l’idea della resa, ma lui non dava segni di accettare passivamente questa eventualità. Attraverso i vetri vidi finalmente la pattuglia fermarsi davanti all’ingresso e i due agenti scendere dall’auto di servizio.
A Fabio bastò incrociare il mio sguardo per capire tutto: “Sono arrivati” disse, rimanendo impietrito. Aggiunse solo: “Ecco, adesso ci siamo”. Restammo in silenzio. Il barista, mentre serviva i poliziotti, mi guardava come per avere una conferma della mia muta richiesta di aiuto, ma io facevo finta di nulla, avevo Fabio di fronte a me, meglio non insospettirlo. Notai che il barista disse qualche cosa ai poliziotti, sussurrò loro nell’orecchio, ma si girarono in direzione dell’uscita. Fabio si alzò andando verso il bagno. I due poliziotti, notando il movimento, si fermarono e, tornando indietro, ci chiesero i documenti. “Non li ho” dissi subito io, per prima. Non avevo neanche una borsa, non avevo nulla, aprii anche il cappotto. Chiesero di identificarsi a Fabio, lui mise una mano dietro.
Per me furono istanti di terrore, perché non sapevo se avrebbe estratto la pistola per ucciderli o tirato fuori un documento, lui porse loro la patente e i due agenti, ignari del pericolo che stavano correndo, uscirono per fare il controllo via radio, senza adottare nessun tipo di precauzione. Ci lasciarono al nostro tavolo, io ero spaventatissima. Eravamo all’apice della tensione ero convinta che approfittando della loro superficialità, Fabio li avrebbe eliminati per continuare la fuga. Nell’estremo tentativo di trovare il modo di ribaltare la situazione e fare in modo che non scorresse altro sangue dissi a Fabio: “Dai usciamo, non aspettiamo che tornino, che qui diventa Natale (nel senso che sarebbero arrivate altre macchine con i lampeggianti in funzione); non facciamo casino qua dentro”.

Come è nata l’idea di questo libro?
Scrivere tutta la mia storia in un libro, ho pensato fosse lo strumento migliore per far conoscere Eva Mikula anche a coloro che ritengono di sapere già tutto di me. Sentivo il bisogno di placare la mia indignazione e la mia rabbia per una verità mai rivelata appieno dalle Istituzioni italiane e per aver subito l’ennesimo attacco ingiustificato da parte di chi ancora, malgrado le mie sentenze di assoluzione, dal suo privilegiato scranno e dopo 26 anni dalla cattura di una banda di criminali poliziotti, ancora pretende di etichettarmi come una responsabile di quei lutti, esternando solo frasi di odio e disprezzo nei miei confronti, noncurante degli effetti che esse continuano a provocare sulla mia vita. Io combatto l`ingiustizia da quando ero bambina, devo farlo anche da adulta, un destino crudele ma non ho altra scelta che affrontare la vita e le mie paure. Mettere per iscritto quello che avevo dentro di me, quello che desideravo sapessero tutti è stata la migliore terapia nella ricerca di me stessa.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Dare voce alle sofferenze e alle ingiustizie che subiscono le donne, è il mio progetto letterario per il futuro.
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