
Edito da Ciesse Padova nel 2020 • Pagine: 272 • Compra su Amazon
Trentino, 1914. Una famiglia di contadini vive in terra austriaca, nei pressi del confine italiano. L’inizio del conflitto mondiale la costringe alla separazione: il padre è reclutato nell’esercito dell’impero ed è inviato sul fronte orientale, la madre ed il figlio di sei anni saranno internati nel campo profughi di Braunau, quando l’Italia dichiarerà guerra all’Austria. Lontani per lunghi anni, non conoscono la sorte l’uno dell’altra. La storia di un uomo, di una donna, del piccolo Giuseppe che si fa grande, le loro lotte, le loro speranze sono raccontate in una vicenda, nella quale la sopravvivenza è legata anche alla trasformazione delle anime.
Welsch-Tirol (Tirolo Italiano) fu il nome dato al Trentino, ai tempi dell’Impero asburgico, per indicare la zona in cui si parlava la lingua italiana. Fu coniato da Giulio Cesare che chiamava Volcae una tribù della Gallia. Nel tempo, Welschen indicò le popolazioni francesi e italiane, che parlavano lingue neolatine, per distinguerle dai Germani, la cui lingua derivava dal ceppo tedesco.

PRIMO CAPITOLO
Le baracche di Braunau erano scure macchie di eternità. Basse, col tetto appena spiovente, assi piatte di legno, larghe e pesanti. Piallate grossolanamente, facevano emergere schegge che ferivano la pelle e pungevano i pensieri. Erano accostate alla grossa, con qualche fessura. Lungo le pareti si potevano trovare buchi dai quali spiare se non erano troppo alti. Dall’esterno si vedeva poco o niente: un’oscurità da dimenticare, ma da dentro scorgevi il fuori grigio dello scorrere del tempo, da un angolo all’altro del campo di visuale, lo spiffero freddo che ti colpiva la pupilla ed il cuore. Lui non aveva mai visto case così lunghe. Assomigliavano alla segheria veneziana dei Mein col ruscello che passava di lato e i pini tutto intorno, oppure alla malga Cornetto, dove la stalla era una costruzione bassa con finestrelle allineate, ma era un’unica baracca. Qui le case erano ancora più lunghe, una in fila all’altra, in un ordine perfetto tutto tedesco; coprivano un’enorme spianata, si aprivano su corridoi diritti di strade fangose, che facevano il paesaggio pieno di nulla, vuoto e uguale. Si poteva perdersi e non volere più ritrovarsi. A San Sebastiano le spianate non esistevano. E se c’erano, erano piccole e piene di dossi, sempre in pendio, ricche di erba di un verde sfolgorante, dove il vento correva e che la pioggia faceva crescere e brillare. Quando era alta nessuno la doveva calpestare. Questo lui l’aveva imparato presto. L’erba piegata non si poteva tagliare con la lama, era inutilizzabile. Se era stata strappata diventava gialla e secca. Quella buona serviva per far mangiare le mucche o le capre. Doveva diventare fieno per l’inverno. Si andava fino agli alpeggi per segare l’erba e portarla alla stalla, a mano, nel linzol, oppure nella gerla a spalla o col broz, il carretto a due ruote. Se volevi camminare dovevi farlo ai limiti del prato, rispettando i sentieri stretti che si creavano tra le colture: il fieno, l’orzo, le patate. Chi non possedeva la terra, se ne partiva con le greggi prima dell’inverno e stava lontano viaggiando fino alla pianura, dove dicevano che l’erba fosse verde anche d’inverno. I pastori tornavano per la primavera, un po’ cambiati, un po’ cresciuti. Lui ne aveva sentito i racconti, ma se avesse dovuto scegliere sarebbe rimasto tra il verde del suo altopiano, come infatti era avvenuto, dove i contadini da soli in mezzo al pendio, tagliavano i prati con la falce in un movimento ritmico, sempre uguale sempre diverso, un po’ più alto, un po’ più basso, un po’ debole, un po’ forte. Si fermavano a togliere la pietra cote bagnata d’acqua nel corno che portavano legato alla cintura e affilavano la lunga e pericolosa lama prima di riprendere un movimento lontano secoli. La montagna invadeva il paese, il gruppo della Vigolana all’orizzonte diceva in quale stagione stava scorrendo il tempo e il torrente Astico scavalcava i sassi con l’acqua sempre gelida, che non finiva mai di scorrere. Potevi accostarti e accucciarti con attenzione sui sassi; sotto i tronchi dritti di cortecce irregolari, con le mani a coppa, sorseggiare il limpido che gorgogliando veniva freddo di lontano, ascoltando i suoni del vento tra le cime degli abeti, respirando il profumo della resina. Che poteva esserci di più bello? Ogni fruscio lui lo conosceva, qualche ramo spaccato, il cinguettio degli uccelli, il balenare di un capriolo. Tutto questo ora era lontano, perso, dentro la nostalgia del ritorno.
C’era un grosso sasso di arenaria, arrivato forse dall’Inn e rimasto fuori dalla porta della baracca. Si sedeva lì sopra ogni tanto, con negli occhi i suoi ricordi di bambino. Vedeva intorno il grigio. La terra scura di polvere e fango, il cielo bianco, il sole che occhieggiava tra le nuvole. Fissava lo sguardo. Nessuno faceva caso a lui. Aveva imparato a piangere senza farsi notare. Il viso bagnato, poteva essere pioggia o acqua che aveva bevuto, piangeva senza sussulti. Le lacrime erano come l’onda di un lago senza vento, ferma e piatta, quella del lago di Lavarone. Poi si distraeva, vedendo altri ragazzi che correvano in giro. Qualcuno lo conosceva. Erano di Folgaria come lui, ma più grandi, leggeva nei loro occhi una sorta di lontananza che poteva avere la sfumatura del disprezzo. Loro facevano cose che a lui non erano permesse, però avrebbe potuto impararle. Diventare grande era una speranza, quando si guardava le mani. Ma anche se lo fosse divenuto in fretta, loro sarebbero stati sempre avanti a lui. Vedeva i loro giochi, le corse tra le baracche. Si divertivano. Anche in quel luogo avevano trovato il modo di sopravvivere, di sommare il giorno con il giorno. Lui era tra i piccoli, non proprio piccolissimi, non avrebbe dovuto provare invidia. Alla loro età avrebbe fatto quello che loro stessi facevano. Ora doveva restare nel raggio di visuale di sua madre.
Finché un giorno accadde ciò che avrebbe voluto accadesse e a cui pensava con un certo timore. Un ragazzo gli si avvicinò e si fermò davanti al suo sasso. Lui aveva impiegati minuti ad issarsi seduto sulla pietra levigata, l’altro vi si appoggiò dal lato opposto e in un attimo vi fu sopra. Toccava anche in terra con i piedi. Attese. Era un silenzio che prima o poi l’estraneo avrebbe infranto, anche se si davano la schiena. Era scuro di pelle come chi ha preso il sole da quando è nato, i capelli rasati per combattere i pidocchi senza lavarsi. Solo le femmine si potevano permettere lunghi capelli di trecce o code legate. Si domandava in quale lingua avrebbe parlato. Il tedesco dell’impero o l’italiano dell’anima? In quel modo avrebbe capito subito. L’altro si voltò e gli fece un sorriso, mostrando i buchi di denti che dovevano crescere. Non era poi tanto più grande di lui.
«Come ti chiami?» Sorrise anche lui: aveva parlato in italiano.
«Mi chiamo Giuseppe.»
«E io Gino. Sono di Lavarone e tu?»
«Di San Sebastiano.»
«Ecco perché non ti ho mai visto. Noi abbiamo fatto una banda, voi essere dei nostri?»
Giuseppe non era tanto convinto. Si sentì piccolo. Lo guardò in faccia. Le mani di sua madre erano dure e quando colpivano facevano male, ma lui era un maschio, avrebbe potuto dimostrarsi forte e coraggioso. Lasciò da parte i timori e le titubanze. «Davvero? E cosa si fa?»
«Ci aiutiamo tra noi, facciamo giochi, ma anche dispetti a chi li merita…» «E se vi scoprono?»
«Scappiamo, tendiamo trappole…. Non hanno tempo per badare a noi. Se vuoi essere dei nostri devi giurare che non ci tradirai. Subito dopo la distribuzione del pranzo, mentre i grandi sono nelle baracche. Ti aspettiamo.»
«Ci sarò.» Il ragazzo si era già allontanato e lui restò di nuovo a contemplare il cielo e a pensare altrove. Aveva fatto bene? O si era cacciato in un guaio? Si rinfrancò pensando che non aveva fatto ancora niente. Poteva sempre non andare. Di cosa si doveva preoccupare?
Il pranzo veniva portato dalla baracca numero otto adibita a cucina. Le donne, tra cui sua madre, trascinavano i carretti, ma se c’era fango portavano a mano i pentoloni. Quando arrivavano la zuppa era quasi fredda. Nessuno, però si doveva lamentare. L’impero aveva voluto così per salvarli dalla guerra. Il paese era sul fronte. Dunque si doveva essere riconoscenti. Lettere, parole, discorsi, erano sottoposti alla censura. Lamentarsi non era un diritto. Si potevano piangere lacrime calme come l’acqua del lago di Lavarone, senza guardare in faccia nessuno. Restare, mangiare, obbedire.
Tutto era iniziato qualche mese prima, nell’estate del 1914. I messaggeri di Francesco Giuseppe avevano affisso l’editto imperiale in tedesco e in italiano nella piazza, avevano consegnato lettere: la mobilitazione di tutti gli uomini dai ventuno ai quarantadue anni era iniziata. L’impero era in guerra. Lo sapevano tutti che l’erede al trono era stato ucciso a Sarajevo con sua moglie, ma quella era una scusa come un’altra. Il grande impero sentiva franare la terra sotto i piedi e tentava di trovare una impossibile soluzione. La guerra. L’aria era già satura di decisioni non ancora prese, ma inevitabili. A nulla erano valse le preghiere e le processioni di popolo: ad agosto avevano partecipato a quella con la statua di San Floriano, patrono di Lavarone, alle messe piene di preghiere per i soldati, mentre le donne si pulivano di nascosto le lacrime.
Era sera quando udirono la banda degli Alpini. Suonava canzoni allegre. La famiglia arrivava dai campi. Avrebbero munto le tre mucche che avevano nella stalla. Si fermarono ed ebbero conferma delle voci che gravano sopra i tetti. Una grande folla seguiva le autorità, il sindaco, il capitano in divisa. Dietro, i soldati immersi nei canti patriottici, negli inni all’imperatore, all’Austria-Ungheria. Qualcuno gridava: «Evviva la guerra!» La donna rabbrividì. Per quella sera non successe altro. La gente tornò alle case, i soldati nella guarnigione. Qualcuno metteva delle lastre di zinco alle finestre. Ma non poteva finire in questo modo.
Quando il padre vide la cartolina-precetto, capì senza leggere. Sua moglie lo abbracciò. Gli occhi cominciavano ad essere umidi.
«Mi farete avere notizie?»
Una lacrima ballonzolava tra le ciglia e la guancia, ma la gente di montagna non amava esternare i suoi sentimenti. Viveva e reprimeva, stringendo i denti, sorridendo se ne fosse stata capace, per non vessare gli altri, coprendoli del proprio dolore.
«Non preoccuparti, la guerra durerà poco.»
Lui, con lo sguardo in alto e il collo piegato all’indietro, aveva guardato i suoi genitori senza capire.
«Riceverai il sussidio, le altre donne ti aiuteranno, vi aiuterete a vicenda finché gli uomini non torneranno e anch’io tornerò presto.»
La moglie preparò un involto. Lo zaino di tela grezza era pieno, un pezzo di polenta per il viaggio.
«Non preoccupatevi per noi, cercate di essere prudente. Vi aspettiamo.»
Lo prese in braccio, era già robusto per i suoi cinque anni. La vita all’aperto lo aveva reso sano e forte. Ricambiò l’abbraccio senza sapere.
«Dove andate, papà?»
«Torno presto.» ripeté «L’imperatore mi manda a fare la guerra in un posto lontano, tu cerca di stare bravo durante la mia assenza.»

Come è nata l’idea di questo libro?
L’idea di questo libro rodeva nel mio animo da tanti anni. Come spesso accade, il tempo ha risolto sofferenze e ritrosie, la mia timida penna ha partorito la storia che doveva essere ricordata, soprattutto a me stessa.
Quanto è stato difficile portarlo a termine?
Portarlo a termine non è stato difficile. Vivere insieme ai miei personaggi per me è come vivere un’altra vita. Qui si trattava dell’esperienza di profugo di mio padre quando era bambino. Abbiamo anche fatto un viaggio a Braunau per riconoscere i luoghi, così che io potessi essere maggiormente coinvolta.
Quali sono i tuoi autori di riferimento?
I miei autori di riferimento sono i classici, vado anche alla ricerca di linguaggi nuovi, come quello che ho trovato nei libri di Herta Muller, premio Nobel nel 2006. Il suo linguaggio immaginifico mi ha letteralmente affascinata.
Dove vivi e dove hai vissuto in passato?
Sono nata a Trento e ci siamo trasferiti nel Lodigiano nel lontano 1984. Oggi vivo a San Martino in Strada in provincia di Lodi, dove riempio le mie giornate scrivendo e dedicandomi al volontariato, dopo aver insegnato Lettere per quarant’anni.
Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il mio futuro è breve perché non ho vent’anni, i miei progetti sono quelli di scrivere, scrivere, scrivere, e soprattutto andare a caccia di storie nascoste perché non restino tali!
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