«Fuoco di paglia è amore di poeta, / perciò è vorace, ed è così fugace».
Attila József [Read more…]
Versi migranti
Non ti allarmare fratello mio,
dimmi, non sono forse tuo fratello? Perché non chiedi notizie di me?
È davvero così bello vivere da soli,
se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno?
Tesfalidet Tesfom
Il pezzo di carta contenente questi versi è conservato all’hotspot di Pozzallo dentro un foglio plastificato etichettato con la lettera G e il numero 1, il codice usato per identificare il primo migrante sceso dalla nave Proactiva nello sbarco di 92 persone del 12 marzo 2018. Dalla nave, Tesfalidet è dovuto scendere portato in braccio dal medico dell’Usmaf perché troppo debole per camminare, ridotto pelle e ossa dopo la detenzione in Libia. Al suo arrivo in Italia pesava appena 30 kg e per tutti era “Segen”, un soprannome che nel piccolo villaggio eritreo di Mai Mine, da dove era partito, viene dato alle persone magre, alte e con il collo lungo da giraffa.
Segen è morto poche ore dopo lo sbarco ed è allora che gli hanno trovato indosso, custoditi in un portafoglio senza soldi, i due fogli di carta utilizzati per scrivere le sue poesie.
Per qualche giorno la storia di Segen e dei suoi versi è rimbalzata sugli organi di stampa e sul web. La poesia è riuscita a strappare all’anonimato dei numeri un nome, un volto, una storia, delle parole, ha aiutato Segen a esprimere la sua sofferenza e noi (forse) a comprenderla.
Una storia che invita a riflettere, oltre che sul dramma umano dei migranti, sul ruolo che la poesia (e più in generale la letteratura tutta) può avere nel proporre un’alternativa a narrazioni spesso stereotipate, xenofobe e discriminanti dei fenomeni migratori.
Rispetto alle parole a volte vuote e superficiali della cronaca, il linguaggio poetico può infatti riuscire a restituire pienezza e profondità a esperienze che nella loro tragicità travalicano il singolo dramma individuale e investono l’umanità tutta. La scrittura poetica diventa strumento espressivo in grado di comunicare l’inesprimibile. Questo, Segan deve averlo intuito, percepito, se nella sua traversata l’unica cosa che ha sentito il bisogno di portare con sé è stata la carta per esprimere le sue emozioni, la sua solitudine, la sua rabbia, il suo pianto, la speranza di essere ascoltato.
Al lettore la scrittura poetica arriva in modo diretto, con la precisione e l’inarrestabilità di un proiettile che colpisce al cuore o di un pugno allo stomaco.
Normalmente quando leggiamo, che si tratti di un testo di prosa o di un articolo giornalistico, attiviamo per prima cosa le funzioni cognitive che ci consentono di comprenderne il contenuto; successivamente proviamo o meno emozioni dettate da ciò che suscita in noi quel che abbiamo letto, dalle riflessioni che ci ha stimolato e dai vissuti esperienziali che ha rievocato. Con la poesia credo avvenga l’esatto contrario: immediatamente siamo investiti da un’emozione a partire dalla quale si attiva in seguito un processo di elaborazione e riflessione allo scopo di comprendere le ragioni per cui quelle parole, che possono lavorare nella mente per giorni, hanno prodotto un tale effetto su di noi.
La forma poetica può quindi essere molto efficace nella narrazione dei fenomeni migratori, riuscendo, grazie all’empatia indotta dalle emozioni, a rompere gli argini del pensiero preconcetto o ideologico innalzati spesso come meccanismo di difesa verso ciò che spaventa perché non si conosce e non si comprende.
Esiste un’intera produzione letteraria nota come “scrittura migrante”. Stando alla banca dati Basili – istituita nel 1997 da Armando Gnisci, docente di Letteratura comparata all’Università di Roma La Sapienza – in Italia sono circa 600 gli autori migranti translingui e di nuova generazione. La conoscenza e valorizzazione di tale produzione letteraria potrebbe contribuire a mettere in discussione quella rappresentazione della migrazione dominata dalla dimensione emergenziale che è oggi la più diffusa nell’immaginario collettivo.
Non mancano, fortunatamente, progetti e iniziative che si muovono in questa direzione.
Ispirandosi alle parole di Izet Sarajlic, “Anche i versi sono contenti quando la gente si incontra”, il progetto Voci migranti, ideato e realizzato da Casa della poesia di Baronissi/Salerno e giunto alla terza edizione, offre a centinaia di studenti delle scuole superiori l’opportunità di incontrare poeti provenienti da varie parti del mondo e appartenenti a tipologie particolari: poeti che emigrano per vari motivi o che sono figli/nipoti di emigrati, poeti che incontrano e “soccorrono” gli emigrati, poeti che perdono la patria o la lingua. L’obiettivo del progetto è di sensibilizzare i giovani coinvolti a un dialogo con le culture altre e di stimolare, attraverso la condivisione di esperienze ed emozioni, la capacità di assumere il punto di vista degli altri.
Voci migranti è un progetto multimediale e multidisciplinare, articolato in una serie di reading seguiti dal confronto con gli autori, preceduti da un percorso propedeutico di avvicinamento costituito da incontri di studenti e docenti con gli organizzatori del progetto, che hanno messo a disposizione materiali didattici multimediali (testi, interviste, link a siti – Casadellapoesia.org; Potlatch.it – dove è possibile trovare materiali audiovisivi, approfondimenti, ecc.).
Gli incontri si svolgono nelle sedi degli istituti coinvolti o in luoghi pubblici e sono sempre aperti alla partecipazione di chiunque sia interessato, per favorire un dialogo con le fasce giovanili e con la popolazione cittadina.
A parlare di migrazione devono essere gli stessi migranti: parte da questa idea semplice, nell’aprile 2019, il progetto editoriale “The Black Post- L’informazione nero su bianco“, il primo giornale online redatto esclusivamente da ragazzi e ragazze immigrati, che possono però contare, nel caso di difficoltà a scrivere in italiano, sull’aiuto di giornalisti, professori e studenti che collaborano al progetto; una collaborazione che è già un esempio di inclusione interno alla redazione.
Lo “straniero” da oggetto dell’informazione diventa quindi soggetto attivo della comunicazione, perché l’obiettivo dichiarato dai promotori “non è quello di parlare di loro, ma di fare in modo che siano loro stessi a parlare e descrivere la vita e il mondo che li circonda”, restituendo in questo modo la propria soggettività a chi la vede spesso negata, se non bandita. “Nero su bianco” – è spiegato sul portale – “significa nitidezza, precisione. Ma può significare anche rovesciare il punto di vista, ribaltare la prospettiva, cambiare lo sguardo con cui leggere la realtà: leggerla e soprattutto scriverla”. Ed è attraverso la poesia – a cui è dedicata una specifica sezione del portale – che spesso i redattori di Black Post scelgono di raccontarci la loro esperienza di migrazione.
Sempre sulla rete, è stato da poco lanciato il progetto “Words4link – scritture migranti per l’integrazione” che si prefigge di divulgare e promuovere i testi e le storie degli scrittori di origine immigrata, nella convinzione che “la scrittura migrante possa contribuire a innescare un cambiamento nella rappresentazione dei migranti nell’immaginario collettivo, affinché si creino a livello sociale e dell’opinione pubblica condizioni sempre più favorevoli alla convivenza con cittadini dei Paesi terzi, superando le percezioni negative e i pregiudizi”.
Il progetto Words4link – che vede come capofila la cooperativa sociale Lai-momo e come partner il Centro Studi e Ricerche IDOS e l’Associazione Culturale Mediterraneo (ACM) – prevede la creazione di una rete di soggetti ed enti attivi nel settore, l’organizzazione di incontri tra autori, editori, giornalisti e pubblico, lo scambio di buone pratiche, una campagna di comunicazione nazionale ed europea sulle scritture migranti e una mappatura (disponibile sulla piattaforma interattiva del progetto) degli attori chiave: Autori/rici provenienti da Paesi non comunitari o nati in Italia, ma con origini straniere, che utilizzano la lingua italiana per esprimersi, tanto in ambito letterario (prosa e poesia) quanto giornalistico o saggistico, ma anche case editrici, associazioni, iniziative di ricerca, librerie, media che lavorano per la diffusione e la promozione delle scritture migranti.
Nell’attesa di poter attingere dalla biblioteca virtuale di Words4link a una più vasta produzione poetica migrante, qualche consiglio di lettura:
AA.VV., Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Le Lettere, Firenze 2006
L’antologia raccoglie le opere di venti poeti provenienti da diversi Paesi del mondo, accomunati dalla scelta di utilizzare la lingua italiana come strumento espressivo. Seguono le sezioni dedicate ai singoli autori, in cui i versi sono introdotti da una scheda bio-bibliografica e da una dichiarazione di poetica.
Nel testo emergono molteplici temi e atteggiamenti riguardo la funzione della letteratura nella costruzione dell’identità culturale e la ricerca di una nuova patria e una nuova cittadinanza attraverso il tradimento delle radici e l’adozione della lingua italiana.
Tra i poeti presenti nell’antologia, ricordiamo:
Pap Abdoulaye Khouma, scrittore senegalese naturalizzato italiano. Immigrato in Italia nel 1984, si stabilisce a Milano, dove si occupa di cultura e letteratura. Iscritto all’Albo dei giornalisti stranieri dal 1994 è direttore di El Ghibli e fondatore e direttore responsabile di Assaman, una rivista online di informazione italo-africana. È inoltre presidente di giuria del Premio Internazionale di Poesia Léopold Sédar Senghor.
Ubax Cristina Ali Farah nata a Verona nel 1973 da padre somalo e da madre italiana. È vissuta a Mogadiscio (Somalia) dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Dal 1997 vive stabilmente a Roma dove si è laureata in Lettere presso l’Università “La Sapienza” e si occupa di educazione interculturale e della raccolta di storie orali di donne migranti residenti a Roma.
Collabora, inoltre, con numerose riviste e testate come Repubblica, Internazionale, Giudizio universale. In Italia i suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in diverse antologie e riviste. Nella primavera 2007 è uscito Madre piccola, il suo primo romanzo, edito da Frassinelli.
AAVV, “Sotto il cielo di Lampedusa”, Rayuela, 2014 con la prefazione di Erri de Luca
Sulle rive di Lampedusa
Sono sdraiati i resti delle nostre coscienze gonfie
Le rive di Lampedusa
Sono il viso sfigurato, gonfio e mutilato della nostra umanità
Oggi!
(Gassid Mohammed)
L’antologia “Sotto il cielo di Lampedusa” raccoglie 85 poesie scritte da ben 69 poeti, italiani e stranieri, donne e uomini, all’indomani della strage marittima del 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa, dove annegarono trecento migranti, molti di origine eritrea. Una raccolta di voci che si esprimono in arabo, francese, inglese, dialetto romagnolo e dialetti siciliani/lampedusani per esprimere il proprio dolore e la propria indignazione.
Il progetto nasce per volontà del gruppo di “1oomila poeti per il cambiamento di Bologna” (100 TPC) e della loro rappresentante bolognese Pina Piccolo. Il gruppo fa parte dell’omonimo 100 thousand poets for change, creato da Michael Rothenberg e Terri Carrion, i due californiani che, convinti che la poesia possa avere un valore politico nel 2012 rivolsero a poeti di tutto il mondo un appello a unirsi e comporre versi su temi come i diritti umani, la compassione, l’ambientalismo. L’ associazione, in espansione anche in Italia, anima ogni anno in oltre cento nazioni diverse, un reading simultaneo intercontinentale.
Da quel momento i 100TPC di Bologna si sono mobilitati per raccogliere poesie di eritrei, somali, europei, che volessero dire qualcosa su questa strage o sull’esperienza dell’ immigrazione. Arrivano componimenti da tutto il mondo e, grazie al web, l’iniziativa acquista risonanza: agli sforzi di 100 Thousand Poets for Change si uniscono quelli di Carte Sensibili, Versante ripido e Il Golem Femmina. Nasce così un e-book, ospitato sul sito di GLOB011. Due settimane dopo, arriva la proposta di pubblicazione cartacea da parte di Rayuela Edizioni.
Il 10% dei proventi delle vendite dell’antologia sarà devoluto all’organizzazione internazionale “Eritrean Youth Solidarity for National Salvation”, organizzazione di giovani eritrei che si battono contro la dittatura vigente in quel paese. A sua volta l’organizzazione ha deciso di destinare quei fondi all’acquisto di altri libri per formare una piccola biblioteca da mettere a disposizione dei giovani provenienti dal corno d’Africa e di altri profughi.
Cara mamma, sono partita contro il tuo volere/ ti ho lasciata in lacrime, senza riuscire ad asciugare le tue lacrime questa volta ti lascio per sempre. Ho intrapreso un cammino difficile e tortuoso/ Ho incontrato molteplici difficoltà. Aimè sono stata depredata, violentata e torturata. Alle cui urla strazianti ti hanno obbligata ad assistere e viverle con me via telefono/ affinché impotente/ desolata e distrutta vendessi tutti i tuoi averi elemosinassi anche per strada. Tutto per riscattare la mia vita perché possa essere liberata e successivamente rivenduta ad altri trafficanti della morte. (Lacrima sul tuo volto, Bietelihem Berhane, Eritrea)
A casa ci voglio tornare, ma casa mia è la bocca di uno squalo/ casa mia è la canna di un fucile/ e a nessuno verrebbe di lasciare casa sua/ a meno che non sia stata lei a inseguirlo fino all’ultima sponda a meno che casa tua non ti abbia detto/ affretta il passo/ lasciati stare i tuoi stracci/ striscia nel deserto/ sguazza negli oceani/annega/ salvati/ fatti fame chiedi l’elemosina dimentica la tua dignità/ la tua sopravvivenza è più importante.
(Casa Warsan Shire – Trad. di Pina Piccolo)
Gëzim Hajdari, Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015
«Vado via Europa, vecchia puttana viziata… Addio Europa di muri, impronte delle dita e tombe d’acqua»
«Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne»
Il poeta albanese Hajdari ci ricorda che «L’arte, e la poesia in particolare, ci rendono capaci di oltrepassare i confini. Non è un tradimento ma un arricchimento. È il punto di partenza per un dialogo vero che abbatta tutti gli steccati nazionali e territoriali. Poiché tutti siamo migranti, lo siamo stati e la storia lo ricorda continuamente. Noi europei in particolare siamo nati da mescolanze continue di popoli e culture. Il nostro sangue è impuro e, per questo, più ricco».
Nato nel 1957 ad Hajdarai, un villaggio nella provincia di Lushnje (Albania), a 19 anni scrive la prima raccolta di poesie: Il Diario del bosco, che non viene accettato dall’editoria di regime, mentre in Italia verrà pubblicato nel 2001 col titolo Erbamara. La silloge che nel 2000 verrà pubblicata nel nostro paese come Antologia della pioggia esce in Albania nel 1990 dopo cinque anni di censura, in versione non integrale. Nel 1992 Hajdari fugge dall’Albania, dopo essere stato tra i fondatori del Partito Repubblicano e di quello Democratico (schierati all’opposizione del regime comunista) e dopo aver subito reiterate minacce ed essere scampato a una sparatoria nella sede del Partito Repubblicano. Giunto in Italia, non ottiene l’asilo politico poiché l’Albania è annoverata tra i “paesi democratici”. L’anno successivo viene pubblicato, presso una piccola casa editrice di Frosinone, il suo primo libro di poesie in italiano con testo a fronte albanese, Ombra di cane, che segna l’inizio una vasta produzione poetica e dei primi importanti riconoscimenti, fra cui il Premio Montale.
Soumaila Diawara, Sogni, Youcanprint, 2018
Soumaila Diawara, La nostra civiltà, Youcanprint, 2018
Soumaila Diawara nasce nel 1988 a Bamako, Mali, e all’età di tre anni, per motivi familiari, va a vivere con la nonna, attivista del primo movimento femminista del Mali. Durante il periodo universitario è impegnato in politica e nei movimenti studenteschi. Laureatosi in Scienze Giuridiche con una specializzazione in Diritto Privato Internazionale, abbraccia completamente la politica, entrando nel partito di opposizione Solidarité Africaine pour la Démocratie et l’Indépendance (SADI), ricoprendo l’incarico di guida del movimento giovanile. In questo periodo viaggia in vari paesi: Africa, America Latina, Europa e Canada. Diventa responsabile della comunicazione del suo partito, in collaborazione con la Sinistra Maliana e con l’Organizzazione della Sinistra Africana (ALNEF). Accusato ingiustamente, insieme ad altri, di un’aggressione ai danni del Presidente dell’Assemblea Legislativa, nel 2012 è costretto ad abbandonare il Mali. Nel 2014 parte dalla Libia (“In Libia, stavo per comprare il biglietto per la Svezia, per la quale ero riuscito ad ottenere un visto, ma sono stato arrestato e incarcerato per dieci giorni, perdendo tutti i miei documenti”) a bordo di un gommone e dopo il soccorso della Marina italiana approda in Sicilia e ottiene la protezione internazionale come rifugiato politico. Pubblica in maniera indipendente Sogni di un uomo, cui seguirà un secondo libro di poesie, La nostra civiltà.
Ndjock Ngana, La nostra Africa, Vis 2017
L’Africa – afferma il poeta Ndjock Ngana in un’intervista – quando non è immigrazione, sicurezza o minaccia islamica, ma è poesia, arte e cultura diventa una realtà marginale, invisibile. Una realtà che non interessa a nessuno, tranne a chi, nella vita, si è trovato a conoscerla di persona, come capita ad esempio ai missionari cristiani. Per questo i padri missionari sono tra i pochi che ne parlano senza riferirsi a migranti e sbarchi”.
Ngana, scrittore e mediatore culturale, nato in Camerun nel 1952, discende dall’etnia Basaa, che significa ‘custode delle tradizioni’. E nelle sue poesie emerge il profondo senso di identità trasmesso dagli anziani, “gli scrigni della parole”. Nel 1973 ha lasciato il suo paese per trasferirsi in Italia. Attualmente vive a Roma.
Ha seguito la strada dell’impegno politico, sociale, culturale per la conservazione delle culture africane e per la diffusione delle altre culture. Infatti, nell’89 ha fondato l’associazione Baobab con intellettuali africani e latinoamericani per l’integrazione degli immigrati, per la convivenza tra culture, religioni e l’ associazione Kel ‘Lam (“un bel giorno” in lingua basaa).
Ma Ndjock Ngana è anche e soprattutto poeta. In Italia ha pubblicato le raccolte di poesie “Foglie vive calpestate” ( 1989, Ucsei-Regione Lazio) e “Nhindo-Nero” (Anterem, 1995). E’ autore inoltre, di “Il segreto della capanna. Poema. Djimb li lapga. Hiembi” (Lilith Edizioni, 1998), di una raccolta di poesie e racconti “Maeba. Dialoghi con mia figlia” (Ass. Kel ‘Lam, 2005), primo libro della collana “Integrazioni interculturali” nata per iniziativa di Kel ‘Lam per rafforzare l’opera di sensibilizzazione portata avanti da anni nelle scuole. Ha pubblicato poi “Stress 1: Quel maledetto pezzo di carta” (Kel ‘Lam, 2006), che parla di storie di normale disavventura di un immigrato in Italia, raccontate in chiave tragicomica. Quest’ultima sua raccolta di poesie, “La nostra Africa”, è stata pubblicata in Etiopia grazie al Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), l’ong italiana che ha creato ad Addis Abeba la prima tipografia con corsi di grafica e stampa. La formazione di personale locale e la fornitura di strumenti tecnici sono l’obiettivo specifico di questo progetto che vuole contribuire alla realizzazione personale e professionale di ragazzi ai quali, altrimenti, non sarebbero offerte adeguate opportunità e offrire quindi alternative alla migrazione irregolare attraverso formazione professionale e opportunità di lavoro.
Chandra Livia Candiani con Andrea Cirolla (a cura di), Ma dove sono le parole? Le poesie scritte dai bambini nelle periferie multietniche di Milano nei seminari di una maestra speciale. Effigie, Milano, 2015
Voci timide, aggressive, spaventate, tormentate, sono le “voci poetiche” delle bambine e dei bambini migranti “spogli di diritto all’infanzia, spogli dei diritti elementari ad un luogo, una terra sotto ai piedi, una lingua comune, una casa accogliente, un prossimo”.
A pubblicarle nel libro “Ma dove sono le parole?”, la poetessa Chandra Livia Candiani che, insieme ad Andrea Cirolla, ha raccolto le poesie scritte dai bambini stranieri con un vissuto più o meno diretto di immigrazione, mettendosi in ascolto delle loro storie, grazie a un laboratorio tenuto nelle scuole elementari di periferia.
Queste poesie mostrano alcuni frammenti di vicende esistenziali, portando alla luce ciò che di solito nelle immagini degli sbarchi rimane in un cono d’ombra: quel che succede ai soggetti più fragili delle migrazioni, le esperienze che attraversano, l’impatto con un continente nuovo, il bisogno di amicizia e solidarietà.
L’amicizia
la senti
quando dai
la mano
(Maryna, nove anni)
I miei familiari sognano ad occhi aperti
ma pagano a occhi chiusi.
A noi manca
solo
un tocco di pazienza,
un tocco di pazienza per favore.
(Joy, nove anni)
Quello che resta nel mio paese è bello
quello che resta ancora c’è
quello che resta profumo
quello che resta graffia la morte
quello che resta profuma tutto
(Kiro, dieci anni)
Il silensio
Paura volio giocare ma o paura,
volio dire qualcosa ma o paura,
volio cantare ma ho paura,
tuti mi prendono in giro e o paura,
o paura di tuto e sono da solo.
Silensio.
Il silensio mi pasava tra le vene
sembra infinito il silensio.
(Marius, nove anni)
L’addio è un pane quotidiano
che si sta spezzando.
L’addio è una bellezza
da abbandonare
per saperla capire.
L’addio è una casa
per ripararsi dai lupi.
L’addio è profondità
da scalare, ma
bisogna aspettare
per arrivarci.
L’addio è un fuoco
che ti riscalda il cuore.
(Miriam, nove anni)
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
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Compiuta Donzella, la prima poetessa italiana
Compiuta Donzella fu una nobile fiorentina vissuta nella seconda metà del 1200 e morta probabilmente agli inizi del 1300, la cui importanza storica è notevole: si tratta probabilmente della prima voce femminile a scrivere componimenti in lingua volgare italiana.
Era una donna colta – privilegio riservato a pochi in tempi in cui l’analfabetismo era molto diffuso, specialmente tra le donne – e, secondo testimoni del tempo, come Guittone d’Arezzo che pare le fosse amico, anche stimata rimatrice. Eppure, di questa donna talentuosa nelle storie letterarie quasi non si trova traccia.
Di lei ci sono rimaste solo notizie frammentarie e alcuni critici ne mettono persino in dubbio l’esistenza, nonostante essa sia avvallata dalle lettere piene di stima indirizzatele dal medico Maestro Torrigiano che la chiamava “divina Sibilla”, da Maestro Rinuccino e, pare, persino da Guido Guinizzelli.
Difficile stabilire se Compiuta Donzella fosse il suo vero nome o solo uno pseudonimo, dato che il nome Compiuta era assai diffuso a Firenze, nel significato di “perfetta, piena di virtù” e Donzella potrebbe indicare il suo status di “signorina”, nonostante sarebbe stata fatta maritare dal padre, contro la sua volontà di entrare in convento, come dimostrano due suoi sonetti. Che alla fine Compiuta si mariti, lo testimonierebbe la lettera /panegirico di Guittone d’Arezzo in cui viene additata come “Donna” Compiuta, non più donzella, quindi probabilmente signora maritata.
I dubbi sulla reale esistenza di Compiuta sono stati suscitati dallo scambio poetico con Chiaro Davanzati che ha fatto supporre ad alcuni critici che Compiuta Donzella fosse solo una finzione letteraria creata appositamente dal poeta per ridere sull’ipotesi dell’esistenza di una poetessa con cui scambiare poesiole. Questa ipotesi fu in seguito additata come un tentativo di oscurare uno dei rari e importanti personaggi letterari femminili del passato.
Lo stesso critico e storico della letterature italiana Francesco de Sanctis ne riconosce l’esistenza e la qualità: «…la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale..» (Storia della letteratura italiana).
Daniele Cerrato, professore di filologia italiana all’Università di Siviglia, nel suo articolo “Nuove ipotesi su Compiuta Donzella” pubblicato nel 2014 nella rivista Estudios Romanicos, rimanda per uno stato della questione degli studi dedicati a Compiuta Donzella “all’articolo di Steinberg, J.: “La Compiuta Donzella e la voce femminile nel manoscritto VAT. LAT. 3793” in cui l’autore fa il punto sul dibattito sviluppatosi intorno a Compiuta Donzella”.
Aggiunge il professor Cerrato:
Anche Paola Malpezzi Price (1988) analizza i pregiudizi della critica letteraria nell’accettare l’esistenza di autrici come Nina Siciliana e Compiuta Donzella, seppur di fronte a prove abbastanza evidenti. Si tratta di un ostracismo che si estende anche ad autrici di altri paesi dello stesso periodo come Maria di Francia e le poetesse trobairitz. Gli elementi di contatto tra le scrittrici del Duecento italiano e autrici come Castelloza e Azalais de Porcairages sono talmente evidenti, sia per quanto riguarda i toni, sia per quello che concerne le tematiche, che è impossibile crederli frutto della casualità, come sottolineano anche Martinengo (1996) e Mérida Jiménez (2008).
Christopher Kleinhenz (1995) sostiene che i sonetti di Compiuta Donzella si possano analizzare alla luce della situazione sociale della Firenze del Duecento, dove i matrimoni forzati costituivano una realtà abbastanza diffusa. L’autore evidenzia come si tratti di un argomentato affrontato in altri testi dell’epoca, come ad esempio “Ormai quando fiore” di Rinaldo d’Aquino, o “Mamma, lo temp’è venuto”, contenuto nella raccolta di Memoriali
Bolognesi.
Giuseppe Lauriello evidenzia come, pur avvertendosi l’influenza trovatorica, nella poesia di Compiuta Donzella, “trapela comunque una spontaneità e una freschezza di sentimenti e di immagini del tutto personali, una ispirazione certamente assente nei verseggiatori transalpini e in tanti suoi contemporanei”.
Anche Carla Rossi mette in risalto la grande novità contenutistica di “A la stagion che’l mondo foglia e fiora e “Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire”: ‘Per la prima volta in ambito italiano, vengono elaborati quei temi topici della letteratura antico-francese, tanto oitanica quanto occitanica, di una ribellione, affidata alla scrittura in ‘voce di donna’, al potere decisionale maschile: temi di una controcultura femminile elaborati in antitesi al matrimonio forzato'”.
Di lei non rimangono che tre sonetti, ma è possibile che il corpus di testi a lei ascrivibili sia superiore. Ma, aggiunge Cerrato nel suo articolo, “altri suoi componimenti potrebbero celarsi nei Memoriali bolognesi o nello stesso Codice Vaticano, dimostrando a una continuità stilistica e tematica”.
I suoi sonetti giunti sino a noi sono in stile trovadorico-provenzale e rivelano la conoscenza approfondita della scuola siciliana. Vi si rintracciano i temi dell’amore cortese, le tematiche del repertorio popolare dei “contrasti” e il tema delle donne “malmaritate”.
I tre sonetti si intitolano “A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora”, “Lasciar vorria lo mondo e Dio servire”, “Ornato di gran pregio e di valenza” e ci sono stati tramandati da un unico codice (Vat. Lat. 3793), il “Canzoniere Vaticano”, la più ricca raccolta antica di poesia italiana delle origini, ovvero di poeti siciliani e prestilnovisti, fra i quali Compiuta è l’unica donna.
Nel primo sonetto, Compiuta lamenta l’infelicità della propria condizione, accentuata dallo sbocciare della primavera, descritta, nelle prime due strofe, come stagione degli amori che fa fiorire nei cuori delle damigelle l’amor cortese. Alla felicità delle altre fanciulle che possono abbandonarsi ai sentimenti, la poetessa contrappone lo smarrimento per il proprio infausto destino di promessa sposa contro la sua volontà. La natura fiorente non la “ralegra”, anzi, a causa dell’errore in cui si trova, ella vive in tormento continuo. Scrive ancora il professor Cerrato: “Compiuta non palesa, però, quali siano i suoi desideri, limitandosi a dire che questa situazione deriva dalla violenza paterna, di cui si sente ostaggio e vittima”.
A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;
la franca gente tutta s’innamora,
e di servir ciascun trag[g]es’ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan mar[r]imenti e pianti.
Ca lo mio padre m’ha messa ‘n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,
ed io di ciò non ho disìo né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia.
Il secondo sonetto, potrebbe rappresentare una tappa successiva nel percorso di presa di coscienza di Compiuta che, forse in seguito all’aiuto e ai consigli di una voce amica, sembra voler intraprendere un percorso religioso, dal momento che questa appare l’unica possibilità per evitare il matrimonio e la conseguente perdita di libertà (“ond’io marito non vorrìa nè sire”) e poter conservare una pur minima indipendenza e continuare a coltivare la poesia.
Lasciar vor[r]ia lo mondo e Dio servire
e dipartirmi d’ogne vanitate,
però che veg[g]io crescere e salire
mat[t]ezza e villania e falsitate,
ed ancor senno e cortesia morire
e lo fin pregio e tutta la bontate:
ond’io marito non vor[r]ia né sire,
né stare al mondo, per mia volontate.
Membrandomi c’ogn’om di mal s’adorna,
di ciaschedun son forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna.
Lo padre mio mi fa stare pensosa,
ca di servire a Cristo mi distorna:
non saccio a cui mi vol dar per isposa.
Nel terzo sonetto c’è una tenzone con un poeta anonimo che alcuni critici identificano con Chiaro Davanzati. Questi avrebbe aperto con lei uno scambio di strofe, e avrebbe ringraziato la poetessa per la risposta, scusandosi per averle rivolto versi d’amore in cui sembrava “chiedere troppo”. La poetessa loda dapprima il valore dell’uomo e si dichiara onorata dall’esser stata pensata da lui. Poi ricorda al destinatario l’invito che questi le ha rivolto a svelarle l’essenza della propria sapienza, da intendere come virtù intellettuale e morale, e con umiltà e delicatezza precisa di non meritare le lodi dell’uomo. La nutrita presenza di termini provenienti dal linguaggio della poesia amorosa cortese conferma ancora una volta come Compiuta non fosse affatto una scrittrice provinciale e ignara della tradizione lirica coeva, che anzi riesce ad assimilare e a far sua, come si è già precisato, in modo personalissimo.
Ornato di gran pregio e di valenza
e risplendente di loda adornata,
forte mi pregio più, poi v’è in plagenza
d’avermi in vostro core rimembrata
ed invitate a mia poca possenza
per acontarvi, s’eo sono insegnata,
come voi dite c’a[g]io gran sapienza;
ma certo non ne son [tanto] amantata.
Amantata non son como vor[r]ia
di gran vertute né di placimento;
ma, qual ch’i’ sia, ag[g]io buono volere
di servire con buona cortesia
a ciascun ch’ama sanza fallimento:
ché d’Amor sono e vogliolo ubidire.
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
I suoi account social: Facebook • Instagram • Twitter • YouTube
1941
L’anno in cui nel firmamento poetico e letterario si spensero tre luminosissime stelle: Virginia Woolf, Marina Ivanovna Cvetaeva e Karin Boye
“Sappiate che esistono solo omicidi.
Al mondo nessuno si è mai suicidato!”
(E. Evtushenko)
Tre indimenticabili scrittrici, tre donne straordinarie, tre vite tormentate, accomunate dallo stesso tragico finale e da una data: il 1941.
Non si conoscevano Virginia Woolf, Karin Boye e Marina Cvetaeva, eppure maturarono la stessa decisione di porre fine alle loro vite, nello stesso anno, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra.
È tragicamente lungo l’elenco dei suicidi che ha caratterizzato la letteratura femminile del secolo scorso: Sylvia Plath, Anne Sexton, Antonia Pozzi, Amelia Rosselli, Nadia Campana, Alfonsina Storni, per citare alcuni nomi.
Un elenco che testimonia il nesso fra scrittura e morte e fra malattia mentale e malattia sociale.
Lo psicanalista Paul Mathis sosteneva che “Lo scrittore non è sicuro di arrivare attraverso la scrittura a sciogliersi dalla pulsione di morte. Il suo rapporto con la morte rimane lancinante, oscuro, poco chiaro. In un primo tempo si potrebbe pensare che scrivere significhi proteggersi dalla morte” (Paul Mathis “I percorsi del suicidio”, Sugarco edizioni, 1979).
Dietro alle storie individuali e personali di presunta malattia psichica – “malate di nervi” o “isteriche”, così si veniva etichettate – si nascondono forse i presupposti storici e culturali per poter parlare di una sorta malattia sociale che lega con un filo rosso le sorti delle scrittrici del Novecento.
Non poteva del resto essere agilmente abitato dalla sensibilità poetica quel Novecento secolo di guerre mondiali, della persecuzione degli ebrei, di guerre civili e guerre fredde, di sanguinose rivoluzioni, delle dittature nazionaliste, dell’ossessione staliniana del nemico interno.
Alla difficoltà di trovare il proprio spazio espressivo in un’epoca pervasa dalla violenza, si aggiungeva la complessa gestazione di un nuovo sentire identitario sollecitato dalle lunghe lotte per i diritti portate avanti dalle suffragette inglesi di inizio secolo e poi dai movimenti femministi del ’68. Il ruolo tradizionalmente rivestito dalle donne nella società veniva messo in discussione, ma la conquista di nuove posizioni era contrastata e difficile da raggiungere.
Inevitabile che tali stravolgimenti sociali avessero delle ripercussioni su chi, per sua natura, nutre il bisogno di indagare e raccontare, come i poeti e soprattutto le poetesse, giacché la poesia femminile, più di quella maschile, come osserva Paola Mastracola, è “costruita sulla ricerca della verità: innanzitutto sulla ricerca della propria verità, di ciò che nella propria vita è “vero”; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare a costo di trovare il buio e l’orrore […] fino in fondo, fino alle estreme conseguenze: la follia ed il suicidio” (G. Davico Bonino e P. Mastracola, a cura di, “L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del 900” Mondadori Oscar, 1996).
La “cercatrice irrequieta”, si definiva Virginia Woolf, proprio a sottolineare la lotta quotidiana contro la cultura dell’epoca che, in quanto donna, la voleva “Angelo del focolare” facendola sentire, come ogni donna, perennemente in colpa. A lei fu precluso l’accesso agli istituti scolastici, al contrario ovviamente dei fratelli, ma ciò non le impedì di formarsi da autodidatta e rafforzò la consapevolezza delle minori possibilità avute in quanto donna. “Una donna deve avere denaro, cibo adeguato e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi” afferma in “Una stanza tutta per sé”, il saggio che rivendica la necessità, per le donne, di raggiungere un’istruzione completa e di poter accedere liberamente al mondo culturale. Passata alla storia come madre dello stream of consciousness, che sviluppò in testi fondamentali come “La signora Dalloway”, e “Gita al faro”, Virginia Woolf riuscì a indagare ogni aspetto dell’esistente, fondendo lirismo e indagine psicologica.
Nella sua vita ebbe due grandi amori, il marito Leonard Woolf e la scrittrice Vita Sackville-West, alla quale è ispirata una delle sue opere più visionarie, il romanzo “Orlando”, in cui Orlando è la stessa Vita, che nasce uomo e diventa donna, attraversando trasformazioni nel fisico e nella mente durante un’esistenza lunga tre secoli (dal XVII al XIX).
Da poco è uscito per Donzelli editore, uno splendido volume che raccoglie oltre un centinaio di lettere, le più significative dell’ampio carteggio tra le due donne che andò avanti per vent’anni: “Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio. Virginia Woolf, Vita Sackville-West”.
Aveva 59 anni Virginia Woolf quando, il 28 marzo 1941, raccolse nelle tasche delle pietre e si gettò nel fiume Ouse, nei pressi della sua casa nel Sussex. “L’unica esperienza che non descriverò mai”, così aveva scritto della morte. Il suo corpo fu recuperato solo tre settimane dopo, rinvenuto da alcuni bambini a valle. Con un’espressione tipica dell’epoca, il decesso fu archiviato come “suicidio mentre l’equilibrio della sua mente era disturbata”.
Eppure il marito, Leonard Woolf – intellettuale ebreo, attivo politicamente – in uno dei volumi della sua autobiografia, scrive che “la perdita di controllo della sua mente cominciò solo un mese o due prima del suicidio”. Woolf racconta anche che nel maggio e giugno del 1940 discutevano spesso di cosa avrebbero dovuto fare nell’eventualità di una invasione tedesca e che entrambi erano giunti alla conclusione che si sarebbero suicidati. Non si trattava di un pensiero astratto, ma di un progetto concreto: pare infatti che, tramite il fratello psicanalista di Virginia, si fossero già procurati delle dosi letali di morfina.
Questo fatto sembrerebbe provare che la morte, il suicidio, fossero lucidamente contemplati da Virginia Woolf e allontanerebbe l’ipotesi del gesto inconsulto dettato da disturbo mentale.
Thomas Szasz, che con il suo libro, “La mia follia mi ha salvato”, si propone di liberare Virginia Woolf dai luoghi comuni che la riducono a vittima della malattia mentale, sostiene che se di “follia” dobbiamo parlare nel caso di Virginia, si tratta del rifiuto di mettere in comunicazione le varie parti di sé e di far dialogare tra loro i suoi molteplici io, scegliendo di tenere distinte e separate differenti sfere della sua vita. Al punto che, secondo Szasz, ella si uccise non perché fosse veramente folle, ma semplicemente perché “voleva mettere fine alla sua vita”, per stanchezza e disillusione.
Karin Maria Boye è stata una scrittrice, poetessa e critica letteraria svedese.
Fu la madre, attiva sulle tematiche femminili, politiche, religiose e con una formazione in letterature classiche europee, a occuparsi della prima educazione di Karin. Un imprinting che segnò gran parte della sua vita. Gli anni del liceo segnarono la svolta, con la scoperta della propria bisessualità, che la portò a respingere le sollecitazioni a iscriversi alla facoltà di teologia, ritenendo che tale percorso l’avrebbe portata a dover rinnegare la sua natura. E proprio alle svolte che avvengono nella vita e al dubbio riguardo l’esistenza di Dio sono dedicate le poesie della sua prima raccolta “Moln” (Nuvole).
Karin si iscrisse all’università di Uppsala, dove studiò greco antico e lingue e letterature nordiche, prese parte al movimento radicale socialista Clarté e si sposò. Ma la lacerazione provocata dalla consapevolezza della propria inclinazione bisessuale e dall’impossibilità di accettarla pienamente – anche perché l’omosessualità era considerata reato in Svezia – contribuì a farla sprofondare in un periodo di grave depressione con tendenze suicide, a seguito del quale decise di partire per Berlino, dove si sottopose a psicoanalisi. Durante la permanenza in Germania incontrò Margot Hanel, una giovane donna ebrea di estrazione borghese che visse con lei fino alla sua morte e che si tolse la vita un mese dopo il suo suicidio.
Sarebbe però riduttivo ritenere che all’origine del suicidio della Boye ci fosse esclusivamente un dissidio interiore per la non accettazione della bisessualità. Con i suoi viaggi nell’URSS di Stalin, nella Germania che preparava il terreno all’avvento di Hitler e nella Grecia culla della civiltà e dei valori a lei più cari, Boye fu testimone diretta delle profonde inquietudini del Novecento, quelle che poi la ispireranno a scrivere il romanzo distopico “Kallocaina” (spesso accostato a “1984” di George Orwell, pubblicato 9 anni dopo, e a “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley).
Sarà proprio nel giorno in cui la tanto amata Grecia venne invasa dalle truppe tedesche, il 23 aprile del 1941, che Karin si suicida, solitaria nella natura, con un’overdose di sonniferi.
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono.
Perché dovrebbe altrimenti esitare la primavera?
Perché tutta la nostra bruciante nostalgia
dovrebbe rimanere avvinta nel gelido pallore amaro?
Involucro fu il bocciolo, tutto l’inverno.
Cosa di nuovo ora consuma e spinge?
Certo che fa male, quando i boccioli si rompono,
male a ciò che cresce
male a ciò che racchiude.
Certo che è difficile quando le gocce cadono.
Tremano d’inquietudine pesanti, stanno sospese
si aggrappano al piccolo ramo, si gonfiano, scivolano
il peso le trascina e provano ad aggrapparsi.
Difficile essere incerti, timorosi e divisi,
difficile sentire il profondo che trae, che chiama
e lì restare ancora e tremare soltanto
difficile voler stare
e volere cadere.
Allora, quando più niente aiuta
si rompono esultando i boccioli dell’albero,
allora, quando il timore non più trattiene,
cadono scintillando le gocce dal piccolo ramo,
dimenticano la vecchia paura del nuovo
dimenticano l’apprensione del viaggio –
conoscono in un attimo la più grande serenità
riposano in quella fiducia
che crea il mondo.
(Traduzione di Valeria Marcheschi)
da “Karin Boye, Poesie”, Le lettere, Firenze, 1994
Marina Ivanovna Cvetaeva fu una delle voci più originali della poesia russa del XX secolo e l’esponente più di spicco del locale movimento simbolista.
Nata a Mosca l’8 ottobre 1892, figlia di un professore di Belle Arti all’Università di Mosca e di una pianista, Marina trascorse l’infanzia in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. Dotata di un’intelligenza vivissima, a sei anni scriveva già poesie in russo, francese e tedesco.
Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Il suo primo libro, “Album serale”, contenente le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni, venne pubblicato a sue spese e in tiratura limitata; ciò nonostante fu notato e recensito da alcuni tra i più importanti poeti del tempo, come Gumiliov, Briusov e Volosin. Fu a casa di quest’ultimo che, nella primavera del 1911, incontrò il suo futuro marito, Sergej Efron; avevano 17 anni lei e 18 lui. Di lì a poco comparve la sua seconda raccolta di liriche, “Lanterna magica”, e nel 1913 “Da due libri”. Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja).
Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi. Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al 1922. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola Irina, nata in aprile, in un orfanotrofio, dove morì poco dopo per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, Marina raggiunse il marito all’Ovest.
A Praga visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925, dando alla luce il terzo figlio, Mur. Partì in seguito per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni. Anno dopo anno, tuttavia, fattori diversi contribuirono ad un grande isolamento della poetessa e ne comportarono l’emarginazione. Sempre più immersa nella miseria, si decise a tornare in Russia. Nell’agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag. Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e fucilato Efron. La Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria, dove visse momenti di disperazione, abbandono e desolazione inimmaginabili.
Il 31 agosto del 1941, di domenica, Marina salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta.
Un anno prima del suicidio scriveva sul suo quaderno: “già da un anno cerco con gli occhi un gancio… Da un anno misuro la morte. Tutto è mostruoso e terribile. Ingoiare pasticche è disgustoso, buttarsi da una finestra è abominevole e ho un’innata ripugnanza per l’acqua. Non voglio spaventare nessuno (da morta), mi sembra di aver già paura, da morta, di me stessa. Non voglio morire. Voglio – non essere. Assurdo. Finché sarò necessaria… ma, Dio mio, come sono piccola, quanto poco posso fare! Vivere fino in fondo – è come masticare fino in fondo. Assenzio amaro.”
La poesia della Cvetaeva, spesso enigmatica, riunisce in sé eccentricità, metafore paradossali e rigoroso uso della lingua. Se durante la prima fase creativa, la Cvetaeva risentì dell’influenza di Majakovskij e del suo vigore poetico, in seguito se ne distaccò e si accostò maggiormente sia all’animo poetico di Puškin sia al poeta e scrittore Boris Pasternak, che conobbe per lettera e di cui s’innamorò completamente. Marina e Boris si scrissero per quattordici anni, senza mai incontrarsi, si sostennero, irragionevolmente travolti l’uno dall’altra, essenziali l’uno per l’altra. “Tu mi sei affine tutto, da parte a parte, terribilmente e angosciosamente affine, come io a me stessa”. (“Il Settimo sogno. Lettere (1926)”, Editori Riuniti).
“L’amore di Marina Cvetaeva è un’arte poetica che comprende tutto, è un modo di vivere che a volte è disincarnato, costruito sopra l’assenza dei corpi, fatto soltanto di parole, a volte distrattamente erotico. […] Preferiva ‘amare gli assenti’ dentro il paese della sua anima, e attribuire loro anche le qualità che non possedevano: far combaciare l’amore con l’idea dell’amore. […] Aveva un bisogno carnale delle parole degli altri (‘trovate parole che mi incantino, credo soltanto agli incantesimi’) […] e cercava interlocutori alla sua altezza, persone che sapessero ascoltare, cercava un’eco alle sue parole, un’anima gemella vivente, o più di una, aveva bisogno di versi e di scintille, ma le persone si stancavano in fretta della fatica a cui lei costringeva la loro mente e tutti i muscoli dell’anima, e si ritraevano spaventate, stordite” (Annalena Benini “L’amore e il nonamore di Marina Cvetaeva”).
Non era certo una donna a cui importasse essere ragionevole o rispettabile, per tutta la vita oppose una coraggiosa resistenza alla rispettabilità: “Una donna per bene non è una donna. Una donna per bene non è una poetessa”.
Tentativo di gelosia
Ditemi: come va con l’altra?
Meglio? meno grane? – Mano ai remi! –
Vana linea costiera s’assottiglia,
scompare la memoria estrema
di me, isola fluttuante
(per cielo, non per mare…)
Anime, anime: sorelle! Anime:
amiche – mai più amanti!
Come vi va con la creatura
semplice? Senza divinità? E poi?
Voi, sceso dal trono, voi
che avete deposto la regina,
come vivete? Non c’è male? Non più
beghe? E bevete – quanto, adesso? E la cucina?
Il dazio della mediocrità immortale
come lo pagate, poveretto?
“Basta con le scenate, con gli eccessi –
cambio casa, vado via!”
Con la qualunque – come state
di che vivete, voi – mio eletto?
Mangiate – e dopo pranzo un sonnellino?
– Non lamentarti quando sarai sazio!…-
Con il simulacro come state
voi che avete dissacrato
il Sinai? Come vivete con la donna
terrestre? Per la costola vi piace?
Non vi frusta la fronte la vergogna?
La briglia di Giove vi dà pace?
E la salute? E i nervi? Senza
problemi? A letto tutto bene?
L’immortale piaga della coscienza
come la curate, poveretto?
Come vivete con la merce da mercato?
Troppo cara la vita? Vi assilla
l’alto prezzo? Dopo i marmi di Carrara
che ve ne fate del tritume
di gesso? (È in pezzi
il dio scolpito nell’argilla…)
Come ci state con la milleunesima
voi – che avete conosciuto Lilith?
Già v’annoia l’ultima trovata
della moda? Sottratto all’incantesimo,
dite, come ve la passate
con l’umana senza il sesto senso?
In coscienza – sei felice?
No? In quel disastro senza dei
come stai, amore? È dura? Sì?
Come per me con l’altro?
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
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Passaggi diVersi 2019 – Appuntamento con la poesia sotto le stelle
Intervista al curatore della rassegna, Fabrizio Lombardo
“I quattro giorni saranno in soffio calati nella notte; le quattro notti avranno presto, in sogni, soffiato via il tempo e la nuova luna, esile arco d’argento teso in cielo, dal cielo veglierà sulla notte dei nostri riti solenni.”
William Shakespeare
Sogno di una notte di mezza estate
Immaginate di trovarvi una sera d’estate in una città di mare, arte e cultura, all’interno di una chiesa del XIII secolo, il terreno erboso come pavimento, il cielo stellato come soffitto, accarezzati da una brezza di vento e di poesia.
Un sogno che ogni anno diventa realtà l’ultima settimana di giugno a Fano, quando l’ex chiesa di San Francesco ospita la rassegna di poesia Passaggi diVersi del Passaggi Festival – Libri vista mare.
Una scenografia unica e suggestiva, quella della chiesa priva di tetto, in cui durante le passate edizioni si sono alternati reading, presentazioni librarie, dibattiti e nomi importanti della scena poetica, fra cui, lo scorso anno, Vivian Lamarque.
Vivian Lamarque a Passaggi diVersi 2018
Un appuntamento imperdibile per gli amanti della poesia, che anche quest’anno si rinnova, da giovedì 27 a domenica 30 giugno, con quattro serate dense di proposte interessanti.
Ad aprire la rassegna saranno alcuni dei poeti selezionati nel 2018 per il progetto europeo Refest – immagini e parole sui percorsi dei rifugiati, di cui l’Associazione Passaggi Cultura (organizzatrice di Passaggi Festival) è stata partner italiano: Alessandro Anil e Franca Mancinelli, che presenteranno “Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani” (Anima Mundi Edizioni), che raccoglie le prose poetiche nate dall’esperienza vissuta in Bosnia Erzegovina e in Croazia; Flavia Novelli che in “Universi femminili” racconta in versi le storie di alcune donne migranti conosciute durante la residenza artistica italiana.
La seconda serata ospiterà Fabrizio Lombardo, con la sua ultima raccolta “Coordinate per la crudeltà” (Kurumuny), Marco Ferri, (“Uscita secondaria”, Manni Editori), Vito Bonito (“Fabula rasa”, Oedipus) e Vincenzo Bagnoli (“Soundscapes. 33 giri extended play” Carteggi Letterari) che converseranno con il critico letterario Enrico Capodaglio.
Milo De Angelis, una delle voci più significative della poesia italiana contemporanea, è invece l’attesissimo ospite di sabato 29 giugno. Con lui, sul palco della San Francesco, Roberto Galaverni (La Lettura – Corriere della Sera) e Stefano Semeraro (rivista Versodove). La rassegna si chiude domenica con Tommaso Giartosio, (“Come sarei felice. Storia con padre”, Einaudi), poeta, narratore, saggista e uno dei conduttori del programma “Fahrenheit” di Rai Radio 3. Il programma completo è disponibile sul sito di Passaggi Festival.
Passaggi diVersi è curata dal poeta bolognese Fabrizio Lombardo, in collaborazione con la rivista Versodove, di cui lo stesso Lombardo è stato, nel 1994, uno dei fondatori.
1. Fabrizio, come è nata l’idea di inserire uno spazio dedicato alla poesia all’interno di un festival che nasce nel 2013 come primo evento letterario italiano dedicato alla saggistica?
La poesia è un linguaggio capace di raccontare il presente molto meglio di altre scritture. Riesce ad essere immediata e tagliente, ha i tempi e i ritmi necessari al contemporaneo ed è insieme lentezza e riflessione.
Descrive noi, i nostri luoghi, i fallimenti dell’ideologia, delle ultime generazioni. È Roversianamente una descrizione in atto.
È perfetta per fare da controcanto alla saggistica.
2. Dal 2013 ad oggi, Passaggi Festival ha ampliato molto la sua offerta, aprendosi a contaminazioni con altri generi e linguaggi, dalla narrativa, alla graphic novel, dall’approfondimento scientifico alla saggistica per bambini, affiancando alle presentazioni librarie, laboratori per adulti e bambini, mostre d’arte, concerti. Come immagini il futuro di Passaggi diVersi? A quali contaminazioni si può aprire la poesia?
La poesia, per la sua forma, è certamente facilitata nel contaminarsi con altre arti. La forte carica musicale e ritmica dei versi porta la poesia ad accompagnarsi facilmente con la musica. Ma anche la componente visionaria, l’intensità delle immagini le permette di unirsi e sovrapporsi alla fotografia, alla pittura, alle immagini in movimento.
Sarebbe molto bello dedicare una serata alla poesia più contaminata con altre arti. Ad una poesia fatta di campionamenti trasversali agli altri linguaggi. Ne abbiamo parlato in redazione a Versodove e vorremmo ragionarci con la direzione del festival per il 2020.
3. Come poeta, ma soprattutto come direttore operativo di una importante catena di librerie, hai uno sguardo privilegiato sul mercato editoriale. É davvero così di nicchia, come sempre si dice, il settore della poesia?
Il mercato editoriale ha, in generale, un problema di iperproduzione soprattutto rapportato al dato di lettori che abbiamo in Italia.
L’editoria cerca sempre il colpo ad effetto. Oggi più che direttori editoriali ci sono manager e responsabili marketing che lavorano cercando di replicare il successo precedente. È un mercato che vive di libri sosia. Questo avviene anche nel micro mercato della Poesia che insegue i poeti web, quelli Instagram che, nel momento in cui cambiano forma e supporto, perdono la loro efficacia.
Il problema poi non è solo che la poesia è di nicchia ma il fatto che si trascina dietro una nomea di forma complessa e difficile.
In più i poeti sono autoreferenziali, ci si legge a vicenda, si vive in gruppi
Ci si scambia libri. Si dovrebbe avere il coraggio di allargare gli orizzonti confrontarsi, fare rete.
4. Pensi che festival e appuntamenti dedicati, come Passaggi diVersi, possano riuscire a stimolare l’interesse per la poesia?
In generale i festival sono momenti in cui il pubblico si avvicina agli scrittori, li incontra, li misura su di se e si avvicina maggiormente ai libri. Sono grandi opportunità di allargamento della lettura.
Per un linguaggio ancora da troppi considerato elitario e difficile come la scrittura in versi, permette di incontrare, ascoltare e capire meglio quanto questo linguaggio è cambiato, quanto si è contaminato, quanto la poesia è intrisa di presente e comunica. Oggi più che mai.
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
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Poetry Sound Library, la mappa sonora poetica mondiale
Intervista all’ideatrice Giovanna Iorio
«Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì la musica che sta dietro alle parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro a questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto.»
Friedrich Nietzsche
Le voci di Bertolt Brecht, Bukowski, Montale, Ungaretti, Apollinaire, Prévert, Neruda, Celan, Alda Merini, Amelia Rosselli, Sylvia Plath, Umberto Saba e di tantissimi altri grandi poeti del passato, insieme a quelle di centinaia di autori contemporanei, sono ora ascoltabili sul web con un semplice click. [Read more…]
Poeta? Poetessa? Quando a scrivere in versi è una donna
«poeta o poetessa? Non come te poeta io sono?/ io
sono poetessa e intera non appartengo a nessuno»
Biancamaria Frabotta
Recentemente, mi è capitato di condividere su Facebook un articolo in cui mi si definiva “poeta” al posto del consolidato “poetessa”, e nei commenti si è scatenata una piccola rivolta.
È comprensibile che l’uso del termine “poeta” come invariabile possa inizialmente suonare “stonato” a un orecchio abituato alla declinazione femminile in poetessa, ma penso che, se si dovesse propendere per la forma invariabile, con il tempo ci si potrebbe facilmente abituare.
Del resto la lingua è qualcosa di vivo e in continua evoluzione, dovendosi giustamente conformare ai cambiamenti sociali e culturali. Ciò riguarda in particolar modo la formulazione di neologismi per declinare al femminile i nomi di molteplici attività professionali di cui esistevano solo le forme maschili, semplicemente perché per secoli esse sono state precluse alle donne. Basti pensare al recente dibattito sull’introduzione di termini quali “sindaca”, “assessora”, “ministra”.
Si può correttamente obiettare che nel caso del sostantivo “poeta” esiste già la declinazione femminile. “Poetessa” è infatti una parola classica, accreditata da secoli di uso letterario. Le prime attestazioni epigrafiche del termine risalgono al III secolo a.C. e si riferiscono alle poetesse vaganti di età Ellenistica.
E allora perché da più parti si va sostenendo che sia più corretto usare “poeta” per entrambi i sessi?
Alla fine degli anni Ottanta, il termine “poetessa” viene messo in discussione nell’opera “Il sessismo nella lingua italiana”, curata da Alma Sabatini e promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione per le Pari Opportunità; un testo che promuove la parità linguistica tra i generi maschili e femminili, supplendo alla mancanza, nella lingua italiana, di declinazioni al femminile di alcuni termini.
Sabatini sostiene che «il latino “poeta, -ae” è di genere maschile, ma della prima declinazione, cui appartengono i nomi femminili» e che «Anche il plurale maschile “poetae” è foneticamente legato al genere femminile». Suggerisce quindi la studiosa «di usare “poeta” anche per la donna, che non la diminuisce come il suffisso “-essa” e (…) che, inoltre, ricalca foneticamente la maggioranza dei nomi femminili».
Ecco dunque una delle principali ragioni per cui viene proposto l’uso del termine poeta anche al femminile: la tendenza a considerare dispregiativi i femminili in -essa, a intravederci una sospetta “deminutio”, una connotazione negativa. L’introduzione di poeta al posto di poetessa si legherebbe quindi a una generale richiesta di sostituire le forme in –essa con forme senza suffisso: avvocata, dottora, professora, ecc. anziché avvocatessa, dottoressa, professoressa.
Certa cinematografia comica italiana degli anni ’70 e ’80 ci ha del resto abituati all’attribuzione di una valenza ironica, sarcastica e maliziosa alla declinazione femminili di alcune professioni: la “professoressa”, la “dottoressa”, la “soldatessa” ecc. Ma un utilizzo in qualche modo discriminatorio del termine “poetessa” pare etichettasse già le scrittrici del diciannovesimo secolo.
Un interessante articolo di Jessica Roberson su JSTOR Daily, tradotto da Roberto R. Corsi, bene illustra la discriminazione nei confronti del canone delle “Poetesse” e le remore di molti critici elitari maschi verso chi fa del sentimento il proprio argomento principe. Spiega l’autrice: «Il lavoro della Poetessa era, dunque, pertinente alle emozioni, gradevole, di facile lettura, ma non era visto come realmente artistico né ambizioso. Anzi, all’apogeo della tradizione delle Poetesse, ovvero negli anni venti e trenta del milleottocento, tale “etichetta” era intercambiabile con qualità “di genere” come sentimentalismo, emozionalità effusiva, immagini floreali.» E aggiunge: «Alcuni critici del ventesimo secolo hanno espresso riserve sulla qualità del lavoro prodotto dalla tradizione delle Poetesse, che spesso hanno impiegato tecniche formali di
vecchio stile, riecheggianti quelle destinate alle classi lavoratrici, come quella della ballata. In altre parole, le loro poesie erano accessibili. In più, i temi erano tipicamente di natura sentimentale, tesi a provocare emozioni più “tenui”: modalità di risposta spesso associata a mancanza di razionalità e verve intellettuale […] siamo stati culturalmente condizionati a credere che il sentimento vada benissimo, ma sia privo di ambizione e non sia prodotto di autentico genio (maschile).»
Ma diamo per assodato che non sussistano più pregiudizi associati al termine poetessa e consideriamo unicamente l’aspetto linguistico. “Poeta” al femminile non sarebbe certo un caso isolato, né tantomeno una stortura. Esistono svariate parole derivanti dal greco che sono invariabili: “atleta”, “pediatra”, “dentista”, “farmacista”, “acrobata”, “artista”, “musicista”, pianista, “concertista” questi ultimi legati, per di più, al mondo dell’arte, come poeta.
E allora perché non “la poeta”?
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
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È morto Nanni Balestrini
Scompare a 83 anni lo scrittore italiano del Gruppo 63
“È con tristezza e dolore che informiamo della scomparsa di Nanni Balestrini. Una scomparsa, non solo per noi, incolmabile”.
Con queste parole in un post su Facebook, la casa editrice Derive e Approdi comunica l’uscita di scena dello scrittore, poeta e saggista noto ai più per essere stato tra i protagonisti del movimento di avanguardia letteraria Gruppo 63.
Balestrini era nato nel 1935 a Milano, dove aveva iniziato molto giovane a lavorare come redattore della rivista letteraria il Verri per poi approdare alla casa editrice Bompiani, dove conobbe Umberto Eco.
Nel 1963, con Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti e lo stesso Eco, fondò a Palermo il più ampio gruppo di neoavanguardia letteraria, che deve il nome all’anno di nascita.
Il Gruppo 63 aveva tra i suoi obiettivi quello di superare la poesia e la prosa tradizionali con una produzione culturale sperimentale e politicamente impegnata. Balestrini, vicino al Movimento Studentesco, fu uno degli intellettuali più importanti delle contestazioni sociali e politiche degli anni Sessanta, che raccontò in diversi romanzi, tra cui Tristano e Vogliamo tutto.
Sempre nel 1963, pubblica con Feltrinelli la sua prima raccolta di poesie, Come si agisce.
In quegli anni fa anche le sue prime esposizioni d’arte e si dedica al teatro, in particolare nella forma della danza poetica.
Tutte le poesie di Balestrini sono state recentemente ripubblicate dall’editore Derive e Approdi in tre volumi.
Ed è con una poesia, come si conviene a un poeta, che vogliamo ricordarlo.
Avremmo potuto farne a meno
gli alberi fanno troppo rumore,
ma cosa ci stanno a fare
i cavalli, ciascuno per suo conto
avremmo finito per perderci,
fare ritorno, fare
tutto quello che vuoi, certe
volte gli alberi riescono
a crescere in direzione del cielo
aspirando l’esplosione dell’istante
inatteso, aspettando che finisca
di piovere, ispirati dall’istinto
correndo da una parte all’altra
ispidi, istigati dall’isteria,
il cuore pieno di bottoni,
le dita immerse, anguiformi,
com’erano belle dalla barca,
soffiamoci sopra, fine.
da Frammenti del sasso appeso
Flavia Novelli è nata a Pontebba (UD), ma vive da sempre a Roma. Laureata all’Università La Sapienza in Sociologia, con specializzazione in comunicazione, si è dedicata per diversi anni all’attività didattica e di ricerca e alla scrittura saggistica. Ma la sua vera passione è la poesia. A maggio 2017 ha pubblicato la sua prima silloge, “Vennero i giorni”, Edizioni Progetto Cultura. Il suo secondo libro, “Universi femminili”, Herald editore, è stato presentato a dicembre 2018 presso la Casa internazionale delle donne di Roma. Ad aprile 2019 è uscito il suo ultimo libro, “Parole nude”, edizioni Montag. È presente nelle antologie “Aspettando Santandar – Autori in evoluzione”, “Premio Mangiaparole Poesie” Edizioni Progetto Cultura, “Come Aquiloni” – Autori in evoluzione”, “Mi illumino d’immenso”, casa editrice Pagine, “Premio Afrodite”, Editrice Montecovello (vincitrice dell’omonimo concorso), “Poesia 2019. Centocinquanta poeti in antologia”, Il Viandante, “Lingua Madre Duemiladiciannove – Racconti di donne straniere in Italia”, Edizioni Seb27.
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